Omofobia e diritto penale

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Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, analizza la proposta di legge Zan-Scalfarotto. Sommario del suo articolo: 1. Costruire contesti di rispetto, evitando criticità giuridiche.2. Le caratteristiche della proposta di legge in discussione.3. Il nodo costituito dal rapporto scivoloso tra le riforme ipotizzate e la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero.4. L’orientamento a un utilizzo del diritto penale di natura “simbolica” e il ruolo, in tal senso, delle norme complementari.5. La curiosa vicenda del già avvenuto recepimento di una parte delle norme complementari in sede di conversione del decreto-legge “rilancio”.6. Alcune proposte alternative praticabili.

Al di là delle opinioni sul contenuto della proposta di legge e a monte dei vizi di forma contestabili, è discutibile il ricorso allo strumento del diritto penale per coagulare consenso intorno ai valori e ai comportamenti chiamati in causa. Il rischio è che lo strumento si palesi inefficiente mentre se ne indeboliscono le prerogative costituzionali e il valore civile. Altre vie sono percorribili (red.)
Le immagini nel testo sono opere dell’artista fiorentino Sergio Cerchi.

eusebi omofobia
1. Costruire contesti di rispetto, evitando criticità giuridiche

Se si trattasse, soltanto, di riflettere sui modi più adeguati per prevenire fatti offensivi che traggano motivo dalle condizioni personali, dagli stili di comportamento o dai convincimenti di taluno relativi alla sfera dell’affettività o della sessualità, non sarebbe difficile trovare ampie convergenze: e già il ricercarle potrebbe favorire un dialogo in grado di promuovere il rispetto reciproco tra le persone, quale che sia il loro modo di proporsi in merito al contesto summenzionato.

La proposta di legge (infra, pdl) sulla c.d. omofobia adottata il 14 luglio 2020 come base per la discussione dalla Commissione giustizia della Camera dei Deputati (in continuità con progettazioni simili risalenti a diversi anni or sono), secondo il testo unificato predisposto dal relatore Zan, intraprende peraltro una strada – fondata sull’estensione e sull’inasprimento del ruolo esercitabile in materia dalle norme penali, ove si ritengano sussistere finalità di offesa nel senso predetto – la quale suscita problemi complessivi alquanto delicati sul piano giuridico e appare rispondere a scopi diversi rispetto al mero intento preventivo di cui s’è fatto riferimento.

Ne deriva, in particolare, che le criticità della pdl non trovano soluzione, come talora si è ritenuto, semplicemente affiancando agli interventi normativi proposti una più o meno efficace clausola di garanzia – come se si trattasse dell’eccezione ad una regola o, addirittura, di un privilegio – che faccia da argine a eventuali interpretazioni del nuovo testo suscettibili di ostacolare la libera manifestazione del pensiero (di cui all’art. 21 della Costituzione) in tema di affettività e sessualità.

Non si tratta, in altre parole, di accostarsi al dibattito sulla pdl secondo un approccio meramente difensivo rivolto a conservare la possibilità – tema molto sentito in ambito cattolico, ma anche in organizzazioni a orientamento femminista – di esprimersi pubblicamente (sul piano della riflessione antropologica od etica, della formazione, della catechesi, e così via) circa i temi in oggetto, senza il timore che ne derivi un contenzioso giudiziario: tuttavia disinteressandosi, in tal modo, degli ulteriori contenuti di quel testo. Si tratta, piuttosto, di far valere pur sempre considerazioni aventi portata generale, che attengono essenzialmente alle modalità di utilizzo del diritto penale e al fatto per cui il rilievo delle proposte formulate rispetto ad alcuni gangli molto sensibili degli ordinamenti giuridici liberali, come quelli relativi all’espressione libera delle opinioni, non è di interesse soltanto per alcune compagini c.d. di tendenza (laiche o religiose), bensì per tutti.

