Lettera Apostolica Scripturae Sacrae affectus, del Santo Padre Francesco, nel XVI centenario della morte di San Girolamo.
Un affetto per la Sacra Scrittura, un amore vivo e soave per la Parola di Dio scritta è l’eredità che San Girolamo ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere. Le espressioni tratte dalla memoria liturgica del Santo[1] ci offrono una chiave di lettura indispensabile per conoscere, nel XVI centenario dalla morte, la sua imponente figura nella storia della Chiesa e il suo grande amore per Cristo. Questo amore si dirama, come un fiume in tanti rivoli, nella sua opera di infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura; di raffinato interprete dei testi biblici; di ardente e talvolta impetuoso difensore della verità cristiana; di ascetico e intransigente eremita oltre che di esperta guida spirituale, nella sua generosità e tenerezza. Oggi, milleseicento anni dopo, la sua figura rimane di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo.
Introduzione
Il 30 settembre del 420 Girolamo concludeva a Betlemme, nella comunità da lui fondata presso la grotta della Natività, la sua vicenda terrena.Si affidava, così, a quel Signore che aveva sempre cercato e conosciuto nella Scrittura, lo stesso che come Giudice aveva già incontrato, febbricitante, in una visione, forse nella Quaresima del 375. In quell’avvenimento, che segnò una svolta decisiva nella sua vita, momento di conversione e cambiamento di prospettiva, egli si sentì trascinato alla presenza del Giudice: «interrogato circa la mia condizione, risposi che ero cristiano. Ma colui che presiedeva soggiunse: “Tu mentisci! Sei ciceroniano, non cristiano”».[2] Girolamo, infatti, aveva amato fin da giovane la limpida bellezza dei testi classici latini, al cui confronto gli scritti della Bibbia gli apparivano, inizialmente, rozzi e sgrammaticati, troppo aspri per il suo raffinato gusto letterario.
Quell’episodio della sua vita favorisce la decisione di dedicarsi interamente a Cristo e alla sua Parola, consacrando la sua esistenza a rendere sempre più accessibili le lettere divine agli altri, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore. Quell’evento imprime alla sua vita un nuovo e più deciso orientamento: diventare servitore della Parola di Dio, come innamorato della “carne della Scrittura”. Così, nella ricerca continua che ha caratterizzato la sua vita, valorizza i suoi studi giovanili e la formazione ricevuta a Roma, riordinando il suo sapere nel più maturo servizio a Dio e alla comunità ecclesiale.
Per questo, San Girolamo entra a pieno titolo tra le grandi figure della Chiesa antica, nel periodo definito il secolo d’oro della Patristica, vero ponte tra Oriente e Occidente: è amico di gioventù di Rufino di Aquileia, incontra Ambrogio e intrattiene una fitta corrispondenza con Agostino. In Oriente conosce Gregorio di Nazianzo, Didimo il Cieco, Epifanio di Salamina. La tradizione iconografica cristiana lo consacra rappresentandolo, insieme ad Agostino, Ambrogio e Gregorio Magno, tra i quattro grandi dottori della Chiesa di Occidente.
Già i miei predecessori hanno voluto ricordare la sua figura in diverse circostanze. Un secolo fa, in occasione del quindicesimo centenario della morte, Benedetto XV dedicò a lui la Lettera enciclica Spiritus Paraclitus (15 settembre 1920), presentandolo al mondo come «doctor maximus explanandis Scripturis».[3] In tempi più recenti, Benedetto XVI ha presentato in due catechesi successive la sua personalità e le sue opere.[4] Ora, nel sedicesimo centenario della morte, desidero anch’io ricordare San Girolamo e riproporre l’attualità del suo messaggio e dei suoi insegnamenti, a partire dal suo grande affetto per le Scritture.
In questo senso, egli può essere posto in connessione ideale, come guida sicura e testimone privilegiato, con la XII Assemblea del Sinodo dei Vescovi, dedicata alla Parola di Dio,[5] e con l’Esortazione Apostolica Verbum Domini (VD) del mio predecessore Benedetto XVI, pubblicata proprio nella festa del Santo, il 30 settembre 2010.[6]
Da Roma a Betlemme
La vita e l’itinerario personale di San Girolamo si consumano lungo le strade dell’impero romano, tra l’Europa e l’Oriente. Nato intorno al 345 a Stridone, al confine tra la Dalmazia e la Pannonia, nel territorio dell’odierna Croazia o Slovenia, riceve una solida educazione in una famiglia cristiana. Secondo l’uso dell’epoca, è battezzato in età adulta negli anni che lo vedono a Roma studente di retorica, tra il 358 e il 364. Proprio in questo periodo romano diventa insaziabile lettore dei classici latini, che studia sotto la guida dei più illustri maestri di retorica del tempo.
