La Chiesa cattolica di rito latino in Turchia è composta da tre circoscrizioni ecclesiastiche: l’Arcidiocesi di Smirne (Izmir) con oltre 1.300 fedeli, il Vicariato apostolico di Istanbul (Costantinopoli) con 15mila fedeli e il Vicariato apostolico dell’Anatolia con circa 1.500 persone. Quest’ultimo, dal novembre scorso, è retto dal gesuita fiorentino mons. Paolo Bizzeti. In esso vi operano: nove sacerdoti, due religiosi, tre religiose, una consacrata laica, una coppia di sposi fidei donum.
– Mons. Paolo Bizzeti, lei è conosciuto per la speciale passione nel guidare credenti e non sui passi di Pietro e Paolo nella terra dove è fiorita la Chiesa degli Atti degli Apostoli: potrebbe descriverci in breve cosa caratterizza il compito del Vicariato apostolico dell’Anatolia? Con quale mandato l’ha inviata papa Francesco?
Vorrei dire per cominciare che le statistiche ufficiali circa i cristiani in Turchia sono molto lacunose, per vari motivi. Anzitutto si basano per lo più sul numero dei battezzati registrati e su chi frequenta le messe. In secondo luogo, qui i cristiani praticano un ecumenismo di fatto avanzato: frequentano con facilità anche le chiese e le liturgie delle altre confessioni cristiane, perché per loro l’essenziale è essere cristiani, le specifiche e le differenze vengono dopo. Terzo fattore, ci sono molti cristiani divenuti musulmani per motivi di convenienza, ma che in casa o nel segreto continuano a professare la fede cristiana. Se fosse garantita una vera libertà religiosa, cioè se fosse consentito, ad esempio, costruire chiese, aprire stazioni radio e case editrici, circolare liberamente (sacerdoti e religiosi stranieri devono ottenere un permesso di soggiorno e il visto annuale è il medesimo di quello rilasciato ai lavoratori) e non ci fosse una discriminazione di fatto, sarebbe interessante vedere quanti cristiani uscirebbero allo scoperto. La situazione della Chiesa quindi è molto stimolante, perché è quella di una minoranza insignificante che deve ogni giorno giustificare – prima di tutto a se stessa – il senso della sua presenza. Il mio compito, come quello di ogni vescovo, consiste nell’essere punto di riferimento del gregge e particolarmente degli operatori pastorali. Sei anni senza vescovo hanno determinato una Chiesa impoverita nello slancio pastorale e nel coordinamento. Inoltre rappresento la Chiesa cattolica e quindi il papa: tocca a me aiutare la Chiesa locale a mettersi in piena sintonia con la Chiesa madre di Roma. Anche dal punto di vista ecumenico, poi, ci sono momenti significativi da vivere con gli altri pastori delle Chiese sorelle.
– Come è stato accolto dalle autorità politiche e religiose? E dai semplici credenti?
Francamente non avrei potuto desiderare di meglio! Devo dire che le autorità locali sono molto gentili e anche preoccupate della incolumità del vescovo, per cui abbiamo un servizio di vigilanza inviato dal Comune. Adesso intendo affrontare alcune questioni di fondo circa le proprietà ecclesiali e verificherò la reale disponibilità a riconoscere i nostri diritti. Bisogna anche dire che qui nel Sud da sempre c’è tolleranza e convivenza tra credenze diverse; un po’ diverso è sulla costa del Mar Nero, dove, non a caso, fu ucciso don Santoro. Le comunità cristiane mi hanno accolto in modo assai caloroso e comprensivo: davvero mi sono sentito amato. Mi dispiace non potermi ancora esprimere nella loro lingua, ma il linguaggio dei gesti, delle attenzioni, dei segni è stato molto affettuoso da ambo le parti. Qui si ha ancora il senso e il valore della trasmissione apostolica. Sono Chiese che hanno un forte senso della tradizione: sentono il legame che attraversa i secoli e congiunge direttamente alla Chiesa apostolica e a Gesù. Bisogna comprendere che qui il cristianesimo vive ininterrottamente da venti secoli, anche attraversando persecuzioni e difficoltà, così come splendori e successi inimmaginabili. Tutto questo dà una grande forza interiore. È per questo che sarebbe un errore imperdonabile perdere i contatti con queste comunità, sebbene così modeste dal punto di vista numerico.
– Quale importanza ha questa terra per l’Occidente impegnato in una nuova evangelizzazione? Quali doni dello Spirito possono venire dallo scambio tra le Chiese di antica data e le nuove?