È necessario evitare, infatti, anche soltanto l’ombra di un’incrinatura – precedente assai insidioso nel contesto di un sistema democratico – circa la possibilità per ciascuno di esprimere senza angustie opinioni, giudizi o critiche (escluso soltanto l’utilizzo di modalità ingiuriose) in merito a qualsiasi tema. Ma anche evitare un utilizzo simbolico della penalizzazione per introdurre ex novo, o modificare, sensibilità sociali non riferite alla tutela di beni giuridicamente tutelabili. Come pure evitare di indulgere, nella formulazione delle norme penali in malam partem, a descrizioni delle medesime incentrate su finalizzazioni soggettive non facili da ricostruire (il movente, l’intento istigatorio: tanto più se riferiti a un concetto vago come quello del discriminare), piuttosto che su elementi materiali empiricamente constatabili.

2. Le caratteristiche della proposta di legge in discussione

La pdl succitata prevede, anzitutto (mediante gli articoli 1 e 2), un’estensione relativa all’ambito applicativo degli artt. 604-bis e 604-ter del codice penale [infra, c.p.] (ivi inseriti con legge n. 21/2018, essendo precedentemente ricompreso il loro contenuto nella legge n. 654/1975, così come modificato dalla c.d. legge Mancino, n. 205/1993), che hanno per oggetto le condotte di seguito descritte, quando originate da «motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

In particolare, la condotta di chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione», prevista all’art. 604-bis, comma 1, lett. a), c.p., con pena della reclusione fino a un anno e sei mesi o della multa fino a 6.000 euro, la condotta di chi, «in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza», prevista dall’art. 604-bis, comma 1, lett. b), c.p., con pena della reclusione da sei mesi a quattro anni, e la condotta di chi promuova o diriga «organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi» oppure ad essi partecipi o presti assistenza, prevista dall’art. 604-bis, comma 2, c.p., con pena, rispettivamente, della reclusione da uno a sei anni o della reclusione da sei mesi a quattro anni, verrebbero riferite, secondo la pdl, anche all’aver agito per motivi «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

A sua volta, l’art. 604-ter, che prevede, salvo il caso della condanna all’ergastolo, un’aggravante obbligatoria della pena inflitta fino alla metà, verrebbe riferito anche alla commissione di fatti criminosi egualmente «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

Ora, ciò lascia emergere, in primo luogo, l’orientamento a introdurre un diritto penale speciale relativo a determinate categorie delle persone offese. Il che, tuttavia, risulta plausibile rispetto a medesime tipologie di comportamento solo quando certe potenziali vittime si differenzino palesemente da tutte le altre in forza di determinate caratteristiche loro proprie, che esigano una strategia preventiva differenziata. Requisito che sarebbe difficile sostenere presente, in termini comparativi, nel nostro caso.

Da un lato, infatti, le potenziali vittime di offese arrecate per i motivi di cui alla pdl non rappresentano una tipologia uniforme di persone (potrebbero, del resto, risultare vittime anche persone eterosessuali). Mentre, dall’altro lato, deve riconoscersi che, una volta aperta la via, si potrebbe invocare un diritto penale speciale rispetto a tipologie di vittime sostanzialmente omogenee, e in rapporto ai moventi più diversi: si pensi a quelli che riguardino l’essere portatori di menomazioni fisiche o psichiche, l’essere immigrati, l’essere anziani (e all’inizio, almeno, della pandemia Covid-19 non sono davvero mancate discriminazioni nei confronti di questi ultimi) o, ancora, l’essere fautori di determinate forme di pensiero o di determinate concezioni politiche, l’essere poveri o senza fissa dimora, l’essere ex detenuti, e così via. Non sarebbe dunque plausibile avere una legislazione penale speciale per ciascun movente offensivo (salvo tener conto del movente stesso, come già previsto, nell’ambito della determinazione in senso stretto o in senso lato della pena: e ciò tanto più quando si giungerà a differenziare già in sede edittale le modalità sanzionatorie).

