Capita a volte nei capannelli di sacerdoti di sentire risuonare, tra il serio e il faceto, l’affermazione della Prima Lettera a Timoteo: «se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro» (3,1). Il kalón érgon del testo in greco (bonum opus nella Nova Vulgata) dell’epίskopos/sorvegliante/vescovo consiste nell’erigere la casa di Dio, in particolare coordinando i lavori della sua edificazione su fondamenta solide.
Il termine «vescovo» della Prima Lettera a Timoteo non può essere peraltro inteso tout court con il medesimo senso ecclesiale attuale: saranno soprattutto i santi martiri Ignazio (terzo vescovo di Antiochia, oggi in Turchia, morto nell’anno 107) e Ippolito (presbitero del clero romano al quale è attribuita attorno al 215 la redazione della Traditio Apostolica, da cui la riforma conciliare trasse le preghiere di ordinazione) a codificare la strutturazione terminologica fino ad allora fluttuante.
In ogni caso, nel mondo greco epίskopos era colui che ricopriva un ufficio a livello sia pubblico, di tipo amministrativo, sia privato, come responsabile di un’associazione. Per cui il senso della frase biblica sarebbe, come spiega l’esegeta Rinaldo Fabris: «mettere la propria candidatura alla presidenza o alla guida della comunità è raccomandabile, perché è un lavoro o un impegno onorevole e da stimarsi».
È evidente che se le proprietà essenziali del sacerdozio ministeriale (episcopato e presbiterato) restano identiche nei secoli, per esercitare il governo pastorale e costruire la casa di Dio oggi non basta una competenza manageriale che faccia funzionare tutto tecnicamente al meglio per raggiungere una serie di obiettivi, premiando o “minacciando” i propri sottoposti; occorre una guida che sappia indicare la direzione di marcia motivando i “compagni di viaggio”, ascoltandoli e integrando in corso d’opera il progetto iniziale attraverso un vero coinvolgimento di tutti. Lungimiranza del leader, scaltrezza dell’amministratore, coraggio del guerriero, svuotamento del martire: nella sintesi dinamica di queste a prima vista opposte qualità sta la fisionomia del Pastore.
San Tommaso d’Aquino si domanda se vanno scelti per l’episcopato i migliori. Risponde che non va chiamato il migliore in assoluto «ma il migliore per il governo di una Chiesa, che cioè sia capace di istruirla, di difenderla, e di governarla pacificamente» (S.T. II-II, 185, 3). Il presbitero che accetta la nomina non deve considerarsi migliore degli altri: sarebbe un atto di presunzione e superbia. L’importante è che si riconosca idoneo, ossia basta che non riscontri in sé stesso niente che possa rendergli illecita l’accettazione dell’ufficio. Quindi, piuttosto che il migliore, va scelto il più idoneo per il governo pastorale di una determinata Chiesa particolare: non è detto che ogni carattere e ogni stile sia adatto in qualsiasi diocesi, tenendo conto anche della varietà geografica, anche all’interno della sola Italia.
Giustamente ebbe a osservare il cardinale Salvatore Pappalardo (1918-2006): «Essere vescovo a Milano o esserlo a Palermo non è la stessa cosa. È vero che molti problemi presentano aspetti simili, che c’è un contesto ecclesiale generale che accomuna le Chiese particolari, ma è anche vero che permangono diversità significative dipendenti dalla cultura e dalla storia civile e religiosa di ogni comunità». Quindi, il migliore candidato per Milano non coincide necessariamente con il migliore per Palermo. Ecco perché nel 1972 il Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa stabilì con apposite norme che ai vescovi compete la facoltà di segnalare alla Santa Sede candidati all’episcopato che siano degni e idonei. Si potrebbe tradurre degni e idonei con le parole del cardinale Giovanni Canestri (1918-2015), in una sintesi frutto di decenni di episcopato: «Uomini prima; poi cristiani e vescovi».
Certamente ogni Pontefice, ricco della propria sensibilità che nasce sia dal contesto storico, culturale ed ecclesiale sia dalle proprie esperienze personali e ministeriali, ha un particolare orientamento che accentua qualche aspetto in maniera preponderante. Se è lecito ricorrere ad alcune immagini, si può affermare che per san Giovanni Paolo II il vescovo è soprattutto un condottiero, che con coraggio e determinazione guida il popolo oppresso da tirannie di vario genere verso la libertà conquistata da Cristo; per Benedetto XVI, è in particolare un maestro che, grazie alla sua preparazione e all’ispirazione della divina sapienza, illumina la gente disorientata dalle ideologie e dai falsi miti; per Francesco, è un compagno di viaggio che, stretto a ogni pecora del gregge fino ad impregnarsi del suo odore, percorre le accidentate vie di questo mondo, condividendo le ferite delle cadute, senza paura di sporcarsi in questa missione.
Va da sé che analizzare le sfide del governo pastorale implica cimentarsi con le sfide dell’azione pastorale, che coinvolge non solo i ministri ordinati ma anche i religiosi, le religiose, le famiglie, gli operatori pastorali, i catechisti, gli animatori. Il vescovo e il presbitero non possono essere eroi che affrontano solitari le sfide del guidare la comunità ma, nonostante i limiti e le fatiche, sono chiamati a essere stelle, poste in alto e visibili a tutti, per condurre le persone verso Cristo, luce del mondo. Solo così il sacerdozio è «nobile lavoro».
Fabrizio Casazza, Le sfide del governo pastorale. In ascolto dei Vescovi italiani, prefazione del card. Pietro Parolin, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, pp. 342, euro 20,00.