Chi scrive da tempo avanza la convinzione che quella della trasmissione della fede alle nuove generazioni è la vera questione da porre al centro del cammino della Chiesa in questo nostro tempo. Il fossato che si sta creando tra l’universo cattolico e il mondo dei giovani è sempre più largo. Ripensare a fondo allora le dinamiche della trasmissione della fede oggi rappresenta un’urgenza particolarmente viva.
Ad essa l’autore del presente contributo ha dedicato la sua più recente pubblicazione, uscita per l’editrice Àncora nel mese di marzo di quest’anno ed intitolata Pastorale 4.0. Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni. Ed è di questo piccolo saggio che egli ora intende offrire una sintesi, attingendone a qualche pagina, non senza aver prima dichiarato tutta la sua ammirazione per la lucidità con la quale papa Francesco, in occasione degli auguri natalizi dello scorso anno alla curia romana, ha tratteggiato il tempo che ci è dato vivere.
Ecco le sue parole: «Quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza. Capita spesso di vivere il cambiamento limitandosi a indossare un nuovo vestito, e poi rimanere in realtà come si era prima. Rammento l’espressione enigmatica, che si legge in un famoso romanzo italiano: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” (ne Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). L’atteggiamento sano è piuttosto quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné».
Eclissi dell’adulto
Ed ecco che la prima cosa da fare per lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente è quella di cogliere il radicale cambiamento che ha toccato il modo di essere al mondo della popolazione adulta. Il riferimento specifico è qui agli adulti appartenenti alla generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale e alla generazione successiva: in sostanza a coloro che appartengono alla Baby Boom Generation (1946-1964) e alla X Generation (1964-1980).
Nel giro di pochissimi anni, la condizione adulta è passata dal rappresentare il tempo dei doveri familiari e sociali (primo fra tutti quello di mettere su famiglia e fare figli), il tempo delle fatiche e delle frustrazioni, tra lavoro e presa in cura della prole, ed ancora il tempo dell’inesorabile incontro con l’esperienza dell’indebolimento delle energie e dunque dell’invecchiamento e della morte, al tempo in cui la domanda umana di vita e di libertà trova il suo terreno più fertile. È questo, in sintesi, l’effetto sui soggetti appartenenti alle generazioni prima citate degli sviluppi della medicina e della ricerca farmaceutica, delle nuove attenzioni all’igiene e alla salute personale e collettiva, dell’aumento delle risorse di cibo e di denaro, della diffusione dei tanti ritrovati tecnologici dentro le mura domestiche, gli spazi di lavoro e nel largo raggio della sfera sociale, senza dimenticare l’effetto dell’abbattimento di tanti pregiudizi, la maggiore scolarizzazione della popolazione nel suo insieme ed infine le immense possibilità dischiuse da Internet.
Diventare adulti non implica più l’accesso a una sorta di tunnel asfittico, buio e monodirezionale nel quale al maggiore numero dei passi che vi si compiono corrisponde una crescente riduzione delle opzioni che restano possibili al soggetto, sino all’unica destinazione finale del cimitero. Diventare adulti significa, oggi, accedere a una sorta di prateria dai confini difficili da identificare, in cui non sembra esservi più quasi nulla di precluso, a condizione di avere a disposizione del denaro. E sebbene non manchino malattie che mettono paura – come quelle neurodegenerative – la possibilità di una dichiarazione anticipata di trattamento già rassicura parecchio. Così come l’idea di dover morire non si presenta più come la questione ultima e radicale dell’esistenza, viene piuttosto ormai generalmente rubricata e digerita come l’ultima questione cui a suo tempo si troverà facile soluzione, come già lasciano intendere i modi attuali di dire la morte altrui: si è spento, è scomparso, è andato via, è venuto a mancare, si è addormentato, non è più, ha compiuto l’ultimo transito, è andato alla casa del Padre ed altri ancora. Non solo: ormai, indipendentemente dall’età in cui si muore, al presente si muore sempre “giovani”. E qui accediamo a un altro elemento decisivo della nostra analisi intorno al tema dell’eclissi dell’adulto.
Insieme, infatti, alla condizione degli adulti presenti al mondo, cambia l’immaginario dell’essere adulto: cioè il significato e il valore propri della categoria di “adulto”.