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Il rilievo attribuito alle casistiche attualmente previste dagli articoli 604-bis e 604-ter c.p. costituisce, in realtà, una vera e propria eccezione (esecutiva della Convenzione internazionale del 1966, ratificata dall’Italia, sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale), la quale si configura orientata a prevenire il ripetersi di accadimenti tragici (genocidi, deportazioni, “pulizie” etniche) che hanno coinvolto, nel secolo passato, interi popoli: casistiche, inoltre, riferite a condizioni delle vittime potenziali o attuali facilmente obiettivizzabili, cioè non legate a rappresentazioni in ampia misura soggettive del proprio stato personale.

Il carattere eccezionale, e la delicatezza, di tali norme – si consideri che l’art. 604-bis, lett. a), c.p. punisce anche «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico», previsione della quale, peraltro, la pdl che analizziamo non prevede alcuna estensione applicativa – è del resto attestato dall’ampio dibattito emerso in occasione della loro stessa introduzione, soprattutto con riguardo al dubbio circa l’opportunità del punire in modo autonomo dalla commissione di ulteriori specifici reati – e sebbene in rapporto agli scenari estremi poco sopra richiamati – la mera espressione di idee pur esecrabili oppure generici atti discriminatòri o orientati a discriminare.

Ciò anche in forza dell’esigenza di evitare – attraverso la supplenza penalistica rispetto a quello che dovrebbe costituire un contrasto essenzialmente culturale circa prese di posizioni inumane o incivili –l’inopportuno accreditamento degli eventuali condannati come martiri di un modus operandi ritenuto repressivo, da parte dello Stato, nei confronti di visioni non gradite, con effetti di rafforzamento in determinati ambienti, piuttosto che di delegittimazione, di simili visioni.

Perplessità, queste, le quali hanno trovato conferma nell’ulteriore discussione, che ha coinvolto un gran numero d’interventi dottrinali in tutta Europa, in merito all’opportunità d’introdurre una fattispecie penale autonoma di c.d. negazionismo: con l’esito di compromesso, per l’Italia (stante l’opinione prevalentemente contraria a simile fattispecie tra i penalisti), che si è sostanziato nell’integrazione di quello che, a partire dal 2018, costituisce il terzo comma dell’art. 604-bis c.p., il quale prevede la pena da due a sei anni di reclusione per il caso in cui le condotte di cui ai commi precedenti, commesse «in modo che derivi concreto pericolo di diffusione», si fondino «in tutto o in parte sulla negazione», e ora anche «sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia» (così ai sensi della l. n. 167/2017), «della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra».

Circa le estensioni prospettate dalla pdl in oggetto con riguardo alla sfera applicativa degli artt. 604-bis e 604-ter c.p. deve, d’altra parte, osservarsi, altresì, che se il loro intento fosse soltanto quello di promuovere il rispetto tra le persone, al di là di come vivano la loro affettività o la loro sessualità, e di prevenire il perpetrarsi di ingiustizie da ciò motivate, sarebbe difficile comprendere perché lo strumento utile a tal fine debba essere individuato, tout court, nell’estendere l’ambito della penalizzazione: cioè – pur quando non sia stato commesso alcuno dei reati finora previsti – nel ricorso allo strumento, di fatto, maggiormente divisivo circa quel rapporto di reciproco riconoscimento tra persone nella loro dignità che, invece, si afferma di voler valorizzare. Sarebbe infatti assai più utile, onde evitare le recidive e l’effetto diffusivo di condotte riconducibili alle descrizioni pur generiche operate dalla pdl, agire immediatamente per il recupero di quel riconoscimento, specie attraverso gli strumenti, come torneremo a dire, della giustizia riparativa.

Non trascurando, fra l’altro, come sia ben prevedibile che quelle condotte vengano poste in essere, per lo più, da soggetti poco acculturati e con problemi di socializzazione: vale a dire da parte di soggetti bisognosi di un intervento socio-riabilitativo, piuttosto che di una condanna detentiva ulteriormente desocializzante: la quale, in pratica, finirebbe per rispondere a meri intenti di esemplarità.

