Il Cristo dell’Apocalisse

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Un gran bel libro, diciamolo subito. Compatto, sintetico e chiaro. L’abbiamo letto con attenzione ed estremo piacere. Con quasi seicento citazioni dei passi dell’Apocalisse (pp. 311-319), che è composta da 405 versetti, il volume di Francesco Piazzolla, quarantanovenne dottore in Teologia biblica docente a Matera e, come professore invitato, allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, costituisce un vero e proprio commentario in miniatura dell’ultimo libro della Bibbia, affascinante, intrigante ma non sempre facile da decifrare con esattezza.

Il lettore è guidato ad entrare con estrema facilità nel labirinto di Ap grazie alle introduzioni e alle sintesi teologiche che corredano ciascuno dei dieci capitoli del volume. Attraverso lo studio dei titoli cristologici, non per pericopi ma per aree tematiche, Piazzolla presenta di fatto una guida essenziale alla comprensione di Apocalisse.

Apocalisse dell’Agnello e del Figlio dell’uomo

L’autore del libro dell’Apocalisse – il «Veggente di Patmos», cioè molto probabilmente Giovanni Zebedeo quale capostipite della tradizione di area efesina a lui rifacentesi – presenta il Cristo con una rielaborazione profonda dei dati dell’AT, dei libri paratestamentari o apocrifi, della letteratura evangelica e di quella rabbinica. Nella categoria di «Agnello» l’autore di Ap coagula l’aspetto pasquale di morte e risurrezione, quello di debolezza del servo di YHWH e, infine, quello di vittoria gloriosa e potente sugli avversari.

Gesù Cristo, nel suo mistero pasquale, costituisce il soggetto e il contenuto dell’apokalypsis, cioè della rivelazione che Giovanni come profeta assistito dallo Spirito comunica alle Chiese dell’Asia Minore ma anche a tutti i popoli della terra e di ogni tempo. Il Cristo è il testimone fedele di Dio Padre, il «Primogenito dei morti», colui che, nell’autopresentazione in ciascuna delle sette lettere di Ap 2–3, si manifesta come il Signore della storia e la guida sicura delle comunità ecclesiali.

Piazzolla studia inizialmente il titolo di «Figlio dell’uomo» come è presentato nella visione inaugurale (Ap 1,9-20; pp. 17-36), ricordando come all’aspetto giudiziario escatologico questa figura assommi in sé anche quello totalmente nuovo della sofferenza.

Il settenario epistolare

Molto ricco è il messaggio che Cristo rivela nel settenario epistolare di Ap 2–3 (pp. 37-108, il capitolo più ampio del volume).

Ogni lettera che il Cristo rivolge alle Chiese comprende: 1) il titolo cristologico; 2) la narratio o esposizione del messaggio rivolto alla Chiesa; 3) la dispositio o ordine con cui si annuncia in modo intimidatorio l’avvento del Risorto; 4) la sanctio o corroboratio che indica il traguardo ecclesiale a cui le Chiese sono chiamate (chiamata da molti autori «la promessa al vincitore»); 5) la formula di proclamazione o Wekformel con cui si invita il destinatario all’attenzione a ciò che lo Spirito sta dicendo in quel momento per interpretare correttamente il vissuto ecclesiale.

Il Cristo si mostra alla Chiesa di Efeso come Signore e modello della Chiesa; a quella di Smirne come morto e risorto e quindi modello esistenziale da assimilare nel vissuto personale e comunitario; a quella di Pergamo viene presentata la spada a due tagli della Parola; a quella di Tiàtira il Cristo si presenta come il Figlio di Dio che è la luce comunitaria nel fascino mondano; alla Chiesa di Sardi si autodefinisce come datore dello Spirito e autore dell’identità ecclesiale, mentre a quella di Filadelfia si rivela come plenipotenziario messia davidico; alla comunità di Laodicèa il Cristo si presenta infine come Principe del creato e compimento delle promesse divine.

