Padre Antonij Hmelev è pope della Chiesa russa ortodossa nella diocesi di Omsk, in Siberia. È parroco della chiesa di Krutoy Gorka, ove, con la sua famiglia naturale e i suoi parrocchiani, dà vita ad un’opera di accoglienza e di amore per persone disabili abbandonate. Marina Kushpileva – reggente del coro della cattedrale di Omsk e insegnante di lingua italiana presso il liceo musicale della città – ha raccolto questa significativa intervista in russo e realizzato la traduzione.
- Batyushka[1] Antonij, vuoi raccontare come sei divenuto prete e parroco nel villaggio di Krutoy Gorka nella nostra diocesi di Omsk?
La storia è un po’ lunga e dagli sviluppi imprevisti. Non avevo niente a che fare con la Chiesa. Ero un atleta professionista. Sono stato maestro dello sport nello sci di fondo. Vivevo con i miei genitori in Kamchatka, al centro della penisola, nel villaggio di Melkovo. Attorno al villaggio ci sono montagne e la regione è sciistica. Dopo i primi studi, ho completato la mia formazione a Ekaterinburg, presso la Scuola Olimpica dello Sport, ove ho conseguito la laurea.
Negli anni ‘80 in Kamchatka la vita era buona. Non ci mancava nulla. Attorno al 1990 il benessere ha lasciato il posto al collasso economico e la nostra famiglia ha deciso di tornare a Omsk ove ancora vivevano i genitori di mia madre. Ho continuato a praticare il mio sport, rappresentando la regione di Omsk e la Russia in varie competizioni nazionali e internazionali.
Quando ho incontrato la mia matushka[2] ho deciso di lasciare lo sport professionistico, sebbene potessi andare ancora avanti nella carriera. Ho iniziato a cercare lavoro. Guardando gli annunci sui giornali, ho notato che un Centro per bambini con disabilità stava cercando un fisioterapista. Avevo frequentato corsi di massaggio per atleti e sportivi. Sebbene la mia abilitazione non fosse di tipo propriamente sanitario, dopo sei mesi di incertezza, sono stato assunto. Mi occupavo di bambini da 0 a 3 anni con disturbi muscoloscheletrici ed ero felice di vedere che il mio lavoro stava dando risultati positivi: i bambini iniziavano a camminare!
In quel Centro c’era una piccola chiesa domestica. Il rettore, padre Evgenij, era pure rettore della Cattedrale della Natività di Cristo. Sono russo e da buon russo, per rispetto e per tradizione, mi inchinavo nelle chiese, ma non avevo allora altre idee. Una volta padre Evgenij venne al servizio liturgico e mi chiese occasionalmente di aiutarlo.
Al termine mi disse: “Se sei interessato a come è organizzata la Divina Liturgia, vieni sabato sera al servizio nella cattedrale”. Ho promesso che sarei andato, ma poi sono stato preso dalla paura. Mi dicevo: “non sono contrario al tempio, ma che cosa ho a che fare con esso?”. Sentivo che il mondo del tempio era un mondo diverso. Sentivo che i sacerdoti erano persone speciali. Sentivo che dovevo ascoltare la loro voce. Alla fine sono andato.
Accostarsi alla liturgia
Mi hanno messo subito a recitare il Trisagion. Non sapevo neppure che cosa fosse. Mi tremavano le ginocchia, ma mi sono ricordato di essere un atleta e non ho “mollato”! Sono riuscito a leggere: non era in russo, bensì in slavo ecclesiastico! La mia matushka era in chiesa. I miei servizi sono andati avanti così per circa quattro mesi. I sacerdoti hanno iniziato a dirmi come sarebbe stato bello per me diventare prete.
La mia matushka era categoricamente contraria ad una ordinazione. Io stesso pensavo come potesse passare da me quel calice. Ma cominciavo a capire che l’uomo che rifiuta la volontà di Dio non riesce a ritrovarsi nella sua vita. Mi sono detto: “così come sarà la volontà di Dio, io farò!” Lentamente anche nella mia matushka è maturata questa idea.
