Tutto comincia da un asino, neanche adulto e maturo, perché è ancora solo un puledro, ma che assume un grande rilievo perché è la montatura scelta dal Signore per fare la sua apparizione (Zc 9,9). Questa immagine, che si oppone alla figura del cavallo, tipica dei potenti di ogni razza, che ne fanno uno strumento di violenza e di aggressione, entra nella logica di un Dio che per affetto si “riduce”, e comincia a diventare vistosamente evidente in una nascita che avviene “a lato” e “lontano dalla propria casa”, nella mangiatoia di una stalla di Betlemme, perché per il bambino e i suoi genitori «non c’era posto».
Un asino
Su questo evento, la spiritualità affettiva, tipica dei grandi cistercensi della prima generazione, ha creato un immaginario tutto orchestrato sui vari modi in cui Dio, incarnandosi nel suo Figlio, per così dire, si restringe. Per Bernardo, Aelredo, Isacco,il Verbo diventa una parola che si accorcia (verbum abbreviatum), o addirittura si fa silenzio in un bambino (verbum in-fans: la parola che non parla) per non farci paura, e, per rispetto alla nostra vista debole, da sole diventa una lanterna, o si vela in una nube, che si comprime (se cohibet) per mettersi alle nostre misure (Isacco della Stella), che si veste dell’umanità come di un sacco, che poi sarà bucato durante la Passione per farne uscire la misericordia ivi contenuta (Bernardo).
Questo inizio, che appare nella nascita di Gesù, non farà che crescere lungo il cammino, fino a materializzarsi al livello massimo nella domenica delle Palme che segna l’ultimo ingresso di Gesù nel tunnel che lo porterà all’annientamento della morte, quando appunto apparirà cavalcando un puledro d’asina (cf. Mc 11,1-11 e par.).
Non scrivo questo per il gusto di drammatizzare o di fare il tragico. Al contrario, trovo in questa rete di immagini un grande annuncio di consolazione, peraltro dichiarato esplicitamente là dove la storia della Passione è introdotta da Giovanni come il segno che Dio, nel suo Figlio, ci ha amato e ci ama fino alle estreme conseguenze (cf. Gv 13,1). Da un po’ appaiono riflessioni che parlano della “debolezza di Dio”, e pubblicazioni dedicate alla “forza della fragilità”.
La figura dell’asino, con ciò che questo significa, sta prendendo quota da quando ci si è resi maggiormente conto che questo avvicinarsi di Dio alla nostra condizione di creature ha avuto alla fine anche il risultato di farci riscoprire la “maternità” di Dio, già mirabilmente intravista da Giuliana di Norwich, che ha alcune pagine splendide sulla figura di Gesù come «nostra Madre» (si vedano i capitoli 61-63 di Una rivelazione dell’amore, 2017, pp. 278-284), dove è scritto: «Le dolci mani della nostra Madre sono pronte e diligenti nel curarsi di noi. Perché lui in tutto questo lavoro esercita proprio l’ufficio di una gentile nutrice che non ha altro da fare se non occuparsi della salvezza del suo bambino» (pp. 280-281).
L’umiliazione del Figlio
La prima lettura, tolta da Zc 9,9-10, trova proprio nel puledro d’asina l’immagine chiave di un messaggio di pace, che proclama un ribaltamento radicale. Mentre la forza del cavallo evoca le devastazioni dei carri di guerra, dietro cui sta la tracotanza di re, sovrani, e potenti vari, la mitezza e la docilità dell’asino, animale utile e usato in tempi di tranquillità, avrà invece la forza buona che spezza gli archi degli eserciti che fanno strage, e può annunciare «la pace alle nazioni», non solo, ma avrà «un dominio che sarà da mare a mare e dal fiume fino ai confini della terra». Non è già l’annuncio della beatitudine per cui saranno i miti ad avere in eredità la terra (Mt 5,5)?
Peraltro, a gettare uno sguardo di totale sfiducia nella presunta “forza” e affidabilità del cavallo provvedono i salmi 33,17 e 147,10, che ci aiutano a diffidare del potere in ogni sua forma, e di riflesso ci invitano a confidare solo in Dio, che non è né tangibile né sfruttabile, ma che, sorprendentemente, ci si rivela in scelte che mostrano una prospettiva tutta opposta, quella che sembra mettere da parte tutti gli onni– che la filosofia gli ha attribuito.
Conosco qualche confratello che manifesta un chiaro fastidio per tutte quelle collette che cominciano con la formula «Dio onnipotente ed eterno», che lui cambia volentieri in «Dio benevolo e misericordioso». Forse non è un caso che la colletta prevista per questa domenica metta l’accento sull’«umiliazione del Figlio» che ha avuto l’effetto di «risollevare» l’umanità dalla sua caduta.
Asini e cavalli sono figure che temo siano molto lontane oggi dall’immaginario comune, e forse sono di scarso aiuto per aiutarci a capire il loro significato nel linguaggio antico. Potremmo sostituirli con la differenza che c’è tra una Ferrari e una Panda. Forse ci aiuterebbe a capire un grazioso aneddoto che si racconta di sant’Aidano di Iona, vescovo di Lindisfarne († 651), al quale il re Oswin di Northumbria regalò un bel cavallo per i suoi frequenti spostamenti. Aidano alla prima occasione lo passò a un mendicante, e quando il re gli chiese perché se ne fosse sbarazzato, si sentì rispondere: «Forse che ti è più caro il figlio di una cavalla che quel figlio di Dio?» (Beda, Storia ecclesiastica III,14).
