Il famoso detto si può ben applicare alla nuova edizione del messale per la liturgia del rito latino in lingua italiana, presentata non senza una certa enfasi solo su qualche media.
A parte l’operazione economica che costringerà parrocchie e comunità all’acquisto, visto che non si può utilizzare l’edizione digitale, a meno che non si decida di regalarne copia a tutte le assemblee celebranti, mi preme sottolineare due equivoci messi in campo per supportarne la vendita.
Il primo riguarda la metafora dello “spartito”, che non sarebbe da ignorare o escludere. Infatti si tratta proprio di uno spartito che rende plausibile l’interpretazione affidata a chi presiede, il quale svolge solo il ruolo ministeriale di un direttore d’orchestra, chiamato ad avere un occhio sulla Parola di Dio l’altro sulla comunità. E ciò non solo nella predicazione, per la quale sarà sempre bene avere in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale onde non esibire stucchevoli racconti di esperienze autoreferenziali, ma in tutta la celebrazione.
In secondo luogo c’è chi ritiene che si tratti di un’“attualizzazione” del linguaggio liturgico, rispetto soprattutto alle celebrazioni per le diverse occasioni o necessità del popolo di Dio. Non so fra quanto tempo avremo un altro nuovo messale, ma in un contesto in cui la realtà soggiace a cambiamenti anche epocali rapidissimi, avremmo bisogno di maggior sobrietà prima di esporci al ridicolo. Chissà chi, tranne qualche funzionario condiscendente, sarebbe del parere che dire “rugiada dello Spirito” piuttosto che “effusone” è attualizzante o non piuttosto un malinconico ricordo di epoche in cui la natura era ancora incorrotta.
Volendo riproporre la filosofia del culto di Pavel Florenskij possiamo concludere dicendo che la frattura fra culto e cultura rimane e si acuisce sempre più grazie a queste operazioni da tavolino ecclesiastico. E poiché non è il culto operazione culturale o accademica – come insegna il Leonardo russo -, ma lavoro dello Spirito e, in quanto tale, fonte generante di cultura, dobbiamo arrenderci e usare anche questo prodotto senza enfatizzarne il senso.
Il fastidio verso il termine ‘rugiada’ sembra, se ben intendo il pensiero dell’autore, dovuto al fatto che esso richiama un epoca, lontana pochi decenni, in cui l’uomo comune aveva ancora un contatto con la natura, e che quindi non sarebbe più adatta all’uomo di oggi, lontano dal contatto con il mondo naturale
Però per lo stesso motivo potremmo cestinare
molti detti e parabole di Gesù che richiamano la vita agricola e pastorale, come il buon seminatore, il detto dei gigli del campo etc
Non è che a forza di tenere in mano sia Bibbia che giornale ha dimenticato la prima e predica solo sul secondo?
Poi, visto che è l’epica di Laudato sii, non si potrebbero portare i bimbi del Catechismo a vedere i campi e spiegargli queste parabole?
Ma possiamo accettare, da laici, che un teologo rivolga simili commenti con questo tono nei confronti del lavoro di suoi colleghi (che avranno lavorato al meglio delle loro possibilità e limiti)? Da parte mia no.
Caro don Pino Lorizio una maggiore sobrietà e … carità, per favore.
Lorizio è stato fin troppo delicato. Capisco che non si possano fare celebrazioni eucaristiche fai da te ma invece di essere inclusive della sensibilità e del linguaggio dei fedeli sono sature di espressioni linguistiche (per non parlare di quelle musicali) anacronistiche e incomprensibili ai più. Gesù parlava col linguaggio semplice del popolo. È così difficile seguire il suo esempio?
Però in tutte le liturgie (sia cristiane che non) esiste un “linguaggio sacrale” che vuole distinguere il mondo del sacro da quello profano, per far capire che tra le due cose nvi sono delle differenze. Poi la desacralizzazione del linguaggio liturgico può essere uno stimolo per far diminuire ancora di più la catechesi mistagogica verso i fedeli, praticamente crollata qualitativamente e quantitativamente negli ultimi decenni, con la scusa che “ora il linguaggio è semplice, i fedeli capiscono tutto”. Voler poi “semplificare” espressioni liturgiche rischia di appiattire il significato originario dei termini o renderli unidirezionali: un esempio può essere “rendere grazie”, che appiattito spesso in “ringraziare” fa perdere il complesso significato del termine originario ebraico. Poi parole strane o non comuni possono essere usate per attirare l’attenzione dei fedeli per efficaci catechesi. Poi si può discutere se andare dietro alla supposta sensibilità dei fedeli sia un bene, visto il crollo del vocabolario personale della maggior parte delle persone: a seguire la tendenza si rischia di avere una liturgia troppo impoverita. La Chiesa deve invece rieducare i fedeli alla liturgia e spezzare la passività, l’ignoranza e la convinzione che il culto cristiano sia “roba da preti”.
Certo, infatti Gesù è venuto per gli acculturati e che gli ignoranti si arrangino. E poi non vogliamo ricordare la solennità del Golgota! Ah, che liturgia!
Che Dio abbia pietà di noi.
io non ho mai detto questo, infatti il mio commento in gran parte insisteva sulla necessità di catechesi per colmare l’ignoranza diffusa nel Popolo di Dio
opera di misericordia spirituale, come ci ha anche ricordato Papa Francesco nella Misericordiae vultus, è ‘insegnare agli ignoranti’, non abbassare la difficoltà delle cose per far finta che l’ignoranza non ci sia, perchè sarebbe ingiusto verso le persone che non sanno, che non avrebbero opportunità di elevarsi e acculturarsi
ma abbassare tutto conviene molto alla pigrizia di tanti, che non hanno mai fatto una minima catechesi sulla liturgia e alimentato così la passività e l’indifferenza del popolo verso la liturgia, ma farlo gli ripulisce (falsamente) la coscienza
i Padri della Chiesa (Agostino, Ambrogio, Crisostomo, Cirillo etc) ci hanno lasciato molti scritti tratti dalle omelie in cui istruivano il loro Popolo sui sacramenti e la liturgia. imitiamoli, invece di fare finta che il rito parli sempre da sè. loro facevano mistagogia, ovvero conducevano nel mistero, nel significato profondo del segno visibile