Ogni volta che assisteva al servizio viveva preoccupazioni interiori. Si diceva: “Ho bisogno di una sorta di segno dall’alto per accettare questo”. Ed ecco che Vladyka Theodosius – il sacerdote che mi seguiva con attenzione – le è passata un giorno accanto e l’ha toccata d’improvviso su di una gamba col suo bastone. Un altro giorno che mia moglie non era in chiesa, senza preavviso, sono stato ordinato diacono. Quando sono tornato a casa, lei mi ha chiesto: “Beh, sei ancora alle prime armi?”. “No, sono già diacono!”. Era sconvolta solo per il fatto di non aver potuto assistere personalmente all’ordinazione diaconale.
- Non è stato dunque il caso a portarti in chiesa: hai ascoltato il richiamo del cuore?
Devo spiegare che, mentre accadeva tutto ciò, continuavo a lavorare al Centro con i bambini. Ho visto molto dolore in quel Centro per bimbi disabili, ma ho visto anche molta bontà e tante brave persone dedicate a loro, come avviene in una casa, come in una famiglia. Purtroppo ci sono altri Centri in cui le cose non vanno allo stesso modo.
Ricordo la vicenda di un ragazzo che si chiama Stepan. Quando è arrivato il momento del trasferimento dal Centro all’orfanotrofio, mi sono offerto di accompagnarlo. Siamo andati all’orfanotrofio Alekseevsky nel distretto di Lyubinsky, a 130 km da Omsk. Non c’era neppure la strada per arrivarci in macchina. Ci siamo trovati davanti dei capannoni: tre edifici industriali in cui stavano ragazzi che gattonavano o camminavano poco.
Nei villaggi si viene di solito accolti da bande di ragazzi sporchi, laceri e allegri. Davanti a noi sono apparsi tanti ragazzi malati. Il mio cuore ha tremato davanti a una tale scena: i bambini giacevano in condizioni igieniche e sanitarie spaventose, imbrattati di verde brillante, con piaghe da decubito in decomposizione.
Misericordia e ministero
Da quella prima visita, ho iniziato ad andare regolarmente in quel orfanotrofio, ogni sabato, con mia moglie, partendo al mattino presto per poter tornare in tempo per il servizio liturgico del Vespro. Andavamo a trovare Stepan e quindi a conoscere gli altri. I bambini ci aspettavano sempre, contenti dei nostri piccoli doni. Penso che il Signore mi abbia guidato in questo modo alla mia ordinazione sacerdotale.
- Batyuska, apparentemente, il tuo bisogno di misericordia ha trovato una prima via nel lavoro con i bambini e solo dopo nel servizio in Chiesa?
Forse. Durante le visite all’orfanotrofio sorgeva in me questo pensiero: “Devo portare i bambini fuori di qui”. E con questo pensiero nascevano i dubbi e le domande: non sarò in grado di prenderli tutti, ma qualcosa devo fare! Dove portarli? Nella mia casa? Ho una moglie: come potrà vedere un bambino, costretto a letto, apparire in casa? Tutto è possibile solo a Dio! Evidentemente ha visitato le mie intenzioni.
Così, dopo la mia ordinazione, ho avuto nuove opportunità. Nella Cattedrale dell’Assunzione c’era un dipartimento che tuttora si occupa di beneficenza. Per questa via ho potuto raccogliere regali, comprare giocattoli, cibo e prodotti per l’igiene per i bambini. Ma restava la mia domanda più forte: dove e come portare i bambini? Dovevo costruire una nuova casa, ma dove costruirla? Facevo servizio liturgico nella Cattedrale dell’Assunzione, ma servire in un piccolo villaggio sarebbe stato più facile per trovare risposte alle mie domande.
È arrivato allora un segno da Dio: l’abate della chiesa di Krutoy Gorka era stato nominato vescovo, e io avrei potuto diventare abate al suo posto. Padre Vasilij, vicario del Metropolita, mi ha un giorno avvicinato e mi ha chiesto: “Vogliono mandarti a Krutoy Gorka, come ti senti al riguardo?”. Ho detto subito: “Se Dio vuole, andrò!”.