Ma anche rispetto al caso in cui uno dei reati classici, per i motivi suddetti, sia stato malauguratamente commesso, non è chiaro perché dovrebbe aggiungersi alla valutazione del giudice circa l’applicabilità dell’aggravante generale di cui all’art. 61, n. 1, c.p., relativa all’«aver agito per motivi abbietti o futili», l’applicazione obbligatoria, come prevede la pdl, della citata aggravante speciale prevista dall’art. 604-ter c.p. Ciò, infatti, configurerebbe una palese disparità di trattamento rispetto al sussistere di altri moventi, altrettanto o anche maggiormente riprovevoli, circa i quali simile aggravante non è contemplata. Con l’effetto di poter addivenite, nel caso in discussione, a livelli sanzionatòri eccezionalmente pesanti, che interesserebbero soprattutto i tipi di autore poco sopra richiamati.

3. Il nodo costituito dal rapporto scivoloso tra le riforme ipotizzate e la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero

Tutto ciò premesso, si pone certamente il problema dell’attrito tra le norme penali proposte e l’esercizio del richiamato diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero: un problema che non può essere eluso osservando, come talora si afferma, che le estensioni delineate dalla pdl, ove sussistano i motivi cui attribuisce rilievo, in merito all’ambito applicativo dell’art. 604-bis c.p. non investono la parte del medesimo riguardante chi «propaganda idee» (si tratta, come sappiamo, delle «idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale»), bensì soltanto le condotte di chi «istiga a commettere o commette atti di discriminazione» oppure di chi «in qualsiasi modo istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza» (condotte, queste ultime, peraltro già punibili secondo norme penali di rilievo generale).

Non corrisponde, infatti, a quanto esige il principio di legalità, sotto il profilo della determinatezza, affidare al giudice la definizione del confine fra propagare (lecitamente) idee e discriminare o istigare a discriminare (illecitamente) determinate persone: se formulare idee implica proporre dei distinguo, potrà sempre dirsi, infatti, che sulla base di quelle idee si discrimina, nel senso etimologico dell’argomentare secondo differenze: come bene indica, individuandovi un valore, il titolo (disCrimen) di una nota rivista penalistica.

Senza dubbio, si potrà nutrire speranza sull’equilibrio dei giudici, su una lettura delimitativa del concetto di discriminazione, su interpretazioni le quali muovano dal ruolo fondamentale che compete all’art. 21 della Costituzione, sulla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, al limite sull’intervento della Corte costituzionale. Ma è il legislatore che non deve dare adito a incertezze, attribuendo deleghe implicite (e indefinite nei contenuti) alla giurisprudenza solo perché non si sente, dinnanzi a determinati trend opinionistici, di assolvere agli obblighi che gli derivano, in materia penale, dalla riserva di legge.

Soprattutto, tuttavia, al legislatore non è consentito porre nell’incertezza il cittadino, che non deve giungere a ritenere di dover auto-imporsi un bavaglio, rispetto all’esprimersi su certe materie, per il comprensibile desiderio difensivo di non veder proposte nei suoi confronti denunce o iniziative giudiziarie: in quanto foriere di pesanti oneri psicologici, economici e di immagine, ancorché non vengano a sfociare in una condanna definitiva.

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Creare anche solo il dubbio di un limite alla libertà di espressione rappresenta il proporsi di nubi che sarebbe davvero preferibile non osservare all’orizzonte della democrazia.

Non senza tener conto, fra l’altro, di come tra le pene accessorie previste dalla legge (Mancino) n. 205/1993 e richiamate dalla pdl (art. 3) sia ricompresa, in particolare, quella di cui all’art. 1, comma 1-bis, lett. d), che, stabilendo per la persona condannata «il divieto di partecipare, in qualsiasi forma ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni», potrebbe facilmente dare adito a denunce strumentali.

