Internet ha generato un esercito di egomaniaci, dice Jia Tolentino, giovanissima e talentuosa columnist del New Yorker, che in Trick Mirror spiega come l’abitudine a decifrare l’altro da quello che cinguetta su Twitter, posta su Facebook, balla su TikTok o da quello che ascolta su Spotify, alla fine conduca a guardare anche noi stessi attraverso la lente di quello che postiamo, twittiamo, condividiamo, in una narrazione digitale mai interrotta dall’entropia del reale.
La rete è diventata il luogo per eccellenza di espressione del sé. Non più un luogo di informazione o formazione, come sognavamo negli anni Zero, ma un posto in cui se qualcosa non fa le fusa all’ego, la cancelli punto e basta. Simonetta Sciandivasci sul Foglio illumina il senso del discorso in un articolo dal titolo «La dittatura dell’io».
«Online – scrive Sciandivasci – comunichiamo un’identità corretta, convincente, efficace, splendida, e lo facciamo senza mai separarcene, perdendo così presto la cognizione della sua costruzione, del suo artificio. È per questo che chi ci contesta, ci irrita: noi abbiamo perduto il senso della nostra fallibilità, della proporzione tra chi siamo e chi crediamo d’essere o facciamo in modo che gli altri pensino che siamo. Quando il prossimo arriva a metterci in discussione, non lo vediamo come interlocutore, ma come un intralcio che ci deconcentra, ci distrae, ci porta via tempo. Lo odiamo perché non riconosce la nostra autorità assoluta, che vediamo riverberare in un mondo virtuale che ci asseconda e, assecondandoci, ci convince del fatto che le nostre intuizioni e convinzioni non sono semplicemente legittime: sono esatte, trascinanti. È un microcosmo che ci sembra infinito perché non si scontra con il dato reale (che spesso è incarnato dall’altro) e sul quale noi rimuginiamo incessantemente».
Nello spazio della rete non c’è spazio per l’Altro
L’internet, i social, la rete hanno ingigantito l’io, misconosciuto il tu e reso passabile il noi a condizione che a farne parte siano tanto io molto simili, indistinguibili, non disturbanti, in pratica un io più grande. Nell’infinito spazio della rete non c’è spazio per il prossimo. Se l’internet è questo, e tutto fa pensare di sì, è perché lo abbiamo disegnato così. «Quella che noi usiamo è la rete costruita dalle big company, funziona benissimo solo che segue i principi di imprese che legittimamente fanno il loro mestiere. Non possiamo lamentarci se affidiamo al martello il compito di avvitare un bullone», spiega con una metafora dal pragmatismo anglosassone Luciano Floridi, filosofo dell’informazione che in effetti anglosassone lo è un po’ diventato.
Partito da Roma in treno per l’Inghilterra a 23 anni per scrivere la tesi di laurea a Oxford, dopo varie peripezie accademiche tra l’Italia e l’Inghilterra (lì vinceva ogni concorso, in Italia li perdeva) è arrivato a poter scegliere tra Oxford e Cambridge per una junior research fellowship, ha scelto Oxford – «anche perché la lettera d’ammissione dell’ateneo rivale arrivò in ritardo» e da allora non è più andato via. A Oxford è ora docente di Filosofia dell’Informazione, dirige il Digital Ethics Lab e inoltre è chairman del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute. Teorico dell’onlife, dell’iperstoria, dell’infosfera, buona parte dei concetti che oggi utilizziamo per interpretare la digitalizzazione del mondo sono farina del suo sacco.
«Infosfera è una parola che non ho inventato io, ho solo contribuito a dirottarla nel campo digitale» si schermisce subito Floridi dietro un sorriso fanciullesco. «L’internet che conosciamo è a immagine e somiglianza di chi ha avuto il potere di plasmarlo, sarebbe un grande errore farne un assoluto e confonderlo con il digitale tout court. La cultura digitale ci insegna invece che l’io viene dopo il tu. Noi siamo l’esito delle relazioni che ci legano agli altri».
