Da una settimana si discute vivacemente degli Stati generali dell’economia che stanno per aprirsi. Furono annunciati a sorpresa dal premier Conte nella sua conferenza stampa del 3 giugno scorso. A suo dire, una iniziativa nel solco delle parole pronunciate dal presidente Mattarella per la festa della Repubblica che aveva parlato di un “nuovo inizio” e di una “unità morale” del paese al modo del secondo dopoguerra.
Di suo, Conte aggiungeva il proposito di attrezzare l’Italia in vista dell’appuntamento del recovery plan e cioè delle ingenti risorse che la UE, a vario titolo, dovrebbe mettere a disposizione del nostro provato paese. Ma non scontate, erogate a fronte di concreti e precisi progetti. «Non un tesoretto a disposizione del governo di turno – notava Conte – ma un’opportunità per tutti gli italiani», che, di conseguenza, prescrive un «grande confronto di idee» che veda la partecipazione di «tutti gli attori del sistema Italia».
Il programma degli Stati generali, perfezionato nella loro immediata vigilia, contempla, in sequenza, gli interventi delle autorità istituzionali europee, delle parti sociali, di economisti, intellettuali, archistar, manager pubblici e privati, per chiudere con l’intervento di sintesi affidato allo stesso presidente del Consiglio.
Tale annuncio va contestualizzato. Esso, secondo la lettura convenzionale, si situa nella fase 3, che fa seguito alla prima, quella della gestione della più acuta emergenza epidemiologica e sanitaria, e della seconda, della prudente, graduale apertura dopo il lockdown. La fase cioè della ricostruzione.
Due passaggi cruciali
È utile fare memoria. Comunque si giudichi l’iniziativa, va riconosciuto che, se essa ha potuto essere ideata e promossa, è perché, a monte, stanno due cruciali passaggi.
Primo: la gestione della drammatica emergenza. Con il tempo, nelle sedi e con il distacco necessario, si farà il bilancio di quella gestione al centro e in periferia (e spero che non si rimetta tale bilancio ai tribunali, che pure e giustamente dovranno decidere di specifici casi a valle di legittime denunce). Ma, sin d’ora, in via generale e in chiave comparativa, possiamo notare che era difficile discostarsi dalla linea di severo rigore adottata dalle nostre autorità, a fronte di uno tsunami che ci ha investito per primi in occidente e con una virulenza inaudita. Specie se si osservano i ritardi e gli sbandamenti di altri grandi paesi.
Secondo: il negoziato condotto con le istituzioni della UE. Con la sponda di Francia e Spagna e riuscendo a smuovere la Germania. La quale UE, va riconosciuto, ha fatto un salto di qualità e di quantità che, solo pochi mesi fa, non avremmo immaginato. Come si è osservato, una smentita per i sovranisti di vario rito e nazionalità.
Ma torniamo agli Stati generali. Il loro annuncio ha, da subito, scatenato discussioni e polemiche politiche. Francamente sproporzionate. In senso positivo e negativo.
A ben vedere, un’occasione straordinaria di pubblico confronto ci sta. Sia perché è indubbio che siamo a un tornante di portata storica che ci sfida davvero a un’opera ricostruttiva di lunga lena e che dunque ci impegna, sin d’ora, a ridisegnare le basi dell’economia, della società e dello Stato; sia perché, in concreto, ci verranno messe a disposizione risorse senza precedenti dalla UE e altre le metteremo sul conto del debito pubblico, dunque delle future generazioni; sia, infine, perché, nei mesi alle nostre spalle, il governo ha varato provvedimenti emergenziali per fronteggiare la crisi economico-sociale, ma, comprensibilmente, senza avere elaborato una visione del paese e dei cambiamenti imposti da un vero e proprio cambio d’epoca. Giudicheremo poi se l’appuntamento avrà dato frutti.
Ma, a mio avviso, certe aspre critiche sono state deboli o strumentali. Esemplifico: circa il presunto protagonismo di Conte, circa la durata più o meno lunga dell’incontro, circa l’eccessiva carne al fuoco, circa il rapporto con le conclusioni della task force presieduta dal manager Colao, circa l’accento posto sull’ascolto piuttosto che sulla proposta da parte del governo, persino sulla sede. Argomento questo francamente pretestuoso cui si è appellata l’opposizione per disertare gli Stati generali, forse anche quale escamotage per mascherare le proprie divisioni interne. Non è un mistero che Berlusconi e FI abbiano subìto tale decisione.
Del resto, a proposito di rispetto delle sedi istituzionali, come dimenticare ben altre sgrammaticature del passato, quando importanti vertici interni e internazionali si tenevano a palazzo Grazioli e a casa del premier?