Deve rimaner chiaro, dunque, che in democrazia, esclusa qualsiasi modalità intrinsecamente offensiva, è possibile esprimersi, anche pubblicamente, su tutto. E che, se alcuni limiti sono stati fissati (invero con alcune già menzionate ritrosie di matrice liberale, oggi meno nitidamente emergenti, per paradosso, rispetto alle proposte in discussione), ciò è accaduto con riguardo a contesti del tutto eccezionali e che tali devono rimanere, in quanto legati – come si osservava – a vicende tragiche, con vittime innumerevoli, nella storia ancor recente dell’umanità: rispetto alle quali creare dei parallelismi – senza nulla togliere all’inaccettabilità di qualsiasi contesto di offesa alla dignità altrui – dovrebbe essere ritenuto, anche culturalmente, fuor di luogo.

Così che, se ogni opinione, condivisibile o meno, deve poter essere espressa, purché in forme non offensive, pure in materia di esercizio dell’affettività o della sessualità, dovrà in particolare potersi continuare ad affermare, per esempio, che la distinzione tra il femminile e il maschile non è accidentale nell’esistenza umana (dunque, anche ai fini educativi e della crescita psicologica), nonostante che il sentire di una persona, come sappiamo, possa talora differenziarsi, in proposito, rispetto alle caratteristiche biologiche del suo corpo, oppure che altro è un simile sentire, altro è una mera decisione soggettiva circa le forme di esercizio della sessualità, sebbene le sfumature possano essere complesse.

Del resto, il mantenere aperta la riflessione nelle diverse branche del sapere (dal punto di vista etico, psicologico, filosofico, educativo ecc.) nonché, in genere, nel dibattito culturale su simili problematiche delicate e complesse, purché ciò avvenga nel pieno rispetto reciproco, appare conforme all’interesse di tutti. Altra cosa, ovviamente, è vigilare affinché nessuno subisca una deprivazione, per i motivi richiamati dalla pdl, rispetto a specifici diritti riconosciuti dalla legge.

4. L’orientamento a un utilizzo del diritto penale di natura “simbolica” e il ruolo, in tal senso, delle norme complementari

È noto che il ricorso al diritto penale dovrebbe avvenire solo in termini di extrema ratio, vale a dire quando non risultino adeguati strumenti diversi – meno problematici circa l’incidenza su diritti fondamentali – per la prevenzione delle condotte che s’intendano evitare, e purché le modalità della penalizzazione risultino conformi a simile scopo, come pure all’orientamento rieducativo richiesto dall’art. 27 della Costituzione.

Alla luce, tuttavia, di quanto sin qui evidenziato, è davvero difficile ritenere che la conformità a simili condizioni sia reperibile nella pdl in discussione.

Essa muove, tout court, dall’estensione e dall’intensificazione dell’intervento penale nelle sue forme tradizionali, sulla base di scelte che sembrano ispirate esclusivamente all’aspetto ritorsivo: come si evince anche dagli irrigidimenti proposti circa le pene accessorie di cui alla legge n. 205/1993, che la pdl estende – v. supra – alle casistiche degli artt. 402-bis e 402-ter c.p. (in merito ai modi dell’«attività non retribuita di pubblica utilità», sia quando ad essa venga subordinata la sospensione condizionale delle pena, sia, intesa come “lavoro di pubblica utilità”, nel caso di concessione della messa alla prova; come pure in merito al limite di durata di tale attività e alle valutazioni miranti a evitarne l’incidenza desocializzativa). Senza alcuna specifica caratterizzazione di simili pene in senso rieducativo.

La stessa previsione che l’attività di cui sopra possa essere svolta nella forma del lavoro «in favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati di cui all’articolo 604-bis c.p.», lungi dal rappresentare lo strumento di un recuperato dialogo e, dunque, di una recuperata disponibilità al rispetto (che richiederebbero l’intervento di operatori indipendenti), si prospetta come un mero onere suscettibile di creare ulteriore ostilità.

