Il card. Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga ed ex presidente della Conferenza episcopale tedesca, ha scritto l’8 settembre scorso, sul sito katholisch.de, questo contributo, chiedendosi: come Chiesa, in mezzo alla crisi del coronavirus, dove siamo? dove andiamo? La crisi della pandemia dovrebbe rafforzare la solidarietà e l’orientamento verso il bene comune. In realtà, anche se si sente ripetere che dopo questa crisi niente sarà come prima, egli dubita che ciò avvenga, almeno guardando alle tendenze in atto e a un capitalismo, basato sul profitto, che già ha rialzato la testa. Traduzione italiana di p. Antonio Dall’Osto.
Le crisi generano anche nuovi concetti e nuove idee. All’inizio dell’anno, chi avrebbe mai potuto immaginare cosa sarebbe successo nel mondo in questi mesi? Chi aveva conosciuto prima il termine lockdown, che da allora è sulla bocca di tutti? Abbiamo visto in modo drammatico che la nostra vita, le nostre condizioni esistenziali, la nostra storia in definitiva non possono essere programmate e pronosticate in maniera affidabile. In realtà può esserci qualcosa come un arresto, un lockdown che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare.
Forse l’abbiamo detto talvolta paradossalmente: niente è così incerto come il futuro! Ma l’abbiamo mai sperimentato – almeno in un contesto sociale – così esistenzialmente come quest’anno? Non credo.
Nella nostra vita personale è un po’ diverso. Arrivano eventi, colpi della sorte, sfide che ci provocano sempre di nuovo. Ma ora si tratta di un’esperienza che scuote e agita una collettività, una cultura, anzi l’intera famiglia mondiale.
E per questa ragione ci sono conseguenze in molti ambiti. Non si tratta solo del futuro dell’economia, ma della nostra visione dell’unica famiglia umana, della nostra comune speranza, di un nuovo modo culturale di rapportarci. Sono d’accordo con coloro che già ora ritengono – siamo ancora nel bel mezzo della crisi – che un semplice ritorno alla situazione di prima non sarà più possibile e che questa pandemia, che tocca tutti gli ambiti della vita, accelererà e intensificherà tendenze già prima avvertibili.
La critica ripetutamente espressa negli ultimi anni secondo cui una globalizzazione puramente economica, che in definitiva costringe i paesi e le economie ad adeguarsi ad un capitalismo accelerato, è del tutto giustificata. Un percorso del genere non era e non è sostenibile.
Un’economia sociale di mercato globale, d’altra parte, era considerata come un progetto, ma la realtà appariva e appare del tutto diversa. Il necessario orientamento verso un multilateralismo, verso un ordine mondiale comune, verso la cooperazione, si è piuttosto tradotto in unilateralismo, in interessi privati e in una competizione tra grandi potenze a vari livelli. Il coronavirus ha cambiato qualcosa a questo riguardo?
Il capitalismo tende nuovamente ad accelerare
Non mi sembra. Anzi. Il capitalismo tende nuovamente ad accelerare. Infatti, gli aiuti degli Stati sono chiaramente orientati a garantire che tutto riprenda il più rapidamente possibile senza che dietro ci sia un’idea di progettazione o di definizione di nuove priorità concretamente visibili. Non basta parlare di digitalilizzazione. Questo è solo un modo, non un obiettivo.
Resta il fatto che l’unico movente dell’economia sono gli interessi del capitale e ciò sul piano mondiale. Persino il risparmiatore con un piccolo reddito dipende dai fondi orientati ai profitti del capitale e ciò sul piano mondiale. Come possono le persone a basso reddito mettere da parte dei beni per sé e per le loro famiglie, come ha sempre sostenuto la dottrina sociale cattolica?
Non c’è alcuna discussione che riguardi il tema che da anni io ho a cuore: cosa possiamo immaginare oltre il capitalismo? O, per dirla con papa Francesco: come possiamo lavorare per un’economia che serva realmente le persone e non sia orientata solo agli interessi materiali?