Conclusi gli studi, intraprende un lungo viaggio in Gallia che lo porta nella città imperiale di Treviri, oggi in Germania. È là che viene a contatto, per la prima volta, con l’esperienza monastica orientale diffusa da Sant’Atanasio. Matura così un desiderio profondo che lo accompagna ad Aquileia dove inizia, con alcuni suoi amici, «un coro di beati»,[7] un periodo di vita comune.
Verso l’anno 374, passando per Antiochia, decide di ritirarsi nel deserto della Calcide, per realizzare, in maniera sempre più radicale, una vita ascetica in cui grande spazio è riservato allo studio delle lingue bibliche, prima del greco e poi dell’ebraico. Si affida a un fratello ebreo, diventato cristiano, che lo introduce alla conoscenza della nuova lingua ebraica e dei suoni che definisce «striduli e aspirati».[8]
Il deserto, con la conseguente vita eremitica, viene scelto e vissuto da Girolamo nel suo significato più profondo: come luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime.[9] Così, nel deserto, avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con Lui, la sua consolazione misericordiosa. Mi piace al riguardo ricordare un aneddoto, di tradizione apocrifa. Girolamo chiede al Signore: “Cosa vuoi da me?”. Ed Egli risponde: “Ancora non mi hai dato tutto”. “Ma Signore, io ti ho dato questo, questo e questo…” – “Manca una cosa” – “Che cosa?” – “Dammi i tuoi peccati perché io possa avere la gioia di perdonarli ancora”.[10]
Lo ritroviamo ad Antiochia, dove è ordinato sacerdote dal Vescovo Paolino, poi a Costantinopoli, verso il 379, dove conosce Gregorio di Nazianzo e dove prosegue i suoi studi, si dedica alla traduzione in latino di importanti opere dal greco (omelie di Origene e la cronaca di Eusebio), respira il clima del Concilio celebrato in quella città nel 381. In questi anni è nello studio che si rivelano la sua passione e la sua generosità. È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca: «Ogni tanto mi disperavo, più volte mi arresi; ma poi riprendevo per l’ostinata decisione d’imparare», condotto dal “seme amaro” di tali studi a raccogliere “frutti saporosi”.[11]
Nel 382 Girolamo torna a Roma, mettendosi a disposizione di Papa Damaso che, apprezzando le sue grandi qualità, ne fa un suo stretto collaboratore. Qui Girolamo si impegna in una incessante attività senza dimenticare la dimensione spirituale: sull’Aventino, grazie al sostegno di donne aristocratiche romane desiderose di scelte radicali evangeliche, come Marcella, Paola e la figlia di lei Eustochio, crea un cenacolo fondato sulla lettura e sullo studio rigoroso della Scrittura. Girolamo è esegeta, docente, guida spirituale. In questo tempo intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento; continua il suo lavoro come traduttore di omelie e commenti scritturistici di Origene, dispiega una frenetica attività epistolare, si confronta pubblicamente con autori eretici, a volte con eccessi e intemperanze, ma sempre mosso sinceramente dal desiderio di difendere la vera fede e il deposito delle Scritture.
Questo intenso e proficuo periodo si interrompe con la morte di Papa Damaso. Si vede costretto a lasciare Roma e, seguito da amici e da alcune donne desiderose di continuare l’esperienza spirituale e di studio biblico avviata, parte alla volta dell’Egitto – dove incontra il grande teologo Didimo il Cieco – e della Palestina, per stabilirsi definitivamente a Betlemme nel 386. Riprende i suoi studi filologici, ancorati ai luoghi fisici che di quelle narrazioni erano stati lo scenario.