Per i motivi già detti, la Chiesa di Anatolia vive in una situazione che pone domande radicali, che del resto stanno ormai ponendosi in molte parti del mondo cattolico: finito il tempo in cui il cristianesimo era maggioranza diffusa e culturalmente importante, almeno in Occidente, come ritornare alle sfide che le prime generazioni vinsero, ovvero alla “prima evangelizzazione”, all’annuncio kerygmatico a persone di altre religioni? Inoltre, il confronto con l’islam, nelle sue molteplici forme, è ormai necessario dovunque: in Europa si fanno i convegni e i dibattiti, spesso piuttosto astratti e con musulmani a volte poco rappresentativi della base, mentre qui c’è il dialogo interreligioso reale, sur le terrain – come direbbero i francesi. Meno idilliaco ma molto utile: da quando sono qui sono costretto ad andare più a fondo nella mia fede. Credo farebbe bene a molti fedeli, religiosi e non, che spesso vivono di “rendita”, accontentandosi di slogan. L’islam è l’altro con cui necessariamente confrontarsi: che posto occupa nella nostra concezione della storia della salvezza? Quali sono i veri punti di divergenza nella concezione della fede e nell’esercizio quotidiano del vivere? Credere in Dio, essere attenti ai poveri, pregare, frequentare un luogo di culto, essere convinti di essere nella fede più autentica … sono tutte cose che non bastano per comprendere la vita cristiana e nemmeno quella di un buon musulmano. Qui ci sono musulmani che pregano la Madonna più di noi e rispettano Gesù Cristo più di tanti “cristiani anagrafici” in Italia. Eppure c’è un abisso tra noi e loro: ma quale è reale, quale è culturale, quale è convenzionale? Qui nel Vicariato, per quanto comprendo, a nessun cristiano salta in mente di lasciare la sua fede a favore dell’islam: potrà tacere la sua fede per motivi di necessità, ma non si sognerà mai di pensare che, siccome sono fedi monoteiste e riconoscono Abramo come patriarca, appartengono alla stessa categoria.
– Lei è autore di studi biblici e di approfondimenti sulla presenza cristiana in Turchia: come pensa di ampliare questa spiritualità e questa coscienza nel mondo cristiano occidentale?
Per me è una certezza che la Parola non può essere separata da una terra specifica e da un popolo preciso. I territori della Turchia hanno un posto di rilievo già nell’Antico Testamento, tanto più nel Nuovo: gli Atti degli Apostoli si svolgono per lo più nel territorio dell’attuale Turchia, così come sono qui le città dell’Apocalisse. Qui si sono svolti i primi sette fondamentali concili ecumenici che hanno determinato il nostro Credo. In Cappadocia si è sviluppato quel monachesimo dal quale ha attinto s. Benedetto e che è dilagato poi in Occidente. E così via. Soltanto recuperando una reale conoscenza di questi luoghi, del loro contesto, possiamo maturare un cristianesimo che sia davvero cattolico, altrimenti sarà romano, russo, armeno ecc. Certo, la Turchia è un paese al 99% musulmano e quanto ho affermato sembra solo una storia finita: eppure, è solo riflettendo sulla complessa storia del cristianesimo in questa regione che possiamo evitare i suoi errori e prevedere le nostre sfide future. Il cristianesimo si è troppo occidentalizzato, così come un tempo divenne troppo bizantino. Bisogna ripartire da Antiochia, e non fermarsi solo a Gerusalemme.
– La Turchia moderna è una zona strategica per le relazioni politico-sociali tra Europa e Medioriente: annunciare in questo contesto significa rischiare di impantanare il Vangelo nella diplomazia?
Per i veri cristiani di ogni epoca ci sono due tentazioni fondamentali: chiudersi nella propria cittadella o fare alleanze con il Cesare di turno; chiudersi nello “spirituale” o appoggiare una parte politica perdendo la propria vocazione profetica. Io credo che i cristiani possono svolgere un ruolo importante anche a livello internazionale in un luogo strategico come questo, da sempre spazio di intrecci culturali, religiosi, politici. La sfida è la formazione di un laicato che non sia solo fedele fino al martirio, ma anche preparato culturalmente, abituato a leggere la Bibbia accanto ai quotidiani, per così dire. Mi sembra insomma che si debba mettere in pratica il Concilio Vaticano II che mi sembra arrivato più nelle cose esterne che nell’assetto e nelle priorità ecclesiali. Anche i sacerdoti, essendo tutti stranieri, devono avere come priorità l’edificazione di una Chiesa locale, diocesana, turca, più che curare l’interesse del proprio ordine religioso. Vescovi provenienti da ordini religiosi e che hanno come collaboratori solo presbiteri religiosi non mi sembra sia nello spirito del Concilio e risponda alle urgenze del tempo odierno.
– Come può la Chiesa parlare a favore dei diritti umani, della situazione dei profughi, delle minoranze religiose… senza apparire schierata? Si sa, per esempio, che nel suo territorio, a Iskenderun, esistono campi profughi siriani.