Si passa così dal considerare l’ingresso nella condizione adulta come l’esito normale del processo di umanizzazione di ogni cucciolo d’uomo, ovvero come l’assunzione riuscita di quel tratto di cura che definisce la nostra specie, ma in cui in ogni caso si realizza la piena umanità di ciascuno (solo l’adulto ha pieno titolo di “umano”), al considerare che solo la giovinezza possa garantire tale promessa. Quest’ultima, nell’immaginario attuale, di conseguenza, non indica più un tempo di breve passaggio per esplorare le concrete, poche possibilità a disposizione del soggetto in crescita prima del suo ingresso nella porta stretta dell’adultità, ma si pone quale senso stesso dell’esistenza umana. Si comprenda bene: del senso stesso dell’esistenza umana oggi concretamente a disposizione degli adulti delle due generazioni prima citate.
È così che accade una sorta di “rivoluzione copernicana” delle età della vita: il “corpo celeste” attorno a cui ruotava, sino a quarant’anni fa, ogni fase dell’esistenza umana era l’adultità, dalla quale proveniva il senso stesso dell’essere al mondo degli uomini e delle donne ed in particole dei loro cuccioli; quel posto centrale, luminoso e illuminante, deputato alla donazione di senso all’esistenza dei terrestri, è oggi occupato dalla giovinezza. Dal mito della giovinezza, che ha conquistato il cuore degli adulti.
Ma cosa e come c’entra tutto questo con la trasmissione della fede?
Diventare adulto, diventare cristiano
Le attuali forme di trasmissione della fede si reggono sostanzialmente su una mentalità pastorale la quale non ha sostanzialmente fatto per nulla i conti con questo slittamento di segno e di senso della condizione degli adulti e della categoria dell’adultità. In una parola, con l’eclissi dell’adulto.
L’azione concreta della vita delle parrocchie è, in altri termini, ancora oggi sorretta da una sensibilità dell’umano che andava in certa misura bene quando i maschi morivano sui cinquant’anni, le donne erano tutte “casa, chiesa e cucina”, gli omossessuali venivano marginalizzati se non addirittura puniti per legge, la povertà, l’ignoranza, la frustrazione complessiva stavano all’ordine del giorno di ogni famiglia e le conoscenze medico-sanitarie diffuse e messe in atto non erano poi ancora così distanti da quelle del Medioevo, nonostante i secoli trascorsi.
La mentalità pastorale vigente, e di conseguenza le forme relative della trasmissione della fede, trova il suo fulcro nel riconoscimento del destino oneroso connesso alla vita adulta, un riconoscimento che aveva più che buone ragioni sino ad anni abbastanza recenti. Diventare adulti implicava infatti l’attraversamento di una porta che, come quella di dantiana memoria, pareva aver ben inciso su di sé un messaggio chiaro circa la fatica di vivere che attendeva i nuovi arrivati: i nuovi adulti, appunto. Da quel momento in poi, non c’era più tanto da poter scegliere e di cui poter godere in modo spensierato. Non a caso si poteva cantare, con Lorenzo il Magnifico, la veloce bellezza del godimento giovanile, dopo il quale tutto risultava cadenzato dall’ordine dei doveri familiari, lavorativi e sociali.
Una tale condizione, inoltre, era accompagnata da un’aura assai positiva circa il fatto di diventare adulto: non c’era elemento della società che non spingesse in tale direzione i nuovi arrivati al mondo. La pienezza dell’umano era vista proprio nel diventare grandi. Si dava dunque una convergenza tra la condizione dell’essere adulto e il valore intrinseco riconosciuto a questa condizione, sebbene nei fatti fosse anche sufficientemente faticosa.
Ed ecco, allora, la grande scommessa degli operatori pastorali che ci hanno preceduto: non sarà che proprio un tale destino oneroso della condizione adulta non possa già da sé aprire a un possibile apprezzamento delle parole e delle promesse della religione cristiana? Non potrà e non dovrà esattamente quest’ultima assumersi il compito di dare una qualche luce di speranza, di consolazione e di verità agli adulti?
La risposta positiva a questi interrogativi è quella che ha concretamente donato forma alla mentalità pastorale che abbiamo ereditato e che ancora governa le economie dell’agire parrocchiale contemporaneo. La sua elaborazione concreta è presto detta: passa attraverso la fissazione e l’illustrazione del valore aggiunto che la religione cristiana offre alla vita adulta esattamente rispetto ai suoi elementi di maggiore criticità e diciamo pure di più intensa sofferenza e frustrazione. Va da sé, a questo punto, che parliamo di una vita adulta che, alle latitudini occidentali del pianeta, è ormai solo un pallido ricordo.