L’importanza data ai luoghi santi è evidenziata non solo dalla scelta di vivere in Palestina, dal 386 fino alla morte, ma anche dal servizio per i pellegrinaggi. Proprio a Betlemme, luogo per lui privilegiato, presso la grotta della Natività fonda due monasteri “gemelli”, maschile e femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini giunti ad loca sancta, rivelando la sua generosità nell’ospitare quanti giungevano in quella terra per vedere e toccare i luoghi della storia della salvezza, unendo così la ricerca culturale a quella spirituale.[12]
È nella Sacra Scrittura che, mettendosi in ascolto, Girolamo trova sé stesso, il volto di Dio e quello dei fratelli, e affina la sua predilezione per la vita comunitaria. Da qui il suo desiderio di vivere con gli amici, come già dai tempi di Aquileia, e di fondare comunità monastiche, perseguendo l’ideale cenobitico di vita religiosa che vede il monastero come “palestra” in cui formare persone «che si ritengono inferiori a tutti per essere primi fra tutti», felici nella povertà e capaci di insegnare con il proprio stile di vita. Ritiene formativo, infatti, il vivere «sotto il governo di un unico superiore e in compagnia di molti» per apprendere l’umiltà, la pazienza, il silenzio e la mansuetudine, nella consapevolezza che «la verità non ama gli angoli oscuri, e non cerca i sussurratori».[13] Confessa, inoltre, di «anelare alle cellette del monastero, […] desiderare quella sollecitudine delle formiche, dove si lavora insieme e non esiste niente che sia proprietà di qualcuno, ma tutto è di tutti».[14]
Nello studio Girolamo non trova un effimero diletto fine a sé stesso, ma un esercizio di vita spirituale, un mezzo per arrivare a Dio, e così anche la sua formazione classica viene riordinata nel più maturo servizio alla comunità ecclesiale. Pensiamo all’aiuto dato al Papa Damaso, all’insegnamento che dedica alle donne, specie per l’ebraico, sin dal primo cenacolo sull’Aventino, tanto da fare entrare Paola e Eustochio «nei combattimenti dei traduttori»[15] e, cosa inaudita per il tempo, garantire loro di poter leggere e cantare i Salmi nella lingua originale.[16]
Una cultura, la sua, messa a servizio e ribadita come necessaria ad ogni evangelizzatore. Così ricorda all’amico Nepoziano: «La parola del sacerdote deve prendere sapore grazie alla lettura delle Scritture. Non voglio che tu sia un declamatore o un ciarlatano dalle molte parole, ma uno che comprende la sacra dottrina (mysterii) e conosce fino in fondo gli insegnamenti (sacramentorum) del tuo Dio. È tipico degli ignoranti rigirare le parole e accattivarsi l’ammirazione del popolo inesperto con il parlare velocemente. Chi è senza pudore spesso spiega ciò che non conosce e pretende di essere un grande esperto solo perché riesce a persuadere gli altri».[17]
A Betlemme Girolamo vive, fino alla sua morte nel 420, il periodo più fecondo e intenso della sua vita, completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia. Il prezioso lavoro confluito nelle sue opere è frutto di confronto e di collaborazione, dalla copiatura e collazione dei manoscritti alla riflessione e discussione: «Non mi sono fidato mai delle mie proprie forze per studiare i volumi divini, […] ho l’abitudine di porre questioni, anche a proposito di ciò che credevo sapere, a più ragione su ciò di cui non ero sicuro».[18] Perciò, consapevole del proprio limite, chiede continuo sostegno nella preghiera di intercessione per la riuscita della sua traduzione dei testi sacri «nello stesso Spirito con cui furono scritti»,[19] senza dimenticare di tradurre anche opere di autori indispensabili per il lavoro esegetico, come Origene, in modo da «mettere a disposizione di chi vuole approfondire gli studi scientifici questo materiale».[20]
Lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa, perché siano sempre «luogo dove il sapere diventa servizio, perché senza un sapere che nasce dalla collaborazione e sfocia nella cooperazione non c’è sviluppo genuinamente e integralmente umano».[21] Fondamento di tale comunione è la Scrittura, che non possiamo leggere da soli: «La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il “noi” nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire».[22]
La robusta esperienza di vita, nutrita dalla Parola di Dio, fa sì che Girolamo, attraverso una fitta corrispondenza epistolare, diventi guida spirituale. Egli si fa compagno di viaggio, convinto che «non c’è arte che s’impari senza maestro», come scrive a Rustico: «ciò che desidero farti capire, prendendoti per mano, come se io fossi un marinaio che, fatta ormai l’esperienza di parecchi naufragi, tenta d’istruire un navigante inesperto».[23] Da quell’angolo pacifico di mondo segue l’umanità in un’epoca di grandi capovolgimenti, segnata da eventi come il sacco di Roma del 410 che lo colpì profondamente.
Alle lettere affida le polemiche dottrinali, sempre nella difesa della retta fede, rivelandosi uomo di relazioni, vissute con forza e con dolcezza, con pieno coinvolgimento, senza forme edulcorate, sperimentando che «l’amore non ha prezzo».[24] Così vive i suoi affetti con impeto e sincerità. Questo coinvolgersi nelle situazioni in cui vive e opera si riscontra anche nel fatto che egli offre il suo lavoro di traduzione e di commento come munus amicitiae. È un dono prima di tutto per gli amici, destinatari e dedicatari delle sue opere e ai quali chiede di leggerle con occhio amichevole piuttosto che critico, e poi per i lettori, i suoi contemporanei e quelli di ogni tempo.[25]
Consuma gli ultimi anni della sua vita nella lettura orante personale e comunitaria della Scrittura, nella contemplazione, nel servizio ai fratelli attraverso le sue opere. Tutto questo a Betlemme, accanto alla grotta dove il Verbo fu partorito dalla Vergine, consapevole che è «felice colui che porta nel suo intimo la croce, la risurrezione, il luogo della nascita e dell’ascensione di Cristo! Felice chi ha Betlemme nel suo cuore, nel cui cuore Cristo nasce ogni giorno!».[26]
La chiave sapienziale del suo ritratto
Per una piena comprensione della personalità di San Girolamo è necessario coniugare due dimensioni caratteristiche della sua esistenza di credente: da un lato, l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione, per amore di Cristo crocifisso (cfr 1 Cor 2,2; Fil 3,8.10); dall’altro, l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore. È proprio questa duplice testimonianza, mirabilmente offerta da San Girolamo, che viene proposta come modello: per i monaci, innanzitutto, perché chi vive di ascesi e di preghiera venga sollecitato a dedicarsi all’assiduo travaglio della ricerca e del pensiero; per gli studiosi, poi, che devono ricordare che il sapere è valido religiosamente solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, sulla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione.