Da Darwin a Turing: uniti in un’unica rete
Nella trilogia sull’infosfera, La Quarta Rivoluzione (2017), Pensare l’Infosfera (2019) e Il verde e il blu (2020), tutti editi da Raffaello Cortina, Floridi parte da un assunto che ancora molti faticano a metabolizzare, e cioè che da quando Alan Turing ha teorizzato e realizzato una macchina in grado di computare, l’umanità ha dovuto ingoiare un altro brutto rospo, non più al centro del cosmo (Copernico), all’apice dalla natura (Darwin) e padrone in casa propria (Freud), abbiamo scoperto di non essere più unici nemmeno nell’elaborare informazioni.
«Condividiamo l’infosfera con altri agenti informazionali, animali e macchine, e in quanto tali siamo tutti nodi di una stessa rete». Qualcosa di molto simile la scriveva anche Darwin nei suoi Taccuini: «Se decidiamo di lasciar correre le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo essere tutti legati in un’unica rete». Quello che ci ha insegnato la biologia, ora lo ribadisce l’informatica e naturalmente come tanti Wilberforce non mancano i censori del mondo nuovo.
I tecnoapocalittici, Heidegger, Agamben…
Quasi tutti ispirati da Martin Heidegger, da quel saggio del 1956 sulla «Questione della tecnica», dal suo discorso sul dominio dell’apparato tecnologico, sulla riduzione dell’uomo a ente tra enti, a risorsa tra risorse da sfruttare nel desolato scenario di un Essere ridotto a «Gestell», le cassandre dell’infosfera non perdono occasione per puntare il dito contro il nichilismo disumanizzante imposto dalla cultura digitale.
L’autore di Essere e Tempo attribuiva la deriva tecnologica del XX secolo alla «metafisica della soggettività», che da Cartesio in poi avrebbe trasformato le cose in oggetti posti di fronte a un soggetto divenuto incapace di distinguere l’essere di una cosa dalla sua utilizzabilità. Si odono queste stesse tonalità emotive anche in Giorgio Agamben, tanto per citare il più noto dei filosofi italiani, che nella lotta senza quartiere alle ICT non le ha mandate a dire. «Fa parte della barbarie tecnologica che stiamo vivendo la cancellazione dalla vita di ogni esperienza dei sensi e la perdita dello sguardo, durevolmente imprigionato in uno schermo spettrale», ha scritto di recente l’autore di Homo Sacer a proposito delle derive della didattica a distanza, paragonando i professori che decideranno di tenere corsi online ai docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista.
«Ma quale barbarie tecnologica? Quale fascismo digitale?», sbotta Floridi. «Vogliamo dirla tutta? E allora diciamo che Auschwitz è figlio di una cultura analogica. Dovremmo pesare meglio le parole e limitarci a dire che la barbarie è nell’animo umano, che l’aberrazione ce la portiamo dentro e che se barbari si era, barbari si resta. Il digitale non può cancellare la barbarie, e sarebbe un’idiozia già pensarlo. Una cosa però la può fare, può farcela vedere. Se oggi sappiamo quello che succede in ogni angolo del mondo è grazie a tecnologie digitali. Se nei campi di sterminio qualcuno con un post o un tweet avesse potuto svelare al mondo quello che stava succedendo magari le cose sarebbero andate diversamente. Magari no, ma forse sì. La civiltà digitale è quella che ti permette di filmare e condividere con il resto del mondo e in tempo reale la morte di un uomo indifeso per mano di un uomo in divisa nelle strade di Minneapolis».
Relazioni prima delle cose, l’altro prima dell’io
Nell’infosfera l’uomo perde centralità, è vero, ma ciò non significa che perda in umanità. Uomini, smartphone, software, satelliti, robot, smartwatch, sono tutti agenti informazionali legati in un’unica rete in cui le relazioni vengono prima delle cose. Da filosofo qual è Floridi parla di «monismo relazionale», un modo per dire che a dare sostanza alle cose sono appunto le relazioni, che le cose in tanto sono in quanto esito di intrecci. Quando pensiamo alla società immaginiamo tanti atomi simili a mattoncini Lego collegati tra loro all’interno di uno spazio, che sia un quartiere, una città, una nazione. Ecco, queste sono metafore che non reggono più, perché non sono i mattoncini a mettersi in relazione ma sono le relazioni a fare i mattoncini.