Pastorale dell’imbuto
Per indicare più concretamente la mentalità pastorale vigente e la sua idea di trasmissione della fede, ci viene ora in aiuto allora l’immagine dell’imbuto: esattamente come questo strumento di uso ordinario e dalla forma inconfondibile serve a convogliare qualsiasi liquido in una bottiglia, il compito specifico della mentalità pastorale vigente consiste nell’accompagnare e instradare i cuccioli in direzione della strettoia rappresentata dal diventare adulti. Essa deriva dal fatto che, in un passato ancora recente, si poteva verificare, in modo sufficientemente corretto, l’esistenza di un modello di umano adulto forte dotato di autoregolamentazione interna in sintonia con le istanze religiose, proprio grazie alla “strozzatura” delle possibilità di vita che comportava. In un tale passato, poi, era del tutto naturale che la famiglia, la società e la cultura diffusa indirizzassero i piccoli a “diventare grandi”.
Sotto questa luce, a livello più o meno cosciente, guidati da questa pastorale dell’imbuto, di fronte ai piccoli, gli operatori pastorali si assumono sostanzialmente il compito di accompagnarli a diventare adulti, con la presupposta speranza che il loro cammino umano e cristiano si compiranno in modo quasi automatico per una sorta di attrito interno, mentre la comunità cristiana resta a loro disposizione, una volta cresciuti, per la celebrazione del loro matrimonio, per la catechesi e i sacramenti dei figli e per far sentire la propria vicinanza in occasione di qualche snodo particolarmente difficile dell’esistenza.
È tale visione di fondo che poi rende ragione di alcune caratteristiche salienti del cattolicesimo occidentale diffuso. Ci riferiamo, innanzitutto, al suo carattere per così dire piuttosto “cupo”: se la vita adulta, cui i ragazzi sono indirizzati, non è affatto un gioco, si comprende che la pratica della fede non possa non rivestire le vesti di una realtà seria, rigida e malinconica; per dire le cose in breve e con una parola di papa Francesco, i credenti non possono non avere una faccia da quaresima perenne! Insomma, nella misura in cui ad attendere i piccoli non vi è altro che un’esistenza fatta tutta di fatica e sacrifici, l’atmosfera ecclesiale deve pur adombrare quella triste verità.
Un secondo tratto della pastorale dell’imbuto riguarda la scarsa carica di annuncio inscritta dentro il percorso di iniziazione cristiana e dunque dentro il cammino catechistico. Detto in modo il più diretto possibile, non si tratta altro che di offrire una sorta di minima introduzione alla visione cristiana dell’esistenza collegata con quella domanda di senso posta dalle condizioni di vita adulta del passato: domanda di senso intrecciata con il senso dell’essere al mondo in una situazione decisamente faticosa, con l’angoscia di morte ed infine con un generale sentimento di frustrazione rispetto ai propri sogni e alle proprie capacità.
Da qui il terzo consistente tratto della pastorale dell’imbuto: chiunque può assumere il ministero del catechista. Non si richiedono particolari disposizioni d’animo né particolari competenze. E lo stesso catechismo ricalca il modello scolastico progressivo di anno in anno, nell’idea appunto che i ragazzi ricevano dai contesti familiari, educativi e sociali cui appartengono un sollecito costante a diventare adulti e una testimonianza concreta di ciò che significa vivere al mondo da adulto cristiano.
Una quarta caratteristica della pastorale dell’imbuto riguarda l’ambito dell’impegno più direttamente dedicato al mondo delle nuove generazioni. Un tale impegno viene normalmente affidato ai preti giovani, a quelli cioè appena usciti dal seminario. L’idea che guida questa pastorale giovanile è sostanzialmente quella della creazione di una trama di amicizia tra il giovane prete e i giovani e tra gli stessi giovani: un’amicizia che permetta a questi ultimi di maturare un affetto sincero e pieno per la vita ecclesiale. Del resto, anche in questo caso, si presuppone che non vi sia alcun bisogno di un maggiore approfondimento della conoscenza biblica né di una qualche specifica mistagogia verso l’esperienza della preghiera o la ritualità liturgica né, infine, di una qualche indicazione formativa circa lo scopo specifico della vita giovane che è appunto quello di accedere alla dimensione adulta dell’esistenza umana. A tutto ciò pensa la vita adulta che attende i giovani.