Tali dimensioni sono state recepite nel campo della storia dell’arte, dove la presenza di San Girolamo è frequente: grandi maestri della pittura occidentale ci hanno lasciato le loro raffigurazioni. Potremmo organizzare le varie tipologie iconografiche lungo due linee distinte. L’una lo definisce soprattutto come monaco e penitente, con un corpo scolpito dal digiuno, ritirato in zone desertiche, in ginocchio o prostrato a terra, in molti casi stringendo un sasso nella destra per battersi il petto, e con gli occhi rivolti al Crocifisso. In questa linea si pone il toccante capolavoro di Leonardo da Vinci conservato nella Pinacoteca Vaticana. Un altro modo di raffigurare Girolamo è quello che ce lo mostra in veste di studioso, seduto al suo scrittoio, intento a tradurre e commentare la Sacra Scrittura, attorniato da volumi e pergamene, investito della missione di difendere la fede attraverso il pensiero e lo scritto. Albrecht Dürer, per citare un altro esempio illustre, lo ha raffigurato più di una volta in questo atteggiamento.
I due aspetti sopra evocati si ritrovano congiunti nella tela del Caravaggio, alla Galleria Borghese di Roma: in un’unica scena, infatti, viene presentato l’anziano asceta, sommariamente rivestito da un panno rosso, che sul tavolo ha un cranio, simbolo della vanità delle realtà terrene; ma assieme è pure potentemente raffigurata la qualità dello studioso, che tiene gli occhi fissi sul libro, mentre la sua mano intinge la penna nel calamaio nell’atto caratteristico dello scrittore.
In modo analogo – un modo che chiamerei sapienziale – dobbiamo comprendere il duplice profilo del percorso biografico di Girolamo. Quando, da vero «Leone di Betlemme», esagerava nei toni, lo faceva per la ricerca di una verità della quale era pronto a farsi incondizionato servitore. E come lui stesso spiega nel primo dei suoi scritti, Vita di San Paolo, eremita di Tebe, i leoni sono capaci di “potenti ruggiti” ma anche di lacrime.[27] Per questo motivo, quelle che nella sua figura appaiono due fisionomie giustapposte sono, in realtà, elementi con i quali lo Spirito Santo gli ha permesso di maturare la sua unità interiore.
Amore per la Sacra Scrittura
Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio, trasmessa alla Chiesa nella Sacra Scrittura. Se tutti i Dottori della Chiesa – e in particolare quelli della prima epoca cristiana – hanno attinto esplicitamente dalla Bibbia i contenuti del loro insegnamento, Girolamo lo ha fatto in modo più sistematico e per certi versi unico.