Come già si diceva, inoltre, simili previsioni non manifestano alcuna attitudine – il che risulta tanto più rilevante in una materia nel cui ambito sono in gioco, più che interessi, atteggiamenti personali – a motivare nel senso del rispetto e dell’equanimità comportamentale verso chiunque, cioè a promuovere scelte operate in tal senso per convinzione: essendo anzi prevedibile che l’applicazione di certe modalità sanzionatorie nei settori rilevanti ai fini della pdl rafforzi e diffonda sentimenti di diffidenza e di rancore tra le persone coinvolte.

S’è visto, poi, che le medesime previsioni finiscono per creare problemi delicatissimi, che non pare utile produrre, in merito alla libertà di espressione delle opinioni; ma anche per creare un diritto penale speciale riferito a un movente di offesa verso specifiche categorie di persone, e non ad altri moventi essi pure deprecabili, con evidenti riflessi, a loro volta, discriminatòri: sulla base di un’assimilazione alquanto forzata delle casistiche cui attribuisce rilievo la pdl in esame a quelle, molto diverse anche nel retroterra storico, cui si riferisce la legge Mancino.

Tutti profili, questi, che depongono nel senso secondo il quale le ipotesi di penalizzazione previste dalla suddetta pdl assumono essenzialmente una portata simbolica, intesa all’accreditamento nel sentire sociale – attraverso forme speciali di attivazione del diritto a loro riguardo – di determinate scelte attinenti alla gestione dell’affettività o della sessualità: secondo una prospettiva, pertanto, rivolta a incidere creativamente sui costumi attraverso il diritto penale, cioè a intenti di c.d. moralizzazione mediante nuove norme penali, che la dottrina penalistica ha ampiamente stigmatizzato come espressiva di paternalismo giuridico, in contrasto col principio stesso di laicità.

Un orientamento che trova conferma anche nelle disposizioni della pdl complementari a quelle di carattere penale, disposizioni le quali consistono, essenzialmente, in modifiche integrative del decreto legislativo n. 215/2003, finalizzato all’attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

Simili norme ricomprendono fra l’altro, infatti, l’istituzione di una «giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia» (art. 5, che prevede, fra l’altro, l’organizzazione di «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado»), l’istituzione di «un programma per la realizzazione in tutto il territorio nazionale di centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere» (art. 6), l’elaborazione con cadenza triennale, da parte dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (operante presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità), di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere, con incremento annuo di 4.000 euro del Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità di cui al decreto-legge n. 223/2006 (art. 7), l’assegnazione all’Istituto nazionale di statistica, oltre che del monitoraggio, in materia, circa le politiche di prevenzione, anche dello svolgimento con cadenza almeno triennale – ciò che rende palesi le finalità effettive perseguite dalla pdl – «di una rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione» (art. 8).

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Proposte, nel loro complesso, tutte incentrate a disegnare una strategia ad hoc – che non ha eguali in ambito politico-criminale – di tutela e avvaloramento delle categorie di persone cui la pdl ha specifico riguardo. Considerato che, se le modifiche prospettate da quest’ultima rispetto agli artt. 604-bis e 604-ter c.p. appaiono riferibili in linea di principio a condotte offensive motivate da qualsiasi modalità del vivere, da parte di una persona, l’affettività o la sessualità, resta nel contempo evidente che la pdl medesima, sia attraverso le distinzioni in essa enunciate rispetto ai motivi rilevanti, sia attraverso le norme non penali, di carattere promozionale, sopra richiamate, intenda operare a beneficio delle categorie di persone in tal modo desumibili.