Dopo aver ricevuto la benedizione per il nuovo ministero, ho iniziato ad agire. Come ho realizzato i miei propositi? Il mio proposito fondamentale è stato quello di dare inizio a qualcosa di nuovo. Altre persone mi avrebbero aiutato, ne ero sicuro. Pensavo da irragionevole amministratore: “Inizierò e così mi aiuteranno”. In inverno ho acquistato il materiale e ho iniziato a preparare lentamente il sito per la costruzione. Sono effettivamente apparse persone disponibili ad aiutarmi.
Mentre la casa era ancora in costruzione, ho avuto l’opportunità di affittare un appartamento nel villaggio e di portare rapidamente dei bambini, perché era giunto per loro il momento del trasferimento dall’orfanatrofio ad un collegio per ragazzi adulti. La loro vita sarebbe così peggiorata ulteriormente.
Nell’orfanatrofio abbiamo creato una chiesa domestica e abbiamo iniziato a servire la preghiera ogni lunedì. Le prime liturgie sono state servite nella sala comune dell’orfanotrofio. Tutti coloro che erano sdraiati sui lettucci hanno potuto ricevere la Comunione. Abbiamo servito la Comunione sino a 300 persone: neppure in cattedrale sarebbe stato raggiunto quel numero!
Certamente c’erano tante difficoltà in quel periodo. Abbiamo dovuto affittare un altro appartamento all’altro capo del villaggio e per giunta al quinto piano (senza ascensore). Immagina i ragazzi disabili salire al quinto piano, strisciando, in ginocchio o sulla schiena!
Quando i lavori della nostra nuova casa sono terminati, è stata una grande gioia per tutti. Per me è stato un grande sollievo: mi sentivo finalmente tranquillo. I ragazzi erano vicini a me, non da qualche parte, in altre case. Avevamo una casa insieme.
Questa sarebbe stata una Casa per ragazzi disabili dall’orfanatrofio. Ma la situazione è mutata, ancora una volta, da sé. Una parrocchiana mi ha chiesto di ricevere sua figlia molto malata. Lei stessa era molto malata di una malattia incurabile e non aveva molto da vivere. Non aveva nessuno a cui affidare la figlia, Ksenia, di quarant’anni, non auto-sufficiente. Cosa avremmo potuto fare? Nonostante le difficoltà e lo sconcerto, l’abbiamo accolta! All’inizio Ksenia era molto nervosa, dovevamo tranquillizzarla, ma il nostro amore e la nostra cura l’hanno aiutata a diventare più calma.
- Quante persone vivono ora nella nuova casa?
Ci sono quattro ragazzi dall’orfanatrofio: i primi accolti sono stati Dima e Igor, poi sono giunti Sergey e Arseny. Più tardi, è apparsa appunto la nostra ragazza di quaranta anni, Ksenia. Poco dopo si è aggiunta Darja: è una monaca rimasta sola e con problemi di demenza senile. Un altro padre aveva cercato di prendersi cura di lei, ma presto mi ha chiamato e mi ha chiesto se fossi pronto a portare suor Darja nella mia casa, accanto al tempio.
Accoglienza
Dove accogliere i monaci, angeli del tempio, se non accanto a una chiesa? Per un periodo di tempo abbiamo avuto con noi pure una donna completamente allettata. Aveva problemi alla colonna vertebrale. Ci siamo occupati di tutti i suoi problemi di igiene. Non è stato facile.
I parrocchiani hanno aiutato molto. Siamo riusciti. Ora questa donna ha ripreso a camminare da sola. L’amore fa davvero grandi cose. Di fronte a tali situazioni io dico che dobbiamo essere pronti. Con delicatezza umana, dobbiamo essere in grado di fare tutto senza nessun disgusto: tutti noi dobbiamo passare, prima o poi, attraverso quelle condizioni.
- Quante persone collaborano con te?
All’inizio c’era solo un collaboratore adulto che viveva in Casa con noi, ma era difficile per lui affrontare tutti i problemi. Abbiamo quindi deciso di realizzare dei turni di presenza con tre persone. Ma oltre a loro, ci sono i miei parrocchiani. Alcuni vivono in città, ma vengono spesso qui, formano con me la parrocchia.
