Mi sia consentita una confidenza. Ho avuto il privilegio di un rapporto intenso con il card. Martini. Egli, bontà sua, si era fatto l’idea che capissi qualcosa di politica e talvolta mi interpellava al riguardo. La politica non lo appassionava, altre erano le cose che lo facevano vibrare. E tuttavia, da uomo e pastore acuto e presente al suo tempo, era pur sempre interessato anche alle questioni contingenti.
“Keynesiani de’ noantri”?
In una di quelle conversazioni mi occorse di suggerirgli di leggere gli editoriali di Angelo Panebianco sul Corriere. Lo fece e, di lì a poco, me ne diede un riscontro non esattamente positivo: mi disse che non meritavano l’attenzione che gli avevo suggerito. Ebbi così modo di chiarire: anche a me non convincevano. Solo che, proprio in quanto espressivi di una cultura liberale della quale mi consideravo un po’ deficitario a motivo della mia sensibilità cristiano-sociale, sentivo il bisogno di confrontarmici. Oggi sono incline a meglio comprendere le riserve di Martini…
Questo lontano ricordo mi è tornato alla mente dopo avere letto l’ennesimo editoriale di Angelo Panebianco contro i “neostatalisti” definiti sprezzantemente i “keynesiani de’ noantri”.
Gli hanno efficacemente risposto due keinesiani dichiarati e competenti come Pierluigi Ciocca e Giorgio La Malfa, argomentando in termini convincenti che, al netto delle formule cautelose, il reale bersaglio fosse appunto il keynesismo come tale e non la sua interpretazione e il suo uso distorto da parte di “certi” suoi esegeti. «Certi», naturalmente – si era cautelato Panebianco –, «a differenza dei keynesiani veri»: la solita espressione generica, impersonale, allusiva. Un classico di chi tira il sasso e nasconde la mano.
Quattro rilievi critici
Di Panebianco e dei suoi scritti mi impressionano taluni tratti.
Il primo è l’ossessiva ripetitività. A ben vedere, egli scrive spesso, ma sempre lo stesso articolo. Al più, due: contro l’“ideologia antimercato” e contro l’antiatlantismo. Sempre e solo quelli. Imputati all’ingrosso a cattolici e comunisti, che ne sarebbero affetti.
Secondo tratto: appunto l’ascrizione di quelle due tare a soggetti generici, indistinti, datati, anacronistici. A Panebianco sfugge un dettaglio. Esagero per farmi intendere: i cattolici sono sempre meno e comunque tra loro molto diversi, la loro cultura economica o politica ricopre l’intero arco di quelle di tutti i loro concittadini; i comunisti sono pressoché scomparsi e comunque anche per loro vale la stessa avvertenza, la pensano nei modi più diversi.
Di più: una parte cospicua di ex comunisti, forse affetti dal complesso del loro estremismo giovanile, ha semmai sostituito i vecchi miti con la subalternità al mood liberale, l’enfasi sui diritti civili (essenzialmente individuali) alla cura per i diritti sociali. Uno studioso dovrebbe essere più preciso e analitico nel rappresentare i soggetti collettivi ai quali taglia addosso i suoi severi giudizi critici.
Terzo e soprattutto: la caricatura risibile del suo bersaglio polemico: i nemici del mercato, i neostatalisti, a suo dire, una sterminata legione, addirittura la maggioranza. Dipinti come del tutto indifferenti agli equilibri di bilancio, alla dilatazione del debito pubblico, alla produttività delle imprese, al corporativismo del sindacato (tutto?).
Una lettura essa sì grossolana e schematica, che lo spinge al punto da polemizzare con l’economia mista, per definizione imperniata su un rapporto equilibrato tra mercato, società e Stato; e a sostenere che il «liberismo» sarebbe «parola inventata in Italia» e dunque da virgolettare; e che – come hanno notato Ciocca e La Malfa, con puntuali citazioni – gli fa ignorare che Keynes fu un liberale semmai cultore di una terza via, cui la storia ha dato ragione.
Infine – un quarto profilo – l’ostinata esorcizzazione di fatti eloquenti e largamente riconosciuti, a dispetto del pragmatismo, che si immaginerebbe stigma dei liberali. Penso, in negativo, al bilancio palesemente fallimentare delle politiche di austerità a lungo praticate in passato in Europa anche con riguardo ai loro effetti sulla crescita; e, in positivo, alla recente, pur tardiva svolta operata dalla UE che, nella logica di Panebianco, sarebbe di stampo dirigista, una sorta di neostatalismo europeo.
