La liturgia di questa domenica si apre con una bellissima piccola storia che ha la freschezza dei fioretti di s. Francesco, nei quali i miracoli quotidiani fioriscono con la semplicità e l’ordinarietà delle margherite, che si aprono in gran numero il mattino per chiudersi alla sera: “occhi del giorno”, come dice l’etimologia del nome che il fiore ha in inglese, daisy (day’seye).
Un gesto gentile
Qui il protagonista è il profeta Eliseo, in una piccola storia raccontata in 2Re 4,8-11.14-16a dove non succede niente di grande, come forse ci si aspetterebbe da un “profeta”. Quello che viene narrato è il gesto gentile di una donna, che, se pure “illustre”, ha la delicatezza di accorgersi che anche un profeta ha bisogno di sostare nei suoi vagabondaggi e di nutrirsi come qualsiasi essere umano. Prima gli offre il pasto diventato in seguito un’abitudine ogni volta che Eliseo transita nei paraggi, poi dà una forma più consistente al suo gesto di ospitalità: fa costruire per lui nella parte alta della casa una sorta di monolocale abitabile perché possa avere uno spazio suo dove “ritirarsi” e riposare. Non chiede niente in cambio, contenta solo di essere stata di aiuto a «un uomo di Dio».
E Dio la ricompensa con il dono più bello che potrebbe farle. Il senso di naturale gratitudine che spunta in Eliseo lo porta a prometterle il figlio quando ogni speranza di averne uno sembrava spenta.
Si noti, ancora, nella storia, il rispetto, quasi il pudore, che caratterizza la donna quando si sente chiamata dal profeta: risponde, accorre, ma si «ferma sulla porta»! Basta questo piccolo dettaglio per dipingere l’atteggiamento fondamentale di questa signora, felice di fare il bene, in totale gratuità.
Il brano prepara la serie di detti che ascolteremo nel brano evangelico, in cui ci verrà detto che l’amore per Dio va declinato soprattutto in termini di “accoglienza”, il cui spazio va dal «dare la vita» fino a «offrire un bicchiere di acqua fresca».
Immersi nella morte di Gesù
Prima però, sul tracciato delle letture, incontriamo un brano di Paolo (Rm 6,3-4.8-11) che porta il discorso molto in alto, tale che a tutta prima pare aver poco a che fare con il “fioretto” di Eliseo. L’incipit è impressionante: “Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?».
Confesso che ogni volta che trovo il verbo “battezzare” ho sempre paura che la parola rimandi subito, sempre e soltanto, a quanto accade oggi nel rito del battesimo dei bambini, così come quando sento parlare del sacramento come di una “cerimonia” fatico a non precisare che si tratta in realtà di molto di più di quanto dica questo termine italiano, che fa pensare piuttosto ad uno “spettacolo”, religioso o civile che sia, da guardare da fuori, e da mettere, se è il caso, nel cassetto dei ricordi o nell’album delle fotografie. Ancora una volta, come diceva il grande poeta inglese John Milton, per ritrovare la “verginità” delle parole bisogna tornare al loro significato etimologico.
Continuo a credere – come ho sempre fatto soprattutto in assemblee di anziani, che mi ringraziavano per averli aiutati a capire – che la prima forma di catechesi è la spiegazione del significato delle parole, in particolare di quelle che fanno la sostanza della fede come della liturgia che la celebra: lex credendi lex orandi!
L’espressione «battezzati nella morte» prende tutto il suo significato quando si pensa che “battezzare” significa immergere completamente, “impregnare corpo e anima” della materia in cui si è immersi, come fossimo spugne, la “morte” in questo caso, ma quella di Cristo, ed è questo che fa la differenza.
Non per niente Paolo continua il suo discorso ripetendo la stessa cosa con parole anche più chiare, dove «battezzati nella sua morte» diventa «sepolti insieme a lui nella morte», non certo per un funerale, ma per una “rinascita”, come la sua: lui fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre; noi, grazie a una stessa “immersione”, possiamo dietro a lui, «camminare in una vita nuova».
A proposito, credo che la più bella descrizione del battesimo di Gesù sia quella offerta da Marco che, tradotto alla lettera dal greco, suona così: «Venne Gesù e fu immerso nel Giordano da Giovanni. E subito, salendo, dall’acqua vide squarciarsi i cieli, e lo Spirito come colomba scendere su di lui» (Mc 1,9-10).
Il dinamismo della scena cambia notevolmente, se si pensa che la Bibbia CEI, anche se per comprensibili ragioni di chiarezza, usa «battezzato» e «uscendo» invece di «immerso» e «salendo», distruggendo da una parte la ricchezza metaforica dell’originale e facendo svanire il rapporto tra l’ascesa di Gesù, che annuncia già l’Ascensione, e la discesa dello Spirito una volta “squarciati” i cieli.