La Chiesa ha il dovere di ricordare a se stessa prima, e poi a tutti, che ogni uomo, donna, bambino, anziano in stato di necessità è un dono per chi lo riceve. Una società incapace di compassione, di accoglienza del debole, di valorizzazione dello straniero non ha futuro. Sono discorsi scomodi, anche in Italia, ma la storia insegna indiscutibilmente che solo il meticciato e la gestione sapiente della complessità generano la pace e il benessere.
– Quali sono i suoi rapporti con i leaders islamici e in generale come pensa di gettare ponti di dialogo e di fraternità in un momento di radicalizzazione di una parte dell’islam stesso?
La radicalizzazione di una parte dell’islam, sostenuta per scopi di potere e appoggiata dai grandi mercanti di armi e da governi di tipo imperialista, è un problema serio che riguarda tutti. Non si vince con i proclami populisti di certi partiti o innalzando muri. Proprio il Medio Oriente insegna che per secoli si è potuto vivere in pace, pur ciascuno nel proprio ambito, sotto un’autorità centrale a cui premeva la convivenza dei popoli, anche per motivi economici ed egemonici. Oggi ci sono leaders islamici che accettano il pluralismo e altri che sognano ancora una qualche forma di califfato, magari camuffato. Il dialogo e il rispetto reale (non quello scritto su qualche “costituzione” che pochi applicano) è l’unica strada possibile. Ma il dialogo e la non violenza, il rispetto e il pluralismo, hanno un prezzo alto da pagare: i cristiani, seguendo le orme del loro Maestro e Signore, devono essere pronti a morire per non rinnegare la libertà e la verità. Io credo che per questo le religiose e i religiosi devono essere in prima linea in questo paese, per essere davvero testimoni di colui che ha vinto la morte grazie ad un amore libero e rivolto a tutti. Penso inoltre sia urgente una presenza monastica, perché anche questa terra necessita di persone che testimonino il primato di Dio in una vita semplice e laboriosa. In Medio Oriente monaci e monache sono rispettate perché la gente del popolo ha il senso di Dio, più che in Italia, per certi aspetti. Io non credo si debba fare proselitismo: si deve invece testimoniare il modo nuovo di vivere che ha portato il Vangelo e che suscita sempre interrogativi presso chi è disponibile. Allora potremo rispondere a chi ci chiede ragione della nostra speranza, come dice l’apostolo Pietro. I ponti si costruiscono anzitutto all’interno della comunità cristiana, ancor prima che con i leaders islamici. Le Chiese cristiane qui si sono divise, combattute o ignorate per secoli: questa è la prima causa del tracollo del cristianesimo. Pertanto, si deve ricominciare dalle nostre comunità, se vogliamo sperare che siano lievito, sale, luce del mondo, come ci insegna il Vangelo.
– Quali sono i gesti di incoraggiamento che possiamo esprimere oggi verso le sue comunità?
Intuisco questo: i cristiani del Medio Oriente hanno bisogno di essere visitati, valorizzati e che la loro vita sia condivisa dalle Chiese occidentali. Non bastano gli aiuti materiali, pur necessari. La cosa più dolorosa per i rifugiati cristiani dell’Iraq e della Siria è sentirsi dimenticati da tutti; è constatare che i fratelli e le sorelle d’Occidente stanno alla finestra a guardare quello che succede nei loro paesi. Si fanno tante dichiarazioni di principio in Europa, ma non ci si mobilita per la pace, non si smette di vendere armi, si continua a sostenere regimi iniqui, si fanno affari con chi finanzia il terrorismo, si chiudono le porte a chi scappa dal terrore. Io posso fare pochissimo, per mille ragioni – l’età, l’ignoranza del turco ecc. – ma ho deciso di venire e stare. Credo sia questo che nella storia del cristianesimo è stato fecondo: andare e stare. I grandi padri del monachesimo orientale, i grandi santi delle Chiese semitiche, andavano e stavano: un anno, due, cinque. Chi in Egitto, chi in Palestina, chi in Siria, chi in Cappadocia. Poi tornavano arricchiti e portavano ventate di novità nelle loro comunità. Oggi, con la facilità di muoversi e tenendo conto che la Turchia è un paese in forte sviluppo – pur con grandi differenze regionali – dove si trova tutto, perché non venire e stare per un periodo? Perché i cristiani di qui devono venire in Italia o in Europa per formazione, studio, fare esperienza e non deve avvenire anche il viceversa? Invece di stare tanto tempo in noviziati o juniorati asfittici o frequentare corsi di formazione o di aggiornamento che spesso lasciano il tempo che trovano, perché non venire qualche mese in una di queste Chiese, visitare i luoghi, conoscere la vita delle comunità, aiutare nel quotidiano queste realtà ecclesiali? Credo che molti farebbero più progressi spirituali e culturali misurandosi sul campo in contesti dinamici come questi, una volta terminata la formazione di base, piuttosto che restare chiusi nel loro mondo latino, in cui spesso ci si ferma ai particolari e alla forma, perdendo però di vista l’essenziale.