Al momento del loro ritiro dalla docenza accademica ho sempre colto nei miei maestri un velo di malinconia. Per nessuno di loro si poneva il problema di come riempire la giornata in maniera feconda e significativa.
Essendo il lavoro di ricerca una passione, immaginavo che finalmente avrebbero potuto dedicare a essa quel tempo che l’insegnamento, l’accompagnamento degli studenti e la burocrazia universitaria aveva loro sottratto per tutta una carriera.
La malinconia del congedo
Eppure, la gioia per questo tempo ritrovato non mitigava il tono melanconico con cui prendevano congedo dalla quotidianità delle aule universitarie. Avendo saltato due semestri di insegnamento (uno per trasferimento e un altro per il lockdown) ho avuto un sentore di quel brivido di malinconia. Non è solo che il contatto quotidiano con i ragazzi ti costringe a un bagno di realtà, esige dal tuo pensiero un rigore di aderenza all’esperienza di generazioni che non sono le tue, ma ha anche l’effetto salutare di rendere più leggera la finitudine della tua stessa esistenza.
Inevitabilmente, col passare degli anni, l’orizzonte prospettico tende a chiudersi sempre di più, quasi a ripiegarsi su se stesso, così che il pensare a lungo termine diventa un vero e proprio esercizio di ascesi intellettuale. Entrare ogni giorno in un’aula dell’università, sottoporsi al contraddittorio che ti viene incontro dalla vita dei ragazzi, scardina questo meccanismo che tende a occultare la tua finitudine che si fa sempre più consapevole. È così che i tuoi studenti ti educano a una accettazione dell’essere-finito che sappia sporgersi oltre i propri confini esistenziali.
Semplicemente una benedizione, di cui essere loro grato per tutta una vita. E un po’ ti dispiace di non essere riuscito a dirglielo di persona, con quella chiarezza che dieci semplici mesi di questo strano anno 2020 hanno avuto la potenza di generare.
L’ombra della finitudine
Certo, non ininfluente su tutto questo è stata anche la pandemia, il tempo di confinamento tra le mura di casa (molto più pieno di lavoro che in precedenza), l’atmosfera soffusa di morte che è circolata, e continua a circolare, nel bailamme di parole e immagini che hanno saturato i nostri animi in questi mesi. Per la mia generazione è stata la prima occasione di una quotidiana frequentazione con l’ombra lunga della finitudine.
Passaggi come questi si incidono nell’animo umano, hanno il loro prezzo esigente, e rimangono un peso che, prima o poi, bisogna avere il coraggio di prendere in mano per guardarlo dritto negli occhi. Certo, il Vangelo è stato un buon compagno di via in questo periodo, come lo è fin dalla mia infanzia. Ma non funziona a comando, neanche per il teologo. Mi chiedo se questo peso della finitudine non possa rappresentare il punto di aggancio che la storia ci sta offrendo per dare una svolta al nostro cristianesimo occidentale e al nostro modo di essere Chiesa. Una cosa è sicura: sta riscrivendo l’ordine delle priorità per la comunità della prossimità a Gesù.
Non come consolazione a buon mercato e neppure come terapia dell’anima spaesata, ma come banco di prova di una Parola che non si è limitata a farsi prossima all’umana finitudine, ma l’ha fatta diventare la ragion stessa del proprio essere. Con tutte le contraddizioni, i paradossi, i vicoli ciechi, che comporta la condizione umana – fino al punto di impattare su di essa con una tale radicale coerenza da farla diventare la sua stessa ultima parola.
Sostare nella sospensione del tempo
È solo a questo punto che la vita ci legittima a uno sguardo verso la risurrezione del Signore, esattamente come fu per lui stesso. Spossessandosi di ogni parola propria per dire di essa, e affidandola piuttosto alla fede di coloro che decisero di non arrendersi davanti a quell’ultima contraddizione in cui il loro maestro veniva inghiottito. Con un misto di nostalgia, rabbia e perseveranza uno sparuto gruppetto di donne e di uomini sostarono nell’ombra pesante della finitudine umana che non aveva risparmiato neppure il loro intrigante compagno di via.
E se imparare a rimanere con gioia nella finitudine, proprio quando si fa gravosa e oscura, significasse affermare l’orizzonte di una trascendenza amica e benevola, impegnata a riscattarla fino all’ultima goccia per permetterci di apprezzarla e amarla? Oggi non è più questione di anime fini, di cuori sensibili, di menti aperte – ci sono moltitudini che attendono disponibili per essere introdotte all’esercizio riconciliato con la finitudine che siamo.
Certo, la potenza della macchina mondana che consuma i giorni può indurre una sottile opera di rimozione alla superficie dell’inesorabile senso di finitudine con cui siamo stati confrontati per mesi (e lo saremo ancora a lungo), ma credo che la sua traccia si sia incisa troppo profondamente nell’animo umano per essere erasa del tutto nel giro di breve.
Forse si potrebbe partire da qui per rimettere mano alla nostra pastorale ordinaria, sospendendo a nostra volta quei meccanismi immunitari che abbiamo coltivato da tempo per far finta di non sentire che il mondo e la gente ci stavano sfuggendo di mano. Abbiamo presidiato formalmente gli spazi e le età della vita senza però riuscire toccarli veramente con mano – e senza lasciarci toccare da essi.
Celebrare la finitudine che siamo
D’altro lato, disponiamo di una tradizione liturgica la cui benigna potenza risiede proprio nella ritualità ospitale che riconsegna la parola a chi non è più fisicamente qui con noi, che sa trasfigurare il baratro dell’assenza nel calore rituale di una ripresa affezionata di rapporti che sembravano essersi spezzati per sempre. Non c’è qui, forse, una sapienza a cui attingere per rimarginare l’immenso iato che ci separa da coloro che sono morti senza che noi potessimo prendere congedo da loro? Non semplicemente applicando retroattivamente la celebrazione delle esequie, ma attingendo alla sua sapienza liturgica per dare forma a una comunione di vita e sentimenti che la morte ha incrinato ma non spezzato per sempre.
Credo che questi due semplici spunti siano più che sufficienti per mettere mano a un anno pastorale che non si culli nell’illusione di poter essere la semplice ripetizione dell’identico – possibilità che in ogni caso verrà drammaticamente sconfessata dalla realtà delle cose nei prossimi mesi. Viviamo in un tempo sospeso, ed è a esso che dovrebbero dedicarsi le forze che ci rimangono nella pastorale ordinaria di ogni giorno.
Sono convinto che seguendone le tracce potremmo arrivare al termine dell’anno pastorale, che sta davanti a noi, riconoscendo anche gli eventuali approdi sacramentali che il sostare nella sospensione del tempo saprà generare nella sua prossimità evangelica. Ma per un anno possiamo pur concederci che questi non siano l’unica nostra preoccupazione.