Gli episodi sono contingenti, si sa. Alcune volte però ti danno a pensare, forse perché sembra di scorgere in essi qualcosa di emblematico. Almeno così è stato per me oggi, nella parrocchia bolognese dove vado a messa la domenica quando sono in città.
Fin dalla ripresa delle celebrazioni dopo il lockdown, un gruppetto di ragazzi e ragazze (credo scouts) svolgono il servizio di accoglienza della comunità che si riunisce per la messa. Gentili, cordiali, educati – e… infinitamente pazienti. Se una comunità parrocchiale celebra la domenica del Signore in questi tempi è (anche) grazie a loro. Non sono un “servizio d’ordine”, ma attori liturgici a cui dobbiamo la possibilità di riunirci domenicalmente ad ascoltare la Parola e condividere il pane dell’eucaristia. Ma forse non ce ne accorgiamo e li scambiamo solo per dispenser di gel igienizzante e commessi che ci accompagnano al posto – errore fatale per una comunità.
Veniamo a oggi: messa delle 11, un paio di banchi avanti a me una coppia, non più giovane ma dove nessuno dei due aveva bisogno di una qualche assistenza fisica, è seduta una accanto all’altro – anziché ai due posti esterni del banco. Un ragazzo dell’accoglienza si avvincina loro, garbato e gentile, chiedendo alla signora di spostarsi. La signora inizia ad argomentare, immagino fossero marito e moglie; il ragazzo la ascolta con attenzione, poi le chiede educatamente di sedersi comunque dall’altra parte del banco.
La signora rifuta borbottando e gesticolando. Il ragazzo, sempre con tono gentile, le chiede per favore di spostarsi. A questo punto la signora si muove di un palmo, per tornare immediatamente dove era prima non appena il giovane si era girato per aiutare altre persone della comunità parrocchiale. Quando si volta e vede la signora imperterrita aggrappata al suo posto, il ragazzo si rivolge ancora a lei con grande pazienza e un volto cordiale chiedendole di andare a occupare il posto marcato sul banco dall’altra parte. Non ottenendo nulla, ovviamente.
Mi ha colpito non solo la mancanza di rispetto della donna verso il giovane della parrocchia, che era lì affinché tutti si potesse celebrare insieme con intelligenza e sensibilità gli uni verso gli altri. Quello che più mi è rimasto impresso è la solitudine in cui questo ragazzo si è trovato mentre esercitava un servizio celebrativo per tutta la comunità. Nessun “adulto” che si alzasse per aiutarlo; intorno a lui il vuoto glaciale di una comunità assente.
È questo che mi ha fatto pensare… mi è sembrata una scena emblematica della solitudine comunitaria a cui abbandoniamo i nostri ragazzi, le generazioni più giovani, nella Chiesa odierna. Con la sua attenzione, delicatezza, educazione, questo ragazzo stava celebrando per noi la nostra possibilità di celebrare l’eucaristia – nella solitudine del farlo per tutta la comunità parrocchiale.
Sono sicuro che la settimana prossima sarà ancora lì, gentile col suo sguardo sorridente – e paziente, sopportando per passione comunitaria e senso della fede nonostante la nostra assenza. Non ce lo meritiamo; non ci meritiamo la sua generosità; non ci meritiamo la sua liturgia che consente la nostra.
Come in un flash mi sono scorse davanti agli occhi le scene delle troppe volte in cui come Chiesa non riusciamo a essere all’altezza dei nostri giovani – smettiamo di lamentarci di loro, quindi.
Non solo dei nostri ragazzi la solitudine ecclesiale… Anche degli adulti che camminano ai margini della comunità.
Comprensibile tutto, ma non l’illogicità e il controsenso di una legge che impedisce ad una coppia di stare vicini in Chiesa. Ci si deve pur ribellare a disposizioni prive di ogni minimo buon senso che ci hanno imposto, quando sappiamo benissimo che in questi e altri casi si filtra il moscerino e si ingoia il cammello. Soprattutto se guardiamo ad altri ambienti che non sono le Chiese!
E’ proprio vero. Grazie.
Giovanni Garlanda, Vercelli