Anzitutto, ci si può rallegrare che ci sia anche un ritorno dell’“economia politica”, cioè un modo nuovo di considerare il rapporto tra politica ed economia. Ora si vede nuovamente quanto decisivi siano lo Stato, la collettività, quanto importante la discussione sullo Stato e il mercato, sul bene comune, sui beni pubblici e gli interessi privati e sul loro giusto rapporto. Se tutta l’esperienza insegna che il mercato non risolve da sé i problemi sociali, politici ed ecologici, ma tende anzi ad accentuarli, allora non ci può essere alternativa ad una politica che fornisca un quadro e organizzi obiettivi comuni e li porti a compimento anche a livello globale.
Tutto questo è noto da molto tempo. Ma c’è davvero la volontà in questa crisi di porre nuovi accenti? Sembra che l’Unione Europea si ricompatti con maggiore decisione e voglia anche porsi come protagonista globale e politico che lavora in questa direzione. Ma ci si dimenticherà di questo tra un anno e noi ci muoveremo decisamente verso una ri-nazionalizzazione e una competizione di interessi particolari? Temo di sì.
La discussione (anche in economia) procede da anni sulla crescente disuguaglianza. Anche se la produzione di beni e di servizi è aumentata in tutto il mondo e con essa, statisticamente parlando, la ricchezza, anche se in alcune aree è stata superata la povertà acuta, tuttavia è aumentata notevolmente la disuguaglianza tra i popoli e al loro interno.
Gli economisti la chiamavano già prima, basandosi su un malinteso delle parole del Nuovo Testamento, l’“Effetto Matteo”: “a chi ha sarà dato”. C’è da aspettarsi che, sia all’interno dei paesi sia tra le economie nazionali, coloro che hanno molto, sia in conoscenze sia in capitale, usciranno da questa crisi più forti, forse anche come vincitori. E quelli che hanno poco, che già ora vivono in condizioni precarie e sono vicini ad un possibile avanzamento, saranno respinti. Possiamo già adesso vedere gli effetti catastrofici della pandemia in molti paesi più poveri. Qui da noi se ne parla troppo poco.
La crisi del coronavirus dovrebbe rinvigorire le forze di solidarietà
Si potrebbe pertanto dire: la cura della casa che è il creato, come così bene ha scritto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’, è diventata pertanto maggiore. Ma la probabilità che le forze si uniscano per rendere più abitabile e sostenibile per tutti questa unica casa è piuttosto debole. La crisi del coronavirus dovrebbe consolidare le forze della solidarietà, dell’orientamento verso un “bene comune del mondo”. In questo senso la crisi costituirebbe anche un’opportunità.
Ma abbiamo visto da anni che in molti paesi, tanto negli USA quanto in Europa, le polarizzazioni, il nazionalismo, il fondamentalismo politico e religioso (in tutte le religioni) sono in crescita, in parte collegati a rozze teorie del complotto e a vistose accuse. Un cammino per una rinnovata solidarietà mondiale ha un volto diverso. La crescente disuguaglianza si aggraverà ancora di più con simili derive.
Si pone qui la domanda: dov’è la Chiesa? Qual è la sua risposta? Dove sta il suo impegno?
Nei suoi discorsi durante il tempo del coronavirus, in particolare nelle ultime settimane, papa Francesco ha chiaramente sottolineato la sua posizione e pertanto anche quella della Chiesa cattolica: si tratta di vedere la propria finitezza, il limite della creazione e dell’uomo, l’incompletezza, la sofferenza e l’inevitabilità della morte.
Ma, proprio per questo, abbiamo bisogno di coraggio e di determinazione nel riconoscere il compito di plasmare insieme nell’unica famiglia un’economia e una società che si prendano cura di tutti, in particolare dei deboli e dei malati, dei poveri e degli emarginati, qui e sul piano mondiale. Una politica e un’economia che, nel cosiddetto “gioco delle forze”, favoriscano in definitiva solo coloro che stanno al sicuro, chi ora ne detengono il possesso, non possono essere accettate e non sono nemmeno sostenibili. In questo modo si preparano già adesso disordini e tensioni e meno ancora viene raggiunto l’obiettivo di proteggere la casa comune che è il creato. C’è bisogno, in definitiva, di una società aperta al dibattito, basata sul concetto di una libertà responsabile.