Gli esegeti negli ultimi tempi hanno scoperto la genialità narrativa e poetica della Bibbia, esaltata proprio per la sua qualità espressiva; Girolamo, invece, sottolineava piuttosto nella Scrittura il carattere umile del rivelarsi di Dio ed espresso nella natura aspra e quasi primitiva della lingua ebraica, paragonata alla raffinatezza del latino ciceroniano. Non è dunque per un gusto estetico che egli si dedica alla Sacra Scrittura, ma – come è ben noto – solamente perché essa lo porta a conoscere Cristo, perché l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.[28]
Girolamo ci insegna che non vanno studiati solo i Vangeli, e non è solo la tradizione apostolica, presente negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, a dover essere commentata, perché tutto l’Antico Testamento è indispensabile per penetrare nella verità e nella ricchezza del Cristo.[29] Le stesse pagine evangeliche lo attestano: esse ci parlano di Gesù come Maestro che, per spiegare il suo mistero, ricorre a Mosè, ai profeti e ai Salmi (cfr Lc 4,16-21; 24,27.44-47). Anche la predicazione di Pietro e Paolo, negli Atti, si radica emblematicamente nelle antiche Scritture; senza di esse non può essere pienamente compresa la figura del Figlio di Dio, il Messia Salvatore. L’Antico Testamento non deve essere considerato come un vasto repertorio di citazioni che dimostrano il compiersi delle profezie nella persona di Gesù di Nazaret; più radicalmente, invece, è solo alla luce delle “figure” anticotestamentarie che è possibile conoscere in pienezza il senso dell’evento di Cristo, compiutosi nella sua morte e risurrezione. Da qui la necessità di riscoprire, nella prassi catechetica e nella predicazione, come anche nelle trattazioni teologiche, l’apporto indispensabile dell’Antico Testamento, che va letto e assimilato come nutrimento prezioso (cfr Ez 3,1-11; Ap 10,8-11).[30]
La dedizione totale di Girolamo alla Scrittura si manifesta in una forma espressiva appassionata, simile a quella degli antichi profeti. È da loro che il nostro Dottore attinge il fuoco interiore che diventa verbo impetuoso e dirompente (cfr Ger 5,14; 20,9; 23,29; Ml 3,2; Sir 48,1; Mt 3,11; Lc 12,49), necessario per esprimere lo zelo ardente del servitore per la causa di Dio. Nella scia di Elia, di Giovanni Battista e anche dell’apostolo Paolo, lo sdegno nei confronti della menzogna, dell’ipocrisia e delle false dottrine infiamma il discorso di Girolamo rendendolo provocatorio e apparentemente aspro. La dimensione polemica dei suoi scritti si comprende meglio se letta come una sorta di calco e di attualizzazione della più autentica tradizione profetica. Girolamo, dunque, è modello di inflessibile testimonianza della verità, che assume la severità del rimprovero per indurre a conversione. Nell’intensità delle locuzioni e delle immagini si manifesta il coraggio del servitore che non vuole compiacere gli uomini ma esclusivamente il suo Signore (Gal 1,10), per il quale egli ha consumato ogni energia spirituale.
Lo studio della Sacra Scrittura
L’amore appassionato di San Girolamo per le divine Scritture è intriso di obbedienza. Innanzitutto nei confronti di Dio, che si è comunicato in parole che esigono ascolto riverente,[31] e, di conseguenza, obbedienza anche a coloro che nella Chiesa rappresentano la vivente tradizione interpretativa del messaggio rivelato. La «obbedienza della fede» (Rm 1,5; 16,26) non è però una mera recezione passiva di ciò che è noto; essa esige, al contrario, l’impegno attivo della personale ricerca. Possiamo considerare San Girolamo un servitore della Parola, fedele e laborioso, consacrato interamente a favorire nei suoi fratelli di fede una più adeguata comprensione del «deposito» sacro loro affidato (cfr 1 Tm 6,20; 2 Tm 1,14). Senza intelligenza di ciò che è stato scritto dagli autori ispirati, la stessa Parola di Dio è priva di efficacia (cfr Mt 13,19) e l’amore per Dio non può scaturire.
Ora, le pagine bibliche non sempre sono immediatamente accessibili. Come è detto in Isaia (29,11), anche per coloro che sanno “leggere” – che hanno cioè avuto una sufficiente formazione intellettuale – il libro sacro appare “sigillato”, chiuso ermeticamente all’interpretazione. È, perciò, necessario che intervenga un testimone competente ad apportare la chiave liberatoria, quella del Cristo Signore, il solo capace di sciogliere i sigilli e aprire il libro (cfr Ap 5,1-10), così da svelare il prodigioso effondersi della grazia (cfr Lc 4,17-21). Molti poi, anche fra i cristiani praticanti, dichiarano apertamente di non essere capaci di leggere (cfr Is 29,12), non per analfabetismo, ma perché impreparati al linguaggio biblico, ai suoi modi espressivi e alle tradizioni culturali antiche, per cui il testo biblico risulta indecifrabile, come se fosse scritto in un alfabeto sconosciuto e in una lingua astrusa.
Si rende dunque necessaria la mediazione dell’interprete che eserciti la sua funzione “diaconale”, mettendosi al servizio di chi non riesce a comprendere il senso di ciò che è stato scritto profeticamente. L’immagine che può essere evocata, al proposito, è quella del diacono Filippo, suscitato dal Signore per andare incontro all’eunuco che sul suo carro sta leggendo un passo di Isaia (53,7-8), senza però poterne dischiudere il significato. «Capisci quello che leggi?», domanda Filippo; e l’eunuco risponde: «E come potrei capire se nessuno mi guida?» (At 8,30-31).[32]
Girolamo è la nostra guida sia perché, come ha fatto Filippo (cfr At 8,35), conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture.[33] La competenza nelle lingue in cui la Parola di Dio è stata trasmessa, l’accurata analisi e valutazione dei manoscritti, la puntuale ricerca archeologica, oltre alla conoscenza della storia dell’interpretazione, tutte le risorse metodologiche, insomma, che nella sua epoca storica erano disponibili, vengono da lui utilizzate, concordemente e sapientemente, per orientare a una giusta comprensione della Scrittura ispirata.