La «diagnosi» («conosco/oida») che il Cristo compie circa la situazione in cui versano le Chiese rivela pregi e difetti, invita con forza alla conversione, minaccia punizioni in vista del ravvedimento, fa intravedere promesse di vittoria sull’ambiente ostile che le circonda, idolatrico e dai tratti satanici.

L’Agnello, il giudice e il re

Ap 5,1-14 offre una rappresentazione cristologica dell’Agnello (pp. 109-134) che unisce in sé l’immagine del leone-agnello, quella dell’Agnello nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione, quella dell’Agnello guerriero e, infine, quella del datore della pienezza dello Spirito. Egli si situa al centro di una celebrazione cosmica e la sua immolazione è prevista fin dalla fondazione del mondo (così interpreto io, mentre Piazzolla parla di immolazione dalla fondazione del mondo).

In vari passi di Ap si parla del giudizio di Cristo fra presente e futuro (pp. 135-158). Alla fase iniziale del suo giudizio che si esercita già fin d’ora in modo incoativo nella storia, corrisponderà una fase finale escatologica. L’«ira» dell’Agnello è esodica, e induce alla conversione.

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Il cavaliere che monta il cavallo bianco già vince nella storia, ma la sua vittoria sarà completa solo nell’escatologia realizzata. Allora ci sarà la mietitura, metafora positiva della raccolta dei frutti della vita di fede dei credenti nel corso della storia, e anche la vendemmia, metafora negativa della distruzione del male accumulatosi nelle vicende umane chiuse a Dio.

Il cavaliere sarà giudice escatologico inappellabile (Ap 19,11-21). Piazzolla ricorda opportunamente che il sangue che inzuppa il mantello del cavaliere che monta il cavallo bianco è il suo, non quello dei nemici! (19,13). Cristo vincitore trionfa con il dono della propria vita (= il sangue) nel mistero pasquale, non con il sangue dei nemici.

Rispetto alla letteratura evangelica, l’Apocalisse parla in un modo del tutto particolare del regno di Dio e del Cristo (pp. 159-172). Un bambino è destinato a governare le nazioni (Ap 12,1-5a).

Cristo è descritto con numerosi titoli regali: «Principe dei re della terra», «Signore dei signori» – titolo scritto sul femore, dove normalmente si porta la spada –, è presentato come il re che combatte contro le nazioni e ha molti diademi sulla testa. Egli condivide il trono con Dio e la sua regalità si esercita in modo fatale e irresistibile contro ogni potere mondano chiuso a Dio, idolatrico, oppressivo della dignità dell’uomo.

Una cristologia ecclesiologica e sponsale

Il Cristo dell’Apocalisse è il Cristo pasquale, morto e risorto, ed è lo Sposo della Chiesa (pp. 173-194; il Giovanni dell’Apocalisse si collega qui a quello del Vangelo). La cristologia dell’Apocalisse è interamente relativa all’ecclesiologia in essa delineata.

Cristo ama la sua comunità e il Veggente di Patmos lo rivela fin dall’inizio (Ap 1,5b). L’amore dello Sposo si dimostra nella storia, durante la quale egli accompagna la fidanzata ufficiale/ragazza da matrimonio /sposa (gynē/nymphē) a diventare progressivamente la sua sposa in modo definitivo (nymphē), come avviene nei due momenti del matrimonio israelita (Ap 19,1-9).

La sposa viene adornata e «cosmetizzata» da Dio e da Cristo (Ap 21,2), ma nello stesso tempo ella si è preparata personalmente nella storia (19,7). L’autore di Apocalisse ricorda però che essa riceve in dono la veste di lino splendente e puro (byssinon lampron katharon) costituita dalle opere giuste dei santi, martirizzati ma sempre oranti e fedeli allo Sposo (19,7 «le fu dato/edothē», passivum divinum). Si noti che anche Babilonia la prostituta è vestita sfacciatamente di lino puro (18,16), ma non splendente!