Naturalmente non tutti i parrocchiani sono in grado di offrire un servizio. E francamente non tutti vengono qui per incontrare Dio. Ci sono persone che vengono per tradizione al servizio liturgico domenicale per adempiere un dovere che dura sino alla Domenica successiva. Ma la vera parrocchia trova il tempo di vivere da parrocchia anche durante la settimana. Non ci occupiamo solo della Casa. Abbiamo tre punti in città in cui andiamo a portare cibo ai senzatetto tre volte alla settimana. Abbiamo raggiunto quasi 200 persone. Sono i parrocchiani a cucinare e a fare tutto questo.
- Questa benefica organizzazione della chiesa ha ottenuto riconoscimenti e aiuti pubblici?
Questa è semplicemente la parrocchia. Come è detto: la fede senza le opere è morta! Le persone rispondono al richiamo del cuore. Qualche parrocchiano mi ha chiesto: “Perché, padre, ci fai ancora lavorare?”. Ho pensato che avesse ragione: non si può agire di autorità. Nel Regno dei Cieli non si può portare con forza. Di conseguenza solo quelli che lo vogliono restano vicini.
Comprendono da sé che, prendendosi cura degli altri, ricevono grazia, vivono nella gioia e si riempiono di Spirito Santo. Anche se per loro all’inizio è stato difficile, i parrocchiani continuano a venire e ad aiutare. Ad esempio, il lunedì continuiamo ad andare all’orfanotrofio a lavare i bambini costretti a letto. Per questi parrocchiani, non è un lavoro, ma un servizio fatto con gioia. Non lavano come gli addetti allo stabilimento balneare. Accarezzano i bambini e parlano loro con affetto. Gli educatori e i dirigenti notano le trasformazioni positive che si verificano così in questi bimbi.
Alcuni pensano che questi bambini non capiscano nulla, non sentano nulla: non è affatto vero! Questi bambini capiscono e sentono come e più di tutti noi, semplicemente non possono dire nulla. Ma si può leggere nei loro occhi. I parrocchiani che vengono per la prima volta nell’orfanotrofio sono colti da commozione e da compassione, sono sopraffatti dal dolore, sono presi da pensieri pesanti. Ma poi si lasciano andare e vengono mossi dal desiderio di prendersi cura.
- Hai formato la tua parrocchia come una famiglia?
Mi sembra di conoscere le persone da sempre, come nella famiglia. Non so perché, ma per qualche motivo provo questa sensazione di familiarità: ogni persona che appare è per me famigliare. La nostra parrocchia differisce da altre, sia per il fatto che ci prendiamo cura della nostra Casa comune, sia perché facciamo molte cose insieme, non solo di Domenica. Tutto il tempo della parrocchia è pieno, come in ogni famiglia.
- Venendo a cantare nella tua chiesa ho avuto anch’io la sensazione di entrare in casa…
Non nascondo che abbiamo i nostri problemi, come in ogni famiglia, ma decidiamo insieme. Parliamo. Tra i ragazzi insorgono normalmente disaccordi: ne parliamo con loro, ma non in maniera autoritaria, bensì in maniera gentile.
Questi ragazzi non sanno molto del mondo che li circonda, non hanno visto molto. Qualcuno, al contrario, ha già visto troppo orrore e non è facile per lui vivere in serenità. Seve molta dolcezza.
Preghiera
- Batyushka, che cos’è per te l’amore?
Sacrificio. Quando sono pronto a sacrificare anche la mia vita per il bene di una buona causa, per il bene del prossimo, per il bene di Dio, allora c’è l’amore, allora non sono più io che vivo ma Cristo vive in me. Quando invece voglio vivere da solo, allora sono davvero solo, senza amore. Non succede di incontrare Dio una volta per sempre. Ogni incontro è diverso dall’altro per ogni persona.
Oggi posso incontrare Dio, domani posso perderlo, perché posso fare una cosa sbagliata oppure avere un pensiero negativo. Posso incontrarlo dove non penso, in un altro “posto”, in una preghiera e in una buona azione imprevista, prendendomi cura di una persona incontrata lungo la strada senza passare oltre. L’amore è vedere tutto e rispondere.