Aidano peraltro amava muoversi a piedi perché questo, oltre ad essere un segno di povertà tipico del suo stile di vita, gli dava l’opportunità di incontrare le persone e di fermarsi a parlare con loro. C’è qualcosa da imparare per il nostro ministero tra la gente?
La seconda lettura (Rm 8,9.11-13) sembra non aver niente a che fare con quanto detto sin qui. In realtà il contrasto secco tra dominio della carne e quello dello Spirito riflette esattamente quello che c’è tra arroganza e mitezza, tra strafottenza e amabilità, tra orgoglio e umiltà. Mi pare sia il caso di ricordare che, a causa della nostra situazione di creature incomplete, noi non siamo mai autosufficienti, ma dobbiamo dipendere da un “padrone”: tocca a noi scegliere tra quello che ci schiavizza (la “carne”, marcata dalla nostra strutturale fragilità) e quello che ci libera (lo Spirito, che ridà vita anche ai morti).
“Bambini”
I «piccoli» arrivano a occupare il centro nel brano di vangelo (Mt 11,25-30). Anche in questo caso, e in parallelo, avviene un ribaltamento di valutazione: come l’asino di cui parlava Zaccaria era il vero “forte”, così il piccolo, di cui parla Gesù, è il vero “sapiente”, che conosce le cose che Dio rivela a differenza dei dotti e di quelli che si chiamano, e si credono, sapienti.
Il brano arriva al termine di un capitolo dove Gesù, dopo aver esaltato la grandezza di Giovanni il Battista, si lamenta della sua generazione, che non capisce i segni da lui operati, e lo considera «un mangione e un beone», e poi rimprovera alcune città che non si sono convertite davanti ai suoi prodigi.
Anche se non sembra ci sia una connessione diretta con quanto precede, pare evidente nel brano proposto per oggi che in quel «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra» Gesù tiri come un sospiro di sollievo: qualcuno che lo capisce c’è (se ne è reso conto anche lui, che aveva forse altre aspettative? Non sarebbe il primo caso in cui cambia idea), e questo qualcuno sono «i piccoli».
Chi sono costoro? Non certo, e non soltanto i bambini (che per il vero sanno fare domande e avere intuizioni sorprendenti!), ma piuttosto quei «poveri in spirito» già oggetto della prima beatitudine, che pare abbiano una capacità di ascolto, di attenzione e di comprensione superiore a quelli che si sentono sicuri, non sono abituati a fare e a farsi domande, non prendono sul serio la loro fragilità e indigenza, non sono perciò disponibili e aperti a ricevere niente.
O, se vogliamo partire proprio dal vangelo di oggi, sono tutti quelli che sono «stanchi e oppressi», e cercano aria per respirare e ritrovare fiducia.
E qui mi torna alla mente ancora Giuliana di Norwich, che dice al termine del cap. 63: «Io compresi che in questa vita non c’è condizione più alta di quella del bambino» (p. 284).
Mi piace trascrivere qui un bellissimo Salmo composto da Patrice de la Tour du Pin, che descrive tutto il percorso di fede sotto l’immagine del “bambino”: «Quando un bambino si sente amato da Dio si lascia fare * perché trova la sua gioia nell’amore di Dio. / Non cerca complicazioni inutili, * non lo dice a nessuno perché è un suo segreto. / Più tardi si stupirà delle prime colpe coscienti, * perché sente che non ha perduto quella amicizia. / Più tardi si chiederà cosa può voler dire questa ingiustizia, * quelli che si sentono amati da Dio e quelli che non lo sentono. / Più tardi questa amicizia che non viene mai meno gli farà paura, * e la metterà alla prova per sapere fin dove può arrivare. / Più tardi dirà a se stesso che ne è indegno, * e che se rimane così in lui è un’amicizia immaginaria. / Più tardi crederà di essere lui il proprio centro e la propria luce, * ma al di fuori di questi momenti l’amicizia di Dio sarà sempre là. / Alla fine si ripiegherà semplicemente su di sé, * dicendo: sono un bambino nell’amicizia di Dio. / Ringrazierà e pregherà * perché altre anime entrino nell’amicizia di Dio» (Une Somme de Poésie, Paris 1946, Psaume 47).
Resta da concludere il tutto con un verso folgorante di G.M. Hopkins, che in una poesia entrata in Inghilterra in tanti libri di preghiera di fine Ottocento, lacerato tra sensi di colpa e fiducia nella misericordia, sintetizza così il suo stato d’animo pacificato: «Cattivo son, ma pure il tuo bambino» (Bad I am, but yet thy child) [Poem 161].
Sulla scia di quanto afferma Nico Guerini, confesso che anch’io, come qualche altro confratello, mi prendo una piccola licenza liturgica: nelle preghiere in cui ci si rivolge a Dio “onnipotente ed eterno”, aggiungo “misericordioso”. E’ troppo sperare di trovare la stessa cosa nel nuovo Messale?