La Chiesa si prepara quindi e lotta nella storia, ma nello stesso tempo è preparata e adornata da un agente divino misterioso (Dio? Cristo nello Spirito?). Essa cammina nella storia ma, nello stesso tempo, è connotata intrinsecamente da un dimensione sovrumana, celeste, divina, espressa tramite l’immagine della sposa che discende dal cielo.

Scene celesti. Il canto dei redenti e dei vergini

L’autore dell’Apocalisse interrompe molte volte in modo brusco il racconto delle vicende drammatiche che coinvolgono la Chiesa nel suo cammino storico, presentando numerose scene di vita celeste con il Cristo (Ap 7,1-17; 14,1-5; 15,2-4, 20,1-6; pp. 195-210). Esse intendono illuminare il senso del cammino della Chiesa, facendole intravedere la sua natura divina e celeste, sovrumana, espressa anche dai doni divini che già la corroborano nella sua lotta lunga e faticosa contro il potente nemico satanico.

L’Agnello conferisce fin d’ora alla sua Chiesa il dono della vita eterna (7,1-17). È perfetta – e forse nuova per molti – l’analisi compiuta da Piazzolla, il quale conclude affermando che i 144.000 segnati sulla fronte e la schiera innumerevole della moltitudine immensa costituiscono la stessa realtà. Non sono due gruppi distinti, «bensì una duplice maniera per parlare di tutti i redenti» (p. 196, citazione da un volume di G.K. Beale). Il termine «redenti» è infatti già presente in 5,9b per parlare dei salvati «da ogni tribù, lingua, popolo e nazione».

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I 144.000 sono inoltre definiti in Ap 14,3-4 «i redenti/hoi ēgorasmenoi» (participio perfetto passivo), riscattati nel passato e che restano tali nel presente perché «sono stati redenti/ēgorasthēsan» in un atto (pasquale) posto nel passato puntuale (aoristo passivo). Sono coloro che costituiscono la Chiesa celeste nel suo rapporto col popolo eletto di Israele e nella sua apertura universale a tutte le genti. È l’ecclesiologia tipica dell’Apocalisse.

La sequela dell’Agnello richiede radicalità e totalità d’intenti (essere «vergini», 14,1-5). A lui sale in eterno dalla terra il cantico di Mosè e quello dell’Agnello (15,2-4) che costituisce di fatto un unico canto!

Il misterioso regno millenario dell’Agnello (20,1-6) è contemporaneo alla lotta diuturna che la Chiesa sostiene nel suo travagliato cammino storico di lotta contro il potere demoniaco, il drago (13,2) che si serve di scagnozzi costituiti dalle potenze socio-politico-militari centrali e periferiche (la bestia che sale dall’abisso/mare, 13,1, e la bestia che sale dalla terra, 13,11). Quest’ultima è tenuta in piedi a forza di messaggi propagandistici. Un codazzo di yes men della propaganda omologante sono infatti il falso profeta a cui è concesso (!) perfino di «animare» la statua della bestia perché possa parlare e far uccidere chiunque non la adora (13,15).

Re e Sposo, vita, tempio e luce

La Chiesa è la sposa di Cristo Sposo, ma è ritratta anche come la «città escatologica», la Sion definitiva che scende dal cielo (Ap 21,1–22,5, pp. 211-228).

La città-sposa è a misura dell’Agnello (incommensurabile!), preziosissima, occupata al centro da Dio e dall’Agnello che sono insieme e contemporaneamente il tempio e la luce della città celeste, di giorno e di notte. È compatta, «cubica», dalle misure mirabolanti (21,16-17), fondata sui dodici apostoli e recante sulle porte i nomi delle dodici tribù di Israele.