Naturalmente la Chiesa anche in questa crisi deve soprattutto parlare di Dio. Di un Dio che non fa parte di questa creazione, che ha creato il mondo, ma che tuttavia non ci lascia soli. Per noi cristiani è ora ancor più chiaro che in tutte le catastrofi personali e sociali, l’immagine del Dio crocifisso, ossia di Dio che ci guarda nella figura di Gesù di Nazareth, è un grande segno di speranza.
Ed è, nello stesso tempo, il riconoscimento di un Dio che è Padre di tutti gli uomini, non solo delle cristiane e dei cristiani. Pertanto ogni fondamentalismo è incompatibile con la fede nel Dio e Padre di Gesù Cristo. La Chiesa può stare solo dalla parte di coloro che si impegnano per la casa comune che è il creato, per tutti gli uomini, e dalla parte della libertà responsabile, quale espressione dell’uomo immagine di Dio e quindi della sua dignità.
Strumentalizzazione della fede e della religione
Ma è mia impressione che proprio in questa crisi, anche nel campo della religione si rafforzino i fondamentalismi. Queste tendenze esistevano già prima, praticamente in tutte le religioni.
La fede e le religioni vengono strumentalizzate per scopi politici, per le ideologie, per le delimitazioni e per l’odio. Le crisi non sono solo punti di partenza di una nuova comprensione, ma spesso anche luoghi di paura e di demarcazione.
Questa è l’ora del messaggio cristiano: c’è un Dio creatore del mondo, non siamo soli, abbiamo una speranza e in Gesù c’è questo assoluto mistero che noi chiamiamo “Dio”, diventato fratello di tutti gli esseri umani. Ciò dovrebbe imprimere slancio, offrire consolazione ed essere fonte di forza per il nostro impegno.
Allora, dove siamo? Ancora in mezzo a una crisi che ha ripercussioni in tutti gli ambiti della nostra vita.
E dove andiamo? Speriamo verso un mondo che ha imparato la solidarietà e ad avere uno sguardo sulla famiglia umana, sull’unica casa che è il creato e che sia attento ai poveri. Ciò è necessario, anche se sappiamo che non possiamo raggiungere un mondo perfetto, perché siamo solo creature umane, non siamo Dio.
In ogni preghiera, in ogni eucaristia e nel servizio al prossimo, come Chiesa assicuriamo questa speranza pubblicamente e, speriamo, assieme a molte altre persone. Questo è un segno, un segno necessario e quindi, forse, anche di importanza sistemica.
Il burocratismo vuole conservare il potere; non aprirsi dunque a un dialogo sincero ma restare al più in un dialogo di immagine, che non disturbi; cambiare poco o nulla; non rischiare la propria fama e gloria terrena; non vuole rogne, tende a santificare la quiete sia come sia. Dunque se si propongono cambiamenti nella pastorale, la tendenza del burocratismo sarà per esempio quella di un invito a non venire meno alla dottrina. Se si riflette allora sui problemi spirituali-culturali che occludono lo sviluppo della dottrina la tendenza potrà essere per esempio quella di un invito a dedicarsi al fare, alla pastorale. O di non rovinare la pace. Insomma inviti alla dottrina, all’impegno, al dialogo, alla comunione, etc., che già in se stessi chiudono a una reale presa in considerazione, a un ascolto reale. Chiudono. La parola giusta al momento sbagliato è un’operazione tipica del burocratismo.
Si potrebbe tentare un accenno di dizionario del burocratismo:
Essere operoso = non pensare;
Cultura = non cambiare, paludamenti;
Dialogare = non disturbare;
etc..