Un ultimo assai specifico tratto della pastorale dell’imbuto riguarda la possibilità di avallare la figura del “credente non praticante” (alla quale è dedicato l’intero numero di Orientamenti Pastorali): si sostiene cioè come del tutto accettabile l’idea che l’appartenenza nominale alla comunità di fede possa accadere anche senza una reale pratica di fede. Va da sé che qui gioca un forte ruolo esattamente quella centralità assegnata all’esperienza onerosa dell’essere adulto nell’apprezzamento della visione cristiana dell’esistenza, ma un tale modo di ragionare non è privo di conseguenze per quello che dovrebbe essere il compito primario di ogni comunità credente e cioè il compito dell’evangelizzazione: quello concretamente di far incontrare le persone con il Vangelo di Gesù. Nel corso degli ultimi anni, poi, si è assistito alla sostituzione della figura del “credente non praticante” con quella del “soggetto spirituale non religioso”, anche qui avallando un’idea di spiritualità quantomeno discutibile sotto il profilo specifico della religione cristiana.
Non è ora intenzione di questo contributo affrontare direttamente questo argomento. Ciò che, ad avviso di chi scrive, in verità, deve essere più precisamente e complessivamente evidenziato è che il tratto più problematico di questa pastorale dell’imbuto è una sua certamente non voluta ma tuttavia quasi evidente rimozione proprio del Vangelo di Gesù e del Gesù del Vangelo. Per essa, sostanzialmente, si può diventare cristiani anche senza aver incontrato Gesù e il suo Vangelo. Basta diventare adulti.
Il lettore vorrà ovviamente perdonare la ruvidità dell’insieme di queste osservazioni, ma esse servono a illuminare un paesaggio e un passaggio storico che è sempre più ricco e sfumato della sua ricostruzione. Del resto, il punto veramente dirimente, a questo snodo della nostra riflessione, è il seguente: accertato allora il fenomeno epocale dell’eclissi dell’adulto, vera leva della mentalità pastorale del passato ed ancora del presente, non è necessario “inventare” una nuova mentalità pastorale? E non sarà necessario individuare nuovi orizzonti in merito alla questione della trasmissione della fede?
Pastorale dell’incrocio
Nel nostro saggio Pastorale 4.0, con decisione affermiamo la necessità di un cambio di passo nell’agire ecclesiale concreto. Anche in questo ci sentiamo confortati dal pensiero di papa Francesco, il quale, nel discorso già citato del dicembre scorso, ha fatto riferimento a un altro suo specifico intervento sulla necessità di un cambiamento della mentalità pastorale.
Nell’udienza concessa, infatti, ai partecipanti al Congresso Internazionale della pastorale delle grandi città, che ha avuto luogo il 27 novembre del 2014, ha affermato: «Veniamo da una pratica pastorale secolare, in cui la Chiesa era l’unico referente della cultura. È vero, è la nostra eredità. Come autentica Maestra, essa ha sentito la responsabilità di delineare e di imporre, non solo le forme culturali, ma anche i valori, e più profondamente di tracciare l’immaginario personale e collettivo, vale a dire le storie, i cardini a cui le persone si appoggiano per trovare i significati ultimi e le risposte alle loro domande vitali. Ma non siamo più in quell’epoca. È passata. Non siamo nella cristianità, non più. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, ma non di una “pastorale relativista” – no, questo no – che per voler esser presente nella “cucina culturale” perde l’orizzonte evangelico, lasciando l’uomo affidato a sé stesso ed emancipato dalla mano di Dio. No, questo no. Questa è la strada relativista, la più comoda. Questo non si potrebbe chiamare pastorale! Chi fa così non ha vero interesse per l’uomo, ma lo lascia in balìa di due pericoli ugualmente gravi: gli nascondono Gesù e la verità sull’uomo stesso. E nascondere Gesù e la verità sull’uomo sono pericoli gravi! Strada che porta l’uomo alla solitudine della morte (cf. Evangelii gaudium, 93-97)».
Come provare a tradurre questo appassionato appello in un progetto pastorale? La proposta che avanziamo è quella di sostituire la pastorale dell’imbuto con una pastorale dell’incrocio.