In essa scorre il fiume di acqua viva descritto da Genesi e intravisto da Ez 47, ma arricchito sulle sue rive dall’albero della vita moltiplicato in senso collettivo, le cui foglie sono curative per le nazioni (22,2). Nella città celeste sono radunati tutti «i popoli» di Dio e dell’Agnello («i suoi popoli», 21,3). Vi si entra per la porta che è l’Agnello e in essa vi è comunicazione immediata con Dio e l’Agnello, senza più necessità di mediazioni templari e sacerdotali.

Mistero pasquale, paradigma esistenziale

Il messaggio unico e compatto del libro dell’Apocalisse è che il mistero pasquale che connota in modo totalizzante il Cristo diventa il paradigma esistenziale del credente (pp. 229-256). Se Cristo è il testimone/martire/martys fedele di Dio (1,5), la tribolazione e la prova segneranno in continuità anche la vita della Chiesa nel suo itinerario terreno (1,9). La perseveranza/costanza/hypomonē che la sorregge sarà però contemporaneamente dono di Cristo e impegno ecclesiale.

I «due testimoni» misteriosi di Ap 11,1-13 ne sono un esempio lampante. Sono l’aspetto profetico che connota la Chiesa di tutti i tempi. Essi sono uccisi per la loro testimonianza ma godono già della «prima risurrezione», anticipo della vita piena che attende tutti i fedeli a Cristo Agnello (la «seconda risurrezione»). I morti nel Signore (14,13), per la fede in Gesù, godono già il frutto delle loro opere.

C’è la prova, nella vita della Chiesa. Sono però ben sette le beatitudini a lei assicurate che ne accompagnano il cammino. (Le sette beatitudini dell’Apocalisse sono state il tema della tesi dottorale di Piazzolla, pubblicata ad Assisi nel 2010). La «testimonianza di Cristo» – testimonianza che Cristo soggettivamente dà di sé e la testimonianza offerta oggettivamente a Cristo nella fede da parte dei redenti – è testimonianza al vangelo, alla Parola, e si snoda tra persecuzione e martirio.

Il capitolo dieci, l’ultimo del libro (pp. 257-268), si sofferma proprio sul significato dell’Apocalisse come «rivelazione» di Cristo e della sua testimonianza.

La testimonianza di Cristo è lo Spirito di profezia

Il prologo (1,1-3) e l’epilogo del libro (22,6-21) dimostrano l’aspetto soggettivo e oggettivo del sintagma «testimonianza di Cristo».

Essa è contemporaneamente la rivelazione che Cristo fa di sé e quella che viene trasmessa nel libro dal profeta Giovanni grazie all’aiuto dell’angelus interpres e dall’opera potente dello Spirito, che è sempre presente in tutto il libro. Lo Spirito onnipresente («i sette spiriti», Ap 1,4; 4,5; 5,6) rende attuale ed efficace nella storia la parola e la presenza di Cristo Agnello pasquale.

In questo senso si può decodificare l’enigmatica espressione «La testimonianza di Gesù è lo Spirito di profezia» (19,10b). La testimonianza ha origine da Gesù, è trasmessa dal profeta Giovanni – il Veggente di Patmos –, grazie all’efficacia potente dello Spirito che corrobora e attesta in modo inoppugnabile la sua profezia nel corso del cammino storico della Chiesa.

L’Apocalisse è infatti sì un libro «apocalittico», rivelativo, ma dai connotati profetici: «parole della profezia di questo libro» (22,18; cf. 1,3). Non predice tanto il futuro (anche quello, evidentemente), ma rivela la profondità di senso offerta dal mistero pasquale di Cristo alla storia enigmatica e sofferta della Chiesa.

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Lo Spirito assiste e potenzia il sospiro accorato della Chiesa quando invoca lo Sposo: «Vieni» (22,17). E lo Sposo dice alla Chiesa di tutti i tempi: «Sì, vengo presto!» (22,20). La sua venuta è alle porte, ma è connotata soprattutto dalla subitaneità. Piazzolla ricorda infatti che tachy è un avverbio modale e significa «all’improvviso»; eutheōs è invece avverbio temporale per indicare «subito, immediatamente».