«Immagini una rotonda – dice – è una cosa che si trova lì dove le strade si incontrano. Viene prima o dopo le strade? Viene dopo, noi non possiamo immaginare di disegnare una mappa dove mettiamo prima le rotonde e poi le strade che vi si congiungono. Questo vuol dire che le rotonde non esistono? No, vuol dire solo che acquistano senso e realtà come punto di arrivo di una rete. Ed è così anche per gli individui nell’infosfera, la realtà individuale rimane ma viene logicamente dopo le relazioni che la presuppongono. In una società complessa devo cambiare la circolazione delle strade per far funzionare meglio la rotonda».
Un esempio? Pensiamo all’Europa. Quello che conta nel progetto politico europeo è lo spazio relazionale radicato nella condivisione di valori da parte dei nodi della rete e non lo spazio «cosale», fisico e puramente geografico dei confini europei. Ed è questa la ragione per cui un domani si dovrebbero poter espellere dall’Unione paesi geograficamente e fisicamente tali ma non europei dal punto di vista relazionale.
Il digitale, «scollando» due aspetti che fino a pochi anni fa sembravano inscindibili, normatività e territorialità, rende periferica la dimensione puramente oggettiva e cosale rappresentata dal territorio, mentre mette al centro lo spazio relazionale che unisce, come tanti nodi, tutti i cittadini che condividono gli stessi valori. «Si tratta di approfondire la possibilità che non siano le cose, ma le relazioni a poter svolgere un ruolo fondativo nel pensiero politico del ventunesimo secolo».
Lèvinas, lezioni per la civiltà digitale
Pensare le relazioni prima delle cose significa forse ripensare e «decostruire» nel modo che meno ti aspetteresti «la metafisica della soggettività». Significa imparare ad anteporre il tu, a erodere la dittatura dell’io e a scoprire la prossimità del prossimo. Torna allora alla mente un altro grande filosofo del XX secolo, uno che Heidegger lo ha criticato quando era considerato non un filosofo ma la filosofia, e cioè Emmanuel Lévinas.
La scoperta dell’Altro è un momento che sconvolge perché, secondo Lèvinas, mette la coscienza in discussione, irrompe nella rappresentazione di sé e del mondo, oggi forse diremmo nel nostro storytelling digitale. Scoprire non solo di essere in un’unica rete ma di essere perché in una rete può rivelarsi un buon viatico all’etica della responsabilità e all’«epifania del volto».
«L’epifania dell’assolutamente altro – scrive Lévinas ne L’umanesimo dell’altro uomo – è volto in cui un Altro mi interpella e mi significa un ordine, in nome della sua nudità del suo squallore. La sua sola presenza è una intimazione a rispondere». La desostanzializzazione delle cose, quello che accade nel mondo iperconnesso installato del digitale, dovrebbe cominciare a far riflettere sulla destanzializzazione dell’io e, anche se può apparire strano, c’è ancora molto da imparare da un testo del 1972. «Essere Io – continua il filosofo – significa in conseguenza, non potersi sottrarre alla responsabilità […]; la responsabilità che priva l’Io del suo imperialismo e del suo egoismo».
«Sì, questo è un autore che meriterebbe di essere approfondito da parte di chiunque e in special modo da parte di chi voglia accostarsi ai problemi di un’etica per la civiltà digitale. Il traduttore dei miei libri in italiano, tra l’altro, è Massimo Durante, un allievo di Lèvinas e con lui mi capita spesso di affrontare questi discorsi. Se i filosofi andassero al potere altro che Heidegger for president, ma mille volte Lèvinas for president», scherza Floridi sapendo di parlare di cose serie.
- Scienza in rete, 9 agosto 2020.