La pastorale dell’incrocio si contraddistingue essenzialmente dalla decisione di riportare al centro dell’essere e dell’agire ecclesiali la creazione e la cura delle condizioni che permettono a chiunque di diventare cristiano. In un tale orizzonte, gli operatori pastorali si adopereranno di modo che chiunque si affacci sulla soglia della comunità cristiana – i piccoli, soprattutto – possa incrociarsi con Gesù e con il suo Vangelo e sperimentare una forma di innamoramento di Lui. Essi si sapranno dunque posti a completa disposizione affinché un tale incrocio sia sempre possibile. Siamo qui per permettere a chiunque di incrociarsi con Gesù, perché è così che si diventa cristiani.
Di più si dovrà francamente riconoscere che è forse solo così che oggi si può sperare di diventare adulti. Nel suo essere, infatti, luogo dove si diventa cristiani, permettendo che ciascuno si incroci amorevolmente con Gesù, la comunità ecclesiale è chiamata a diventare nello stesso tempo luogo generativo di giovani che assumono la forma adulta dall’umano; e di adulti che possono riscoprire di nuovo la bellezza imperdibile che è connessa alla dimensione adulta dell’umano, troppo frettolosamente buttata via con l’acqua sporca delle antiche condizioni di vita adulta per dedicarsi al nefasto culto della giovinezza.
Gesù, infatti, rivela certamente la pienezza del volto del Dio invisibile ma anche la pienezza del volto dell’uomo; e, nella misura in cui è la vita adulta lo spazio di piena manifestazione della verità dell’umano, allora si dovrà dire che Gesù mostra la pienezza dell’essere adulto. Gesù custodisce e comunica per sempre il segreto del senso dell’avventura umana sulla terra.
Avere pertanto la concreta possibilità di incrociarsi con lui aprirà le strade, per chiunque lo desideri, della possibilità di diventare cristiano e di diventare adulto: della duplice possibilità di riconoscere e accogliere la presenza della benedizione paterna di Dio sulla propria esistenza (= diventare cristiano) e di trasformare quella stessa esistenza in occasione di benedizione per chiunque la sorte gli porrà accanto nel cammino (= diventare adulto).
Conclusione
Per dare un’immagine riassuntiva di quanto sin qui detto, diciamo che lo sforzo che ci attende, nella misura in cui ci impegniamo seriamente ad assumere le sfide di questo tempo, con spirito di discernimento, di parresia e di hypomoné, come ci chiede papa Francesco, è quello di trasformare le nostre comunità in luoghi dove non solo si celebra la fede, ma dove si è generati alla fede. Non siamo, infatti, più nel tempo della cristianità, nel tempo dell’adulto naturaliter christianus. Siamo in un tempo in cui, tranne pochissime eccezioni, i nostri piccoli possono incontrare la luce della Parola e la bellezza della preghiera solo dove altri cristiani si ritrovano, per celebrare e testimoniare il loro amore per Gesù.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo «Ripensare la trasmissione della fede nel contesto sociale, familiare, formativo, comunicativo oggi» sulla rivista Orientmenti pastorali.
Essere giovani significa essere “poco responsabili” e propensi a realizzare solo il “ciò che mi piace”: inseguire questo ideale di vita è oggi imperante. Attenzione a esaltare questa condizione, perché la scelta cristiana è scelta di responsabilità, che comporta anche sacrificio gioioso, che è tipico dell’età adulta. La bellezza dell’età adulta è aver la capacità della donazione responsabile e totale, scelte che nella giovinezza devono ancora maturare a pieno e quindi è verso quella età che bisogna convogliare gli sforzi educativi, anche nel cammino di fede. E’ pastorale dell’imbuto, questa? No, è pastorale che conosce i limiti della giovinezza, che non la esalta come fosse l’età assoluta, ma che vuole portare a scoprire il valore di una vita donata nella responsabilità e fondata sul vangelo. Attenzione a far diventare chi cammina verso la fede, come un cliente che va coccolato in tutte le maniere e soddisfatto comunque: cosa che si è fatta nella scuola ad esempio, per cui è il cliente che detta le condizioni che la scuola deve accettare sempre e in silenzio.
Grazie a don Armando
don Giancarlo Pianta, Valle camonica,Brescia, prete dal 1970