Piazzolla riporta con abbondanza i testi di Ap da lui commentati, sempre in traduzione personale molto corretta e precisa filologicamente.

In un volume ricchissimo di informazioni, di soluzioni esegetiche puntuali e chiare, ricco di note di dialogo scientifico filologico e biblico è pressoché inevitabile la presenza di refusi e di lapsus, soprattutto nella traslitterazione dei termini greci ed ebraici. Utile sarebbe anche l’indicazione della sigla degli stati americani a cui appartengono le città di edizione dei testi citati. A livello generale ricordiamo la necessità di indicare sempre con la lettera iniziale h tutti i termini che portano un accento aspro iniziale (es. hyios, hypomonē, rhēma ecc.).

Il prezioso volume di Piazzolla, che ringraziamo per aver composto una vera perla circa il complicato ma affascinante libro dell’Apocalisse termina con alcune pagine di Conclusioni (pp. 269-274), la ricca Bibliografia (pp. 2765-296), i preziosissimi Indici delle citazioni bibliche ed extrabibliche (pp. 297-320) e quello dei nomi (pp. 321-324).

Alcune note di errata-corrige e di aggiornamento, anche per sciogliere alcune oscurità. P. 9 r -9 leggi alt-; r ultima leggi älteren; p. 28 nota 60 leggi: «horaō ktl.», in GLNT VIII, 885-1074, qui 1041 nota 1 (cf. p. 1043); p. 69 rr -8-9: il verbo ebraico «frantumare» è rā’a’ (in realtà rā’a’ II); p. 79 r -5: il verbo non è un futuro ma un congiuntivo aoristo; p. 87 r 15: la Lettera ai Romani non parla di «conversione escatologica dei giudei» (!) ma della loro «salvezza» (pas Israēl sōthēsetai, Rm 11,26); p. 119 nota 48 leggi U. Wilkens (così anche a p. 324); p. 146 r 14: i frutti che cadono scossi dal vento in Ap 6,13 sono quelli «acerbi» e non quelli «maturi»; p. 168 nota 38 r 3 leggi Toronto 2017; p. 189 r -4 più che «pronta» la città è «preparata» (da chi? Da Cristo? da Dio?; hētoimasmenēn è un participio perfetto passivo); p. 179 nota 18 rr 2-3 il verbo ebraico è yāda’; p. 204 nel testo biblico r 3 leggi «mare di cristallo»; p. 214 nota 5 r 1 leggi «Lo stadio» e non «Il cubito»; p. 237 la citazione esatta del testo biblico è 11,3-6; p. 245 nota 55 r 2: il futuro è medio e non passivo; p. 250: le rr 17-23 vanno così ricomposte: «la battaglia contro Satana continua sulla terra perché “s’infuriò […] con il resto della sua discendenza (sperma = seme), quanti osservano i comandamenti di Dio e possiedono la testimonianza di Gesù” (12,17). In questa ulteriore aggiunta l’autore […] mostra che i discendenti della gynē sono “coloro che osservano i comandamenti di Dio e possiedono la testimonianza di Gesù”».

Alle pp. 279-295 si noti che esistono le traduzioni in italiano di: Baukham R., Theology (Cambridge 1993 e non 1995: Paideia, Brescia 1994); Dupont J. (non H.!), Les Béatitudes (2 voll., Paoline, Roma 1977-1979); Vanhoye A., Prêtres anciens (Elle Di Ci, Leumann [TO] 1985); Zumstein J, L’Évangile selon saint Jean (2 voll., Claudiana, Torino 2017); p. 280 ultima leggi Bergman J. – Botterweck G.J.; p. 281: dell’ottimo libro di Bovati P., Ristabilire la giustizia esiste una seconda edizione corretta Roma 22005; p. 323 leggi Strack H.L. – Billerbeck P.

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Un commento

  1. Gaetano Barbella 11 agosto 2020

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