Il 25 agosto il ministro degli esteri della Cina, Wang Yi, ha incontrato il ministro degli esteri italiano, Luigi Di Maio, avviando un giro fra le cancellerie europee (Olanda, Francia, Norvegia, Germania). L’occasione ha sollecitato l’attenzione al rapporto Cina-Santa Sede e al rinnovo, ormai prossimo, dell’accordo sulla nomina dei vescovi cattolici in Cina (22 settembre).
Contrariamente alle voci d’agenzia non vi è stato alcun incontro formale o informale fra Vaticano e il ministro, che aveva incontrato mons. Paul Gallagher, segretario per il rapporto con gli stati della Segreteria di Stato vaticana, il 14 febbraio scorso. I rapporti con l’Italia e la Santa Sede viaggiano su due livelli diversi, rispondono a logiche differenti e, in parte, contraddittorie.
L’accordo: risultati discussi
L’accordo sui vescovi è in scadenza e si prevede, nella difficoltà attuale degli incontri delle due commissioni legata alla pandemia, un suo probabile prolungamento di uno o due anni. Nessuna delle due parti ha riserve di fondo anche in presenza di valutazioni di limiti e legnosità nell’applicazione.
Si conosce la dura opposizione a esso di una parte del mondo cattolico il cui esponente più noto è il card. J. Zen, ex-arcivescovo di Hong Kong, con variegati consensi nei media cattolici e nel mondo tradizionalista americano. Proseguono vessazioni amministrative comuni a tutte le fedi e che interessano in particolare le comunità “clandestine”. Si conoscono anche i risultati positivi, come il riconoscimento o nomina di sette vescovi (mons. Lin Jiashan, Jin Lugang, Ma Cunguo, Li Huiyuan, Jin Yangke , Hu Hogwei, Yao Shun), le celebrazioni condivise fra clandestini e “patriottici”, ordinazioni presbiterali non più divisive.
Rimangono da affrontare molte questioni come il completo riconoscimento dei vescovi clandestini, le nomine urgenti da affrontare (una quarantina), la regolazione territoriale delle diocesi (diverse quelle riconosciute dal governo rispetto alla Santa Sede). Vi è un cambiamento di clima nelle relazioni che le due parti hanno positivamente alimentato.
Nella crescente diffidenza dell’Occidente verso la Cina tutti i singoli episodi di tensione vengono sottolineati ed enfatizzati. Ricordo il caso dell’hackeraggio sulle comunicazioni diplomatiche del Vaticano e il capitolo grave dei diritti umani.
Nel maggio scorso un’azienda di cyber security americana ha rilevato una intrusione diretta di hackeraggio addebitabile al governo cinese sulla Missione di studio vaticana a Hong Kong e, attraverso di essa, sulla posta del Vaticano. Anche se tutti i documenti più rilevanti erano già stati trasferiti nelle Filippine e, ultimamente, nell’archivio apostolico a Roma, l’evento ha sollevato molti interrogativi. «Se fossi un diplomatico vaticano – ha commentato l’ambasciatore americano per le libertà religiose Sam Brownback – vedendo con chi ho a che fare e come mi trattano, mi interrogherei sulla fiducia da accordare e come lavorare con persone che mi spiano».
Una voce vaticana ha più realisticamente affermato: «Dire che la Cina spia il Vaticano è scoprire l’acqua calda: ormai lo spionaggio e gli hacker sono diventati un problema internazionale con cui convivere».
Più serio e complesso è il tema dei diritti umani. Le emergenze più fortemente richiamate riguardano la popolazione degli uiguri e la situazione di Hong Kong. Degli undici milioni di uiguri dello Xinjiang, un milione è trattenuto in campi di concentramento fatti passare per istituti di rieducazione. Penalizzazioni amministrative, controlli intrusivi, carceri e torture sono negate dal governo che invoca la necessaria battaglia al fondamentalismo (gli uiguri sono musulmani).
Ai 17 stati occidentali che hanno firmato una decisa condanna dei comportamenti governativi, la Cina ha contrapposto una quarantina di firme di stati che invece ne esaltano i risultati.