Inutile ricordare – credo – che il racconto di Marco non è solo la descrizione di quello che è avvenuto al Giordano, ma incorpora il suo significato teologico, che Paolo dispiega con chiarezza: morire con Cristo per vivere con lui, che poi diventa «consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù».
I molti modi dell’accogliere
Il vangelo, a questo punto (Mt 10,37-42), non dovrebbe sorprenderci più di tanto. L’inizio è perentorio e martellante: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me». Ma, se abbiamo capito che l’inizio e il tutto della nostra vocazione è segnato da una “immersione nella morte di Gesù”, non c’è da stupirsi che, alla radice, ci sia una scelta che è presentata in termini non di “opposizione”, ma di “priorità”.
Non ci viene detto che non dobbiamo amare nessuno se non Dio, come accade che taluno capisca, ma di mettere il nostro amore entro una scala gerarchica che ha al suo vertice Dio stesso e il suo modo di amare. Detto in altri termini: ogni nostro amore ha una radice buona, ed è il desiderio di un bene, ma è una radice ferita dal guasto originale che ci segna tutti, e che dunque va guarita e purificata alla scuola del modo di essere dell’amore di Dio quale ci è stato rivelato in Gesù. Il suo è un amore che si dona, che si mette a servizio, che accoglie e fa spazio, tutte esperienze che hanno anche un aspetto di “rinuncia” che si chiama “morire”!
Per cui, a cominciare dai rapporti primi e naturali, si tratta di amare le persone, in primis padre e madre, figlio o figlia, e tutto il resto, “in Cristo”, cioè “al modo di Cristo”. E questo “morire” si chiama propriamente “vivere”, è in effetti un “perdere” che diventa in realtà un “trovare”, è un “portare la croce” che si rivela alla fine un “essere portati da lei”.
A partire da questo grandioso paradosso, il discorso piega verso un panorama radioso, quello che si dispiega nelle varie forme di “accoglienza”.
Sono tre le forme che assume questa capacità di fare spazio all’altro, che vanno dal massimo al minimo.
Il principio è dichiarato, come si conviene, al primo posto: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». È la via regale di un rapporto che arriva direttamente fino al Padre, è la prima e più importante forma di accoglienza, quella che fa partire l’atto di fede: fare spazio a Dio, riconoscere che da lui dipendiamo in toto e rispondere con la nostra sottomissione alla sua volontà.
Il principio del comportamento che ne deriva sarà formalizzato da Paolo: «Accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo accolse voi per la gloria di Dio» (Rm 15,7).
Questo atteggiamento è così significativo da mettere sullo stesso piano chi accoglie e chi è accolto: così chi accoglie un profeta perché è profeta avrà la stessa ricompensa, così come chi accoglie un giusto perché è giusto avrà la ricompensa del giusto. A tutta prima sembra che il criterio valga solo all’interno della comunità dei discepoli. L’impressione è confermata anche dall’ultima forma di accoglienza, che esige davvero pochissimo: «chi avrà dato da bere un solo bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Forse qui si apre uno spiraglio su quella che parrebbe una categoria chiusa. Il termine “piccolo”, molto caro a Matteo, richiama l’attenzione che va loro prestata nel discorso alla comunità di Mt 18, e si allarga ancor più alle varie categorie della parabola delle pecore e dei capri nel giudizio finale in Mt 25, dove piccolo è chiunque si trova in situazione di necessità, che può essere accolto “come tale” senza che neanche ci sia bisogno di farlo “nel nome di Gesù”!
La stessa prospettiva troverà ancora uno spazio sconfinato nella parabola del buon samaritano di Lc 10,29-37, dove, come è ben noto, alla domanda “chi è il mio prossimo?”, Gesù risponde eliminando semplicemente lo schema mentale che irrigidisce le persone in categorie immobili e predefinite, salvandone una sola: quella che ingloba chiunque si trovi in stato di bisogno e di necessità.
I Padri hanno letto la parabola alla luce della storia della salvezza, vedendo nel malcapitato caduto in mano ai ladri la figura dell’umanità diventata preda del demonio e, nel “samaritano”, la figura di Gesù che è intervenuto a guarire le nostre ferite. Facendo questo non hanno utilizzato un’allegoria fantasiosa e peregrina, ma hanno capito benissimo il senso di quella storia.
Certo, dal «dare la vita» al «porgere un bicchiere di acqua fresca» la distanza sembra enorme, ma la logica è la stessa. La medesima che chiama “omicida” chi uccide un fratello ma anche chi gli dà del cretino (Mt 5,22).
Il senso di tutto ciò è l’invito a sorvegliare con grande attenzione sentimenti, desideri, pregiudizi, reazioni emotive davanti a ogni persona, che è sempre e comunque “altra”, per evitare che piccole radici cattive finiscano per diventare tronchi robusti e ingombranti, e che le pagliuzze che offuscano il nostro sguardo possano trasformarsi in travi delle quali arriviamo alla fine a non renderci neanche più conto.