Una tale dimensione esemplare dell’attività di San Girolamo è quanto mai importante anche nella Chiesa di oggi. Se, come insegna la Dei Verbum, la Bibbia costituisce «come l’anima della sacra teologia»[34] e come il nerbo spirituale della pratica religiosa cristiana,[35] è indispensabile che l’atto interpretativo della Bibbia sia sorretto da specifiche competenze.
A questo scopo servono certamente i centri di eccellenza della ricerca biblica (come il Pontificio Istituto Biblico di Roma, e a Gerusalemme l’École Biblique e lo Studium Biblicum Franciscanum) e patristica (come l’Augustinianum di Roma), ma anche ogni Facoltà di Teologia deve impegnarsi affinché l’insegnamento della Sacra Scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa, sia nell’esegesi dei testi, sia nelle sintesi di teologia biblica. La ricchezza della Scrittura è purtroppo da molti ignorata o minimizzata, perché a loro non sono state fornite le basi essenziali di conoscenza. Accanto quindi a un incremento degli studi ecclesiastici, indirizzati a sacerdoti e a catechisti, che valorizzino in modo più adeguato la competenza nelle Sacre Scritture, va promossa una formazione estesa a tutti i cristiani, perché ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita.[36]
Vorrei qui ricordare quanto espresso dal mio Predecessore nell’Esortazione apostolica Verbum Domini: «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. […] Sull’atteggiamento da avere sia nei confronti dell’Eucaristia, che della Parola di Dio, San Girolamo afferma: “Noi leggiamo le sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: Chi non mangerà la mia carne e berrà il mio sangue (Gv 6,53), benché queste parole si possano intendere anche del Mistero [eucaristico], tuttavia il corpo di Cristo e il suo sangue è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio”».[37]
Purtroppo in molte famiglie cristiane nessuno si sente in grado – come invece è prescritto nella Tôrah (cfr Dt 6,6) – di far conoscere ai figli la Parola del Signore, con tutta la sua bellezza, con tutta la sua forza spirituale. Per questo ho voluto istituire la Domenica della Parola di Dio,[38] incoraggiando la lettura orante della Bibbia e la familiarità con la Parola di Dio.[39] Ogni altra manifestazione di religiosità sarà così arricchita di senso, sarà guidata nella gerarchia di valori e sarà indirizzata a ciò che costituisce il vertice della fede: l’adesione piena al mistero di Cristo.
La Vulgata
Il “frutto più dolce dell’ardua semina”[40] di studio del greco e dell’ebraico, compiuto da Girolamo, è la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico. Fino a quel momento i cristiani dell’impero romano potevano leggere integralmente la Bibbia solo in greco. Mentre i libri del Nuovo Testamento erano stati scritti in greco, per quelli dell’Antico esisteva una versione completa, la cosiddetta Septuaginta (ossia la versione dei Settanta) fatta dalla comunità ebraica di Alessandria attorno al secolo II a.C. Per i lettori di lingua latina, invece, non vi era una versione completa della Bibbia nella loro lingua, bensì solo alcune traduzioni, parziali e incomplete, a partire dal greco. A Girolamo, e dopo di lui ai suoi continuatori, spetta il merito di aver intrapreso una revisione e una nuova traduzione di tutta la Scrittura. Iniziata a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di Papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni.
Per portare a termine questo lavoro di traduzione, Girolamo mise a frutto la sua conoscenza del greco e dell’ebraico, nonché la sua solida formazione latina, e si servì degli strumenti filologici che aveva a disposizione, in particolare delle Hexapla di Origene. Il testo finale coniugava la continuità nelle formule, ormai entrate nell’uso comune, con una maggiore aderenza al dettato ebraico, senza sacrificare l’eleganza della lingua latina. Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico. La traduzione di Girolamo, superati alcuni rifiuti iniziali, diventò subito patrimonio comune sia dei dotti, sia del popolo cristiano, donde il nome Vulgata.[41] L’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo. Così «la Sacra Scrittura è diventata una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana».[42] La letteratura, le arti, e anche il linguaggio popolare hanno costantemente attinto alla versione geronimiana della Bibbia lasciandoci tesori di bellezza e di devozione.