Scelta, quest’ultima, la quale finisce tuttavia per formalizzare una differenza intrinseca di simili persone rispetto all’insieme dei cittadini la cui tutela è affidata, anche sul piano penale, alle norme ordinarie: così che quelle persone ne risultano a priori identificate – per aspetti attinenti esclusivamente alla sfera dell’affettività o della sessualità – come vulnerabili. Lo riconosce icasticamente la relazione illustrativa della pdl Zan, sulla quale si fonda in via prioritaria la pdl unificata:

«Con questa proposta di legge anche l’ordinamento italiano si potrà dotare di uno strumento di protezione della comunità LGBTI, intesa come collettività composta da soggetti che possono essere particolarmente vulnerabili». E lo si deduce altresì in base alla circostanza per cui la pdl, all’art. 4, propone di desumere la condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa, cui il codice di procedura penale attribuisce rilievo (in modo, peraltro, non automatico) ai sensi dell’art. 90-quater, anche dal fatto che l’illecito posto in essere risulti «fondato sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere».

Il che, peraltro, solleva l’interrogativo se tali categorie di persone abbiano davvero interesse, nel momento in cui viene fatta valere l’esigenza di una relazionalità dei loro membri con ogni altro individuo in termini di uguaglianza, ad auto-identificarsi come categorie “differenziate”, vale a dire composte da persone, in certo modo, “diverse”.

Senza peraltro escludere che determinati percorsi esistenziali relativi all’ambito di cui ci occupiamo possano favorire situazioni contingenti di vulnerabilità, cui è necessario rispondere in termini di aiuto.

5. La curiosa vicenda del già avvenuto recepimento di una parte delle norme complementari in sede di conversione del decreto-legge “rilancio”

In questo quadro non manca peraltro di stupire l’avvenuto inserimento nel decreto-legge n. 34/2020 (recante «misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19»), attraverso la legge di conversione n. 77/2020, approvata il 17 luglio, dell’art. 105-quater (recante «misure per il sostegno delle vittime di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere»), il quale riprende pressoché alla lettera i contenuti degli artt. 7 e 9 della pdl fin qui considerata, secondo il seguente testo:

«1. Il Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità, di cui all’articolo 19, comma 3, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, è incrementato di 4 milioni di euro per l’anno 2020, allo scopo di finanziare politiche per la prevenzione e il contrasto della violenza per motivi collegati all’orientamento sessuale e all’identità di genere e per il sostegno delle vittime. A tal fine, è costituito uno speciale programma di assistenza volto a garantire assistenza legale, psicologica, sanitaria e sociale alle vittime di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere nonché ai soggetti che si trovino in condizione di vulnerabilità in relazione all’orientamento sessuale o all’identità di genere in ragione del contesto sociale e familiare di riferimento. Tali attività sono svolte garantendo l’anonimato dei soggetti di cui al presente comma. – 2. Con appositi provvedimenti normativi, nel limite di spesa costituito dalle risorse di cui al comma 1, si provvede a dare attuazione agli interventi ivi previsti. – 3. Agli oneri derivanti dal presente articolo, pari a 4 milioni di euro per l’anno 2020, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo di cui all’articolo 1, comma 200, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, come rifinanziato dall’articolo 265, comma 5, del presente decreto».

Al di là di qualsiasi valutazione circa il merito della nuova normativa, emerge ovviamente, in proposito, la totale incongruenza dell’articolo introdotto (solo) in sede di conversione rispetto ai contenuti del decreto-legge cui viene ad afferire, venendosi con ciò a riproporre la medesima questione d’incompatibilità con l’art. 77 della Costituzione fatta valere dalla Corte costituzionale in rapporto alle disposizioni della c.d. legge Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti, a suo tempo introdotta con il medesimo metodo. Questione cui si aggiunge quella ulteriore riguardante il fatto per cui, ai sensi del medesimo articolo, la procedura propria dell’introduzione e della successiva conversione di decreti-legge è esperibile soltanto in relazione a «casi eccezionali di necessità e d’urgenza».

Ciò a parte, tuttavia, resta il fatto dell’elusione, in tal modo, della procedura valutativa già in corso di quel testo normativo da parte degli organi parlamentari, entro il quadro dell’intera problematica cui simile testo inerisce: posto che la modalità adottata non ha consentito alcuna discussione nel merito di tale testo da parte delle Camere e ha reso, quantomeno, difficoltosa la stessa consapevolezza da parte dei parlamentari della nuova norma introdotta, stante la vastità e la complessità del decreto-legge succitato.