- Come preghi per questo?
Non ho una mia sola preghiera. La mia preghiera è sempre quella del momento. Ogni cuore parla a modo suo, non solo con le parole dei santi padri, come nel libro delle preghiere. La preghiera sincera è una grazia speciale. Cantare (la Divina Liturgia) è poi pregare. Oggi è divenuta consuetudine (anche nella nostra Chiesa ortodossa) abbreviare gli Inni e i Salmi liturgici.
Ma questo è come nuotare in una pozza mentre si ha la possibilità di nuotare nel mare oceano, oppure come bere ad un rigagnolo mentre si ha la possibilità di abbeverarsi ad una abbondante fonte. C’è poi una serie di preghiere che cerco di recitare ogni giorno senza indugio, al mattino e alla sera. Prego i miei santi in modo che il giorno inizi e continui bene per accettare tutto secondo la volontà di Dio. Prego la Madre di Dio, Antonio di Pechersky e Antonio Magno.
Prego per la mia famiglia, per mia moglie e per i miei tre figli naturali: Alexander che ha dieci anni e i gemelli Elizabeth e Seraphim che hanno sei anni. Insieme preghiamo per tutti i bambini!
[1] Batyushka è l’appellativo con cui i fedeli possono affettuosamente rivolgersi ai padri ortodossi.
[2] Matushka ha insieme il significato di moglie e di madre di famiglia: i sacerdoti e i mariti russo-ortodossi usano così appellarsi con dolcezza alle proprie mogli.
Si può riscontrare talora una tendenza a discernere in base alla situazione contingente, a quello che si può realmente vivere in quella data condizione, in quel dato momento. In ciò vi sono aspetti positivi ma anche limiti. Gesù ha rivelato ai suoi discepoli le verità fondamentali ma ha altresì accennato ad approfondimenti successivi, quando i tempi sarebbero stati maturi, di quella manifestazione di Dio, dell’uomo, del mondo, pur già virtualmente piena. Certo anche di questo aspetto, del cammino nella storia, ne ha trattato a tempo opportuno. Le risposte dunque non si trovano a tavolino, resteremmo nel campo delle astrazioni, con tutto il corredo di fatica e di angosce che questa scarsa aderenza alla realtà può comportare o nella mera pratica quotidiana, potremmo finire anche qui per svuotarci, ma nella vita concreta vissuta nella Luce. L’esistenza reale comporta una storia, schiacciarsi sul presente è un errore uguale e contrario a quello di vivere nell’atemporalità delle astrazioni. Allora recuperiamo il dono della speranza nel futuro, la memoria viva del passato. E ci situiamo meglio nel presente. In Lc 5, 37-39 Gesù fa riflettere intorno al vino nuovo da mettere in otri nuovi. Al termine della pericope aggiunge che nessuno che beve il vecchio desidera il nuovo perché dice che il vecchio è buono. Le astrazioni e la fuga da esse nel pragmatismo schiacciano, come visto, su un presente in un modo o nell’altro senza storia. Così spesso quest’ultimo brano viene talora letto come un’espressione di comprensione da parte di Gesù per chi fatica ad aprirsi al nuovo. Ma qui Cristo afferma invece che Lui è il vino nuovo e il vino vecchio, solo quello è il vino genuino. Si può per esempio parlare, a proposito della scuola, di incontro ed è cosa bella. Ma bisogna che a tempo opportuno si parli anche di sviluppo delle identità, senza il quale l’incontro non diventa stimolo alla vissuta ricerca del vero ma spegnente omologazione. Come abbiamo visto sopra fare a Gesù, al tempo opportuno è bene gettare un seme per il futuro, senza meramente schiacciarsi su ciò che si può fare oggi. Altrimenti asfissiamo la vita. Si può parlare di solidarietà ma questa può divenire un trucco dei potenti per svuotare le persone e manipolarle a piacimento se non si rende attuabile che la solidarietà autentica nasca da una viva ricerca identitaria. Solidarietà cristiana, buddista e via discorrendo, non l’appiattimento di una solidarietà svuotata di cammini personali. Che poi il potere piega al proprio niente affatto neutrale politically correct.