È in ossequio a questo fatto incontestabile che il Concilio di Trento stabilì il carattere «autentico» della Vulgata nel decreto Insuper rendendo omaggio all’uso secolare che la Chiesa ne aveva fatto e attestandone il valore come strumento per lo studio, la predicazione e le dispute pubbliche.[43] Tuttavia, esso non cercava di minimizzare l’importanza delle lingue originali, come Girolamo non smetteva di ricordare, né, tantomeno, di vietare in futuro nuove imprese di traduzione integrale. San Paolo VI, raccogliendo il mandato dei Padri del Concilio Vaticano II, volle che il lavoro di revisione della traduzione della Vulgata fosse portato a compimento e messo a disposizione di tutta la Chiesa. È così che San Giovanni Paolo II, nella Costituzione apostolica Scripturarum thesaurus,[44] ha promulgato l’edizione tipica chiamata Neovulgata nel 1979.
La traduzione come inculturazione
Con questa sua traduzione, Girolamo è riuscito a “inculturare” la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa. In effetti, «quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo»,[45] e si instaura così una sorta di circolarità: come la traduzione di Girolamo è debitrice della lingua e della cultura dei classici latini, le cui impronte sono ben visibili, così essa, con il suo linguaggio e il suo contenuto simbolico e immaginifico, è diventata a sua volta elemento creatore di cultura.
L’opera di traduzione di Girolamo ci insegna che i valori e le forme positive di ogni cultura rappresentano un arricchimento per tutta la Chiesa. I diversi modi in cui la Parola di Dio è annunciata, compresa e vissuta ad ogni nuova traduzione, arricchiscono la Scrittura stessa, poiché essa, secondo la nota espressione di Gregorio Magno, cresce con il lettore,[46] ricevendo lungo i secoli nuovi accenti e nuove sonorità. L’inserimento della Bibbia e del Vangelo nelle diverse culture fa sì che la Chiesa si manifesti sempre più quale «sponsa ornata monilibus suis» (Is 61,10). E attesta, nello stesso tempo, che la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo.[47]
È stato ricordato, a ragione, che è possibile stabilire un’analogia fra la traduzione, in quanto atto di ospitalità linguistica, e altre forme di accoglienza.[48] Per questo la traduzione non è un lavoro che riguarda unicamente il linguaggio, ma corrisponde, in verità, a una decisione etica più ampia, che si connette con l’intera visione della vita. Senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro.[49] Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità. Il traduttore è un costruttore di ponti. Quanti giudizi avventati, quante condanne e conflitti nascono dal fatto che ignoriamo la lingua degli altri e che non ci applichiamo, con tenace speranza, a questa interminabile prova d’amore che è la traduzione!
Anche Girolamo dovette contrastare il pensiero dominante del suo tempo. Se agli albori dell’Impero romano conoscere il greco era relativamente comune, alla sua epoca già si trattava di una rarità. Egli venne comunque a essere uno dei migliori conoscitori della lingua e della letteratura greca cristiana e intraprese un ancor più arduo viaggio in solitaria quando si diede allo studio dell’ebraico. Se, come è stato scritto, «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo»,[50] possiamo dire che dobbiamo al poliglottismo di San Girolamo una comprensione del cristianesimo più universale e, al tempo stesso, più coerente con le sue fonti.
Con la celebrazione del centenario della morte di San Girolamo, lo sguardo si volge alla straordinaria vitalità missionaria espressa dalla traduzione della Parola di Dio in più di tremila lingue. Tanti sono i missionari ai quali si deve la preziosa opera di pubblicazione di grammatiche, dizionari e altri strumenti linguistici che offrono i fondamenti alla comunicazione umana e sono un veicolo per il «sogno missionario di arrivare a tutti».[51] È necessario valorizzare tutto questo lavoro e investire su di esso, contribuendo al superamento delle frontiere della incomunicabilità e del mancato incontro. C’è ancora tanto da fare. Come è stato affermato, non esiste comprensione senza traduzione:[52] non comprenderemmo noi stessi né gli altri.
Girolamo e la Cattedra di Pietro
Girolamo ha avuto sempre un particolare rapporto con la città di Roma: Roma è il porto spirituale al quale torna continuamente; a Roma si è formato l’umanista e si è forgiato il cristiano; egli è homo romanus. Questo legame avviene, in modo del tutto peculiare, nella lingua dell’Urbe, il latino, di cui è stato maestro e cultore, ma è soprattutto legato alla Chiesa di Roma e, segnatamente, alla cattedra di Pietro. La tradizione iconografica, in modo anacronistico, lo ha raffigurato con la porpora cardinalizia, a segnalare la sua appartenenza al presbiterio di Roma accanto a Papa Damaso. È a Roma che ha iniziato la revisione della traduzione. E anche quando le invidie e le incomprensioni lo hanno forzato a lasciare l’Urbe, è rimasto sempre fortemente legato alla cattedra di Pietro.