Non è mai saggio forzare i paragoni storici (Panebianco azzarda un bizzarro paragone tra la Francia assolutista del settecento e l’Italia di oggi), ma forse, questo sì, non è fuori luogo evocare la lezione della crisi del 1929, a valle della quale Keynes elaborò la sua teoria: le grandi crisi di sistema esigono un protagonismo dello Stato. Si discuta come e quale. Ma negare tale necessario, ben inteso protagonismo attesta uno schematismo, un fissismo dal sapore esso sì ideologico.
Ho l’impressione che Panebianco, con il suo liberalismo dogmatico (un ossimoro), non renda un buon servizio alla causa cui si è consegnato… fideisticamente; che, per fargli il verso, “certi liberali” non siano di aiuto ai “veri liberali”.
Tradizionalisti e modernisti: il rischio di un dialogo tra sordi
Agosto 11, 2020 / gpcentofanti
Viviamo in un’epoca in cui la mentalità di fondo è intellettualista. Chi cerca di fuggire dalle chiusure della ragione a tavolino può finire nello spiritualismo delle sole intenzioni o nel pragmatismo della vita concreta. E questo perché la cultura di riferimento resta quella suddetta. Se ci si fonda su una ragione astratta restano poi un’anima disincarnata e un resto pragmatico, “quotidiano”, dell’umano. Ecco le tre correnti che emergono: razionalismo, spiritualismo, pragmatismo.
Davvero significativo vedere come il dialogo tra tali orientamenti resti spesso un parlare tra sordi. La ragione astratta o le fughe da essa chiudono l’uomo in aspetti riduttivi di sé stesso. Le risposte astratte, prefabbricate; la spiritualità delle mere intenzioni, alla fine distorte perché meno attente all’umano concreto, specifico, contingente, che viene delegato nelle cose più importanti, con vario sospetto, alle conoscenze scientifiche e nelle altre ad una mera, riduttiva, quotidianità; il pragmatismo dell’aiutare il funzionamento concreto, l’accordarsi concreto ma lasciando i riferimenti in varia misura da parte perché appunto li si vede come astratti, disincarnati.
Il punto dunque è che questi orientamenti in un modo o nell’altro fanno capo alla ragione astratta. Questa è chiusa in sé stessa, come un computer. Viene ridotta, frammentata, la coscienza spirituale e psicofisica che esiste e matura nella luce serena, che scende a misura, delicatamente, come una colomba.
Solo il cuore, appunto la coscienza integrale, nello Spirito sereno è nella naturale apertura di tutto l’uomo. Rientriamo in contatto con la nostra umanità semplice, libera e con tutta la viva realtà. Oggi la stessa scienza, in crisi perché la vita reale non può venire ingabbiata in logiche schematiche, cerca il contatto con la realtà concreta finendo nel pragmatismo per i riduttivismi summenzionati. Si passa da Platone, dal razionalismo o nel migliore dei casi dallo spiritualismo, ad Aristotele, invece di cercare, per un non credente tendenzialmente, il concreto discernere divino e umano nello Spirito sereno del Gesù dei vangeli.
Il risultato di queste paralisi, di queste chiusure, è il non avvedersi del problema profondo che fontalmente orienta la vita, l’incontrarsi. Il tradizionalista resta nei suoi schemi logici astratti, il modernista cerca un cambiamento che però è pensato a tavolino o vissuto in modo meramente pratico. Dunque orientamenti che paradossalmente consolidano le perplessità degli altri.
Gli schematismi favoriscono il tecnicismo, lo svuotamento delle persone, il prevalere degli apparati con i loro codici uniformanti. La mancata viva e libera partecipazione favorisce tali meccanicismi. La gente spogliata di ogni cosa viene sempre più manipolata, anche da chi si oppone in modo istintivo, passando, come visto, al meccanicismo opposto. La società va verso il crollo e, incanalata da questi orientamenti, sembra non poter fare altro che subire un destino.
Sarà un grave crollo a costringere a cercare un salto di qualità, l’uscita dal razionalismo, o una lenta maturazione anche tra qualcuno nelle elites potrà in tempo innescare e diffondere una rinascita? Ci saranno al tempo maturo doni particolari dal cielo, anche nel loro poter toccare il cuore di molti? Certo, mentre molti potenti rischiano di restare chiusi nei loro palazzi, ancora una volta la gente più facilmente può beneficiare concretamente di chi le viene concretamente vicino nel quotidiano con un discernimento più adeguato, più attento alle specifiche vite personali, agli specifici bisogni. Forse questi contrasti e questi travagli faranno maturare nel quotidiano, tra le persone, il bisogno di un traboccamento verso una umanità semplice, in cerca graduale, a misura, della propria serena identità e nello scambio con gli altri. Superando gli opposti scogli delle astrazioni e delle soluzioni meramente funzionali. Forse da qui germoglierà gradualmente, se non vi saranno catastrofi in tutto definitive, una società rinnovata.