La questione di Hong Kong è più nota. La «legge di sicurezza» votata a Pechino il 30 giugno scorso ha annullato il patto internazionale che garantiva alla città uno statuto democratico e liberale (il cosiddetto «uno stato e due sistemi»). Mesi di lotte civili che hanno coinvolto la maggioranza dell’intera popolazione non hanno convinto il governo continentale a lasciare uno spazio di libertà a cui si era impegnato. La Chiesa locale e il presidente della federazione delle conferenze episcopali asiatiche, card. C. Maung Bo, hanno vivamente e ripetutamente protestato.
Sul tema si è registrato un occasionale silenzio di papa Francesco, che il 5 di luglio avrebbe dovuto citare in un passaggio la difficile situazione dei territori di Hong Kong, già scritto e fatto circolare alla stampa, senza essere poi pronunciato. Per quanto attiene all’accordo mons. C. Celli ha detto: «Il dialogo con la Cina non è un percorso facile, ma abbiamo intrapreso un cammino di rispetto, attenzione e comprensione reciproca per risolvere i nodi rimasti e le situazioni che ci lasciano preoccupati».
Italia: anello debole
Su versante politico e governativo italiano l’incontro con Wang Yi rappresenta la volontà cinese di ovviare alla crescente disaffezione se non diffidenza dei paesi occidentali partendo dal «punto più morbido» e fragile, cioè l’Italia. I temi del dialogo sono noti e comuni per tutti gli interlocutori: dall’emergenza della pandemia che è nata in Cina, alla situazione di Hong Kong e degli uiguri, per finire con la tensione economica con gli USA e l’Occidente sui sistemi telematici, sullo spionaggio industriale, sulla trasparenza economico-finanziaria.
L’Italia è stato il primo paese dei G7 a siglare un accordo commerciale per la costruzione della nuova «via della seta» e un migliore collegamento fra Asia ed Europa. Lo ha fatto con le significative riserve dell’Unione Europea (in particolare Francia e Germania) e con l’irritazione degli USA. Soprattutto in ordine alla modalità nicodemica con cui il nostro governo si è mosso.
Osservazione che l’opposizione interna ha sollevato anche in ordine alla visita di questi giorni. È soprattutto la «nuova guerra fredda» invocata dal segretario di stato Mike Pompeo (24 luglio), che ha parlato di tirannide del partito sulla popolazione cinese e di alleanza dei paesi democratici, a porre in difficoltà il dilettantismo di alcuni dei nostri ministri. Nell’Unione Europea la Cina è passata rapidamente da partner affidabile a rivale sistemico.
La logica diversa
Solo in apparenza l’apertura vaticana coincide con quella italiana. Mentre quest’ultima è legata a interessi immediati privi di uno sfondo significativo di politica estera, l’interesse vaticano rispetta le strutture decisionali cinesi ma ne intacca elementi profondi come il rinnovato riconoscimento alle fedi (seppur sinizzate) da parte dell’ideologia comunista, e il riconoscimento da parte del regime di una autorità «altra» (il papato) rispetto al partito.
Il dialogo vaticano non è sulla lunghezza d’onda di quello del governo italiano, non ne costituisce un traino. Che non ci sia stato nessun contatto con la Santa Sede durante la visita di Wang Yi ne è la conferma.
Il papato si è piegato alle pretese e ricatti della Cina comunista, che sceglie i vescovi. Il fatto è talmente noto, da incutere vergogna al Vaticano, che rifiuta di rendere pubblico il cosiddetto “accordo”.
Conosco poco le questioni sottese ai rapporti tra Vaticano e Cina. Ma non credo che obiettivi pur di fondo, come quelli qui indicati (un iniziale riconoscimento delle fedi religiose e il riconoscimento del papato come autorità “altra”), possano essere perseguiti pagando il prezzo del silenzio su diritti umani conculcati. E’ un prezzo molto alto, credo troppo. E che sia un prezzo “necessario” da pagare fa pensare che, in realtà, quegli obiettivi non saranno davvero raggiunti.
Praticamente l’unico “risultato positivo” è che ci sono state delle nomine condivise di vescovi, in gran parte di persone legate al regime (vedasi Asia News). Bel risultato. In cambio la santa Sede cosa ha dato? il riconoscere una dittatura per niente rispettosa dei diritti umani e sempre più repressiva