Un’occasione mancata da parte delle opposizioni, uno sgarbo politico-istituzionale, che fa il paio con la scomposta manifestazione romana del 2 giugno. Scomposta nei toni e nelle forme, ma, prima ancora, per la data, la festa della Repubblica, per eccellenza festa di tutti gli italiani, che avrebbe dovuto sconsigliare mobilitazioni contro.
Un problema invece esiste e spetta a maggioranza e governo farsene carico: quello di mettere ordine negli strumenti messi in campo. Solo qualche esempio: il rapporto già accennato tra Stati generali e Commissione Colao; quello tra le risultanze di entrambe e il Piano delle riforme già contemplato dalle regole UE da consegnare a breve, la legge di stabilità (la vecchia finanziaria) che forse sarebbe bene anticipare rispetto alla scadenza autunnale sempre al fine di rassicurare la UE, ma soprattutto l’esigenza di applicarsi al vero, principale problema, quello della implementazione dei tanti, troppi provvedimenti, senza la cura di accompagnarne e verificarne la pratica attuazione. Il vero punto debole di questo governo e, più in genere, da sempre, della nostra macchina pubblica.
È noto come l’annuncio degli Stati generali abbia generato malessere anche dentro maggioranza e governo. Soprattutto si è imputato a Conte di indulgere al protagonismo. Può essere, e tuttavia ho precisa memoria di un precedente istruttivo: quando Prodi – anch’egli come Conte privo di un suo organico partito di riferimento, sia nel suo primo sia nel suo secondo governo – stava crescendo politicamente, lievitò l’inquietudine dei partiti che lo sostenevano (Ds e Margherita), avvertendolo come un potenziale competitor elettorale.
E cominciarono le fibrillazioni e il logoramento. Gelosie alimentate da angusti interessi di partito o, ancor più, da un ceto politico che presidia militarmente la propria rendita di posizione. Chissà mai che al premier, ieri Prodi, oggi Conte, non venga in mente di farsi un suo partito!
Nodi politici irrisolti
Dunque, al fondo di quel malessere, stanno nodi politici irrisolti che riguardano certo il profilo e il futuro del premier, ma anche dei partiti di maggioranza.
Penso all’identità irrisolta dei 5 stelle, tuttora la forza maggioritaria in parlamento, che certo – va riconosciuto – non è più quella di inizio legislatura, ma che ancora deve maturare sul piano della collocazione politica, della cultura di governo, dei fondamentali di politica estera, della qualità della classe dirigente.
Penso al PD, che ha un problema in certo modo opposto, quello cioè di essere un partito a vocazione “governista” più che di governo, cioè associato all’establishment, che quasi si inibisce una sua autonoma visione circa la direzione del cambiamento. Come prescriverebbe la sua indole riformista e da sinistra di governo, tanto più in una congiuntura segnata da disagio e sofferenza sociale di massa, cui, talora, per paradosso, sembra più sensibile la destra.
Penso a Italia viva, un partito personale prodotto da una transumanza parlamentare, specializzatosi in una politica corsara e destabilizzante, all’ossessiva ricerca di visibilità mediatica. È il paradosso di un partito che cavalcò con enfasi il cambiamento e persino la rottamazione e che si è ridotto a praticare i più consunti moduli autoreferenziali della vecchia politica.
Infine, la sinistra di LeU, la più convinta nel sostegno al governo, ma che sconta un minoritarismo a sua volta connesso all’inerzia e al continuismo del PD dal quale gli ex compagni si attenderebbero un segnale.
Quattro forze la cui somma si risolve in una debolezza a fronte di una destra oggi inaffidabile e divisa e tuttavia elettoralmente favorita. Sin quando, tra i partiti di maggioranza e non solo (da Calenda a Bonino), non si aprirà un cantiere politico largo e davvero nuovo, nel quale ciascuno si metta in discussione. Se non ho inteso male, è ciò che predica Pierluigi Bersani, quasi più da osservatore che da attore politico.
Questa è la radice della debolezza del governo Conte: il difetto di un respiro e di un orizzonte politico, senza i quali stenta la stessa azione dell’esecutivo. Senza un’idea di società condivisa da un arco di forze a vocazione maggioritaria, ci si condanna a una sequela di interventi rapsodici e frammentari.
Tale scatto sarebbe nell’interesse del paese, in quanto, salvo traumi da non augurarsi, a elezioni verosimilmente non ci si può andare, complici l’emergenza, il referendum costituzionale, l’approssimarsi del semestre bianco nel quale il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere.
Piaccia o non piaccia, in parlamento non vi sono le condizioni politiche e numeriche per un’altra maggioranza e la suggestione di un governo di unità nazionale è appunto solo una suggestione. Una ragione in più perché l’attuale compagine di governo si dia un assetto e un respiro politico meno inadeguati a un’impresa ricostruttiva di immane portata.