6. Alcune proposte alternative praticabili

Si osservava, all’inizio di queste note, che non sarebbe impossibile reperire soluzioni condivise, o comunque trovare punti di mediazione tra sensibilità diverse, onde dare rilievo e visibilità – senza incorrere nei problemi cui dà luogo la pdl che abbiamo descritto – all’intento di evitare che le posizioni di ciascuno in materia di affettività o sessualità possano costituire motivo per comportamenti offensivi.

Ciò, innanzitutto, potrebbe essere ottenuto prevedendo che in ogni caso, quando un reato abbia avuto come movente simili posizioni, la risposta sanzionatoria debba includere – sia quando venga eseguita una pena detentiva, sia quando venga applicata ab initio una misura alternativa o vengano posti in essere strumenti di definizione anticipata del processo – un programma rieducativo specifico (a cura dei servizi penitenziari o dall’Ufficio dell’esecuzione penale esterna) finalizzato a ristabilire condizioni di rispetto nei confronti delle parti offese: anche attraverso la possibilità, già oggi espressamente prevista ai fini della “messa alla prova” per adulti, del ricorso a un iter di mediazione penale, che coinvolga il soggetto agente e la vittima, o una realtà che ne rappresenti le condizioni personali.

In questo modo si renderebbe fortemente percepibile, anche sul piano sociale, l’esigenza di rispetto nei confronti di ciascuno, quali che siano, dunque, le sue posizioni in merito alla sfera affettiva o sessuale: senza dilatare l’ambito della penalizzazione e, piuttosto, agendo in concreto per il superamento di atteggiamenti personali inaccettabili che siano sfociati nel compimento di reati.

Per quanto riguarda, invece, la prospettata introduzione, a tal proposito, di una nuova circostanza aggravante, s’è detto in precedenza che non appare ragionevole l’aggiunta di una circostanza specifica al quadro, molto nutrito, delle aggravanti già oggi applicabili e, in particolare, a quella di cui all’art. 61, n. 1. c.p. Ma ove ci si dovesse orientare a voler segnalare anche su tale piano il movente offensivo in oggetto, si potrebbe integrare la formulazione della norma da ultimo menzionata affiancando, in alternativa, ai motivi abbietti o futili l’aver agito secondo simile movente.

Ove poi si volesse nondimeno dare rilievo – pur in assenza della commissione di reati – anche a eventuali condotte discriminatorie o di istigazione alla discriminazione fondate sul medesimo movente (sebbene resti il problema della disparità di trattamento rispetto a condotte analoghe fondate su altri moventi), andrebbero innanzitutto ben definite tali condotte, in modo da riferirle all’impedimento indebito e intenzionale dell’esercizio di specifici diritti, espressamente riconosciuti dalla legge: onde contrastare l’incidenza delle norme a ciò finalizzate sulla libertà di manifestazione del pensiero. Configurando, poi, l’illecito che in tal senso si volesse introdurre – in modo da evitare, per le ragioni precedentemente esposte, la dilatazione del ricorso al diritto penale e, con ciò, i timori stessi di una possibile criminalizzazione riferita all’esercizio della suddetta libertà costituzionale – come illecito di natura amministrativa: ascrivibile alla competenza del Prefetto e tale da prevedere, in alternativa o in aggiunta a una sanzione pecuniaria, l’obbligo di seguire un programma rieducativo del tipo cui s’è fatto cenno, predisposto sulla base di linee guida omogenee e seguito, in concreto, dai servizi sociali a livello locale.

Potrebbero essere certamente previste, infine, forme di assistenza alle vittime (nonché volte al ripristino di relazioni personali positive), anche riconsiderando le norme, come s’è visto, già a tale scopo introdotte.

 

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