Nel libro degli Atti degli Apostoli, al cap. 2, viene riferito il discorso che Pietro rivolse alle folle il giorno della Pentecoste e si legge che esse “si sentirono trafiggere il cuore” nell’ascoltare la sua parola. Chiesero allora a Pietro: “che cosa dobbiamo fare”. Ed egli rispose: “convertitevi… e riceverete il dono dello Spirito Santo”.
Da mesi il mondo intero vive nella crisi del coronavirus che ha già provocato tante morti e tante gravi sofferenze: persone che hanno perso i loro cari, operai rimasti senza lavoro, un gran numero di famiglie che non ha più il necessario per vivere. Per non parlare degli effetti sconvolgenti prodotti nei fragili bilanci di tante economie, soprattutto nei paesi più deboli. Si tratta di una crisi che avrà gravi conseguenze e durerà a lungo e alcuni esperti affermano che il coronavirus ci accompagnerà almeno per altri due anni prima di scomparire.
Di fronte a queste situazioni ci sentiamo davvero trafiggere il cuore?
Cosa dobbiamo fare?
Ci siamo sentiti ripetere che, dopo questa crisi, niente sarà più come prima e che per poter andare avanti sarà necessaria una profonda conversione da parte di tutti perché, come ha ripetuto papa Francesco, “siamo tutti nella stessa barca”.
Il tempo che ci sta davanti è quindi un tempo che richiede un profondo cambiamento per ritornare a uno stile di vita più sobrio, liberandoci da tutto il superfluo, dalle cose inutili, e salvaguardare il creato, uscendo da una cultura del consumismo che ha contagiato anche noi religiosi.
Come trasformare questo tempo in un tempo di grazia? La risposta noi dehoniani l’attingiamo dalla nostra spiritualità, dalla contemplazione del Cuore trafitto di Gesù. Dobbiamo anzitutto partire da un rinnovamento profondo della nostra comunione fraterna; in secondo luogo, aprire il nostro cuore alle sofferenze del mondo, in un atteggiamento di solidarietà e di partecipazione.
Il rinnovamento della nostra vita fraterna
Il Lockdown, imposto dal coronavirus, ci ha “costretti a rinunciare a tante attività esterne e a rimanere di più in comunità, e quindi in spazi più ridotti, a stretto contatto gli uni con gli altri. In queste condizioni non è facile, per così dire, mettere in pratica l’esortazione di Paolo: “Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi (Col 3,12-13).
Tuttavia, le limitazioni richieste dal coronavirus hanno favorito in positivo una maggiore attenzione reciproca – cosa che spesso manca – e consentito di esercitaci nel rispetto e nella collaborazione vicendevole. Soprattutto, ci hanno aiutato a riscoprire il senso autentico del nostro essere insieme – per noi come dehoniani – così come è scritto nella nostra regola di vita, cioè vivere “a servizio della missione comune, assidui alla comunione fraterna, in comunità di vita e fedeli alla preghiera e alla frazione del pane”.
L’altro aspetto positivo è stato di sentirci veramente trafiggere il cuore di fronte alle sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle in ogni parte del mondo. Questo sentimento tocca in profondità la nostra spiritualità dehoniana. Il coronavirus non è infatti un “castigo di Dio” dell’umanità, come alcuni hanno pensato e detto. Dio infatti ha compassione di chi soffre e soffre con che soffre e usa tenerezza verso tutti. Come dice la Scrittura: “Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie” (Mt 8 17).
Solidali con chi soffre
La nostra spiritualità scaturisce dalla contemplazione del suo cuore trafitto, e ci invita a guardare al mondo attraverso questo stesso suo cuore, compassionevole e misericordioso. Ci insegna a donarci come Lui si è donato, fino alla consegna della nostra stessa vita per amore dei fratelli. Lo ripetiamo tutte le mattine nei nostri atti di oblazione. Cito alcuni esempi ricavati dagli schemi di preghiera della nostra Provincia italiana del Nord, dove diciamo: “Ti offriamo la nostra vita perché nel tuo Figlio diventi sacrificio che lava il peccato del mondo”; “Rendici sensibili al dolore degli uomini e disponibili alle loro necessità. La contemplazione del Costato trafitto diventi in noi sorgente di solidarietà”, oppure: “Accetta la nostra vita che desideriamo offrirti fino al sacrificio totale di noi stessi”.
In questa contemplazione e in questo atteggiamento oblativo, facciamo nostro ciò che scrive la Gaudium et Spes al n. 1: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”.
Queste “gioie e speranze, tristezze e angosce” dobbiamo portarle ogni giorno davanti al Signore soprattutto nella nostra adorazione eucaristica quotidiana. E, come ha detto papa Francesco all’Angelus dell’8 agosto scorso: “Andiamo da Gesù, bussiamo al suo cuore e diciamogli: “Signore, se Tu voi, puoi guarirmi!”. E potremo fare questo se avremo sempre davanti a noi il volto di Gesù, se capiamo come è il cuore di Cristo: un cuore che ha compassione, che porta su di sé i nostri dolori, che porta su di sé i nostri peccati, i nostri sbagli, i nostri fallimenti”.
Questa capacità di donazione di noi stessi, la crisi del coronavirus ce l’ha mostrata nei tanti esempi che abbiamo visto e ancora abbiamo sotto i nostri occhi di centinaia di medici, infermieri/e membri del personale sanitario che hanno sacrificare letteralmente la loro vita fino a morire per curare i malati. Sono, direbbe papa Francesco, “i santi della porta accanto”. La santità non si legge solo nei libri, ma nella storia di eroismo di tutti i giorni. Quante persone, pur non essendo religiosi ce ne hanno dato un mirabile esempio.
Ma vorrei terminare riportando un commovente episodio – uno fra i tanti – raccontato da un’infermiera di un piccolo ospedale dell’entroterra della provincia di Bologna.
“Nelle prime settimane di pandemia ci viene mandato in reparto un paziente ultraottantenne con febbre alta e difficoltà respiratorie. Nonostante l’affanno, l’anziano è vigile, silenzioso, consapevole di ciò che sta accadendo. Il medico si stava adoperando per attaccarlo al respiratore, quando squilla il telefono: sta arrivando un altro paziente sui 40 anni in gravi condizioni respiratorie. Faccio appena in tempo a riferirlo al medico con un’angustia che non potevo nemmeno parlare, perché sapevo che l’unico ventilatore disponibile era quello che si stava apprestando per l’anziano signore. Io grido: “Ma dottore non abbiamo più ventilatori”. Intanto il nuovo malato è già arrivato, con gli occhi sbarrati dalla paura, dalla febbre, dal pensiero di trovarsi lì solo, lontano dalla famiglia.
L’anziano, silenzioso assiste a tutta la scena, poi con un cenno della mano ci chiama e con un fil di voce che usciva da sotto la mascherina dell’ossigeno dice: “Io ho tanti anni, la mia vita l’ho già vissuta, il ventilatore datelo a quel giovane che forse ha famiglia …” Il dottore con un nodo alla gola ha saputo solo dire “grazie” e si è subito adoperato per l’altro paziente. Io nascondendo il pianto sotto la mascherina, avrei voluto abbracciare quel nobile nonno, ma gli ho stretto forte le mani e non ricordo che cosa gli ho detto, ma ho fissato quegli occhi profondi, pieni di lacrime e di dignitosa fierezza e mi sono venute in mente le parole del Vangelo “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per gli amici”.