Per Girolamo, la Chiesa di Roma è il terreno fecondo dove il seme di Cristo porta frutto abbondante.[53] In un’epoca convulsa, in cui la tunica inconsutile della Chiesa è spesso lacerata dalle divisioni tra i cristiani, Girolamo guarda alla cattedra di Pietro come punto di riferimento sicuro: «Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla Cattedra di Pietro. So che su quella roccia è edificata la Chiesa». Nel pieno delle dispute contro gli ariani, scrive a Damaso: «Chi non raccoglie con te, disperde, chi non è del Cristo, è dell’anticristo».[54] Perciò può anche affermare: «Chi è unito alla cattedra di Pietro, è dei miei».[55]
Girolamo si è visto spesso coinvolto in aspre dispute per la causa della fede. Il suo amore per la verità e la difesa ardente di Cristo lo hanno forse portato a eccedere nella violenza verbale nelle sue lettere e nei suoi scritti. Egli, però, vive orientato alla pace: «La pace la voglio anch’io; e non solo la desidero ma la imploro! Ma intendo la pace di Cristo, la pace autentica, una pace senza residui di ostilità, una pace che non covi in sé la guerra; non la pace che soggioga gli avversari, ma quella che ci unisce in amicizia!».[56]
Il nostro mondo ha bisogno più che mai della medicina della misericordia e della comunione. Permettetemi di ripetere ancora una volta: diamo una testimonianza di comunione fraterna che diventi attraente e luminosa.[57] «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È quello che ha chiesto con intensa preghiera Gesù al Padre: «Siano una sola cosa […] in noi […] perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Amare ciò che Girolamo amò
A conclusione di questa Lettera, desidero rivolgere un ulteriore appello a tutti. Tra i tanti elogi tributati dai posteri a San Girolamo vi è quello che egli non fu semplicemente considerato uno dei massimi cultori della “biblioteca” di cui si nutre il cristianesimo nel corso del tempo, a cominciare dal tesoro delle Sacre Scritture; a lui si può applicare ciò che egli stesso scriveva di Nepoziano: «Con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo».[58] Girolamo non risparmiò sforzi al fine di arricchire la propria biblioteca, nella quale sempre vide un laboratorio indispensabile all’intelligenza della fede e alla vita spirituale; e in questo egli costituisce un mirabile esempio anche per il presente. Ma egli andò oltre. Per lui, lo studio non rimase confinato agli anni giovanili della formazione, fu un impegno costante, una priorità di ogni giorno della sua vita. Possiamo insomma affermare che assimilò un’intera biblioteca e divenne dispensatore di sapere per molti altri. Postumiano, che nel IV secolo viaggiò per l’Oriente alla scoperta dei movimenti monastici, fu testimone oculare dello stile di vita di Girolamo, presso il quale soggiornò alcuni mesi, e così lo descrisse: «Egli è tutto nella lettura, tutto nei libri; non riposa né giorno né notte; sempre legge o scrive qualcosa».[59]
A questo proposito penso spesso all’esperienza che può fare oggi un giovane entrando in una libreria della sua città, o in un sito internet, e cercandovi il settore dei libri religiosi. È un settore che, quando esiste, nella maggior parte dei casi è non solo marginale, ma sguarnito di opere sostanziose. Esaminando quegli scaffali, o quelle pagine in rete, difficilmente un giovane potrebbe comprendere come la ricerca religiosa possa essere un’avventura appassionante che unisce pensiero e cuore; come la sete di Dio abbia infiammato grandi menti lungo tutti i secoli fino a oggi; come la maturazione della vita spirituale abbia contagiato teologi e filosofi, artisti e poeti, storici e scienziati. Uno dei problemi odierni, non solo della religione, è l’analfabetismo: scarseggiano le competenze ermeneutiche che ci rendano interpreti e traduttori credibili della nostra stessa tradizione culturale. Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida: partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare «la perla di grande valore» (Mt 13,46).
Davvero Girolamo è la «Biblioteca di Cristo», una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione. Come non ascoltare, nel nostro oggi, ciò a cui Girolamo spronava incessantemente i suoi contemporanei: «Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro»?[60]
Esempio luminoso è la Vergine Maria, da Girolamo evocata, soprattutto nella sua maternità verginale ma anche nel suo atteggiamento di lettrice orante della Scrittura. Maria meditava in cuor suo (cfr Lc 2,19.51) «perché era santa e aveva letto le Sacre Scritture, conosceva i profeti e ricordava ciò che l’angelo Gabriele le aveva annunciato e ciò che era stato vaticinato dai profeti […], vedeva il neonato che era suo figlio, il suo unico figlio che giaceva e vagiva in quel presepe, ma chi veramente vedeva giacente era il Figlio di Dio, ciò che lei vedeva lo paragonava con quanto aveva letto e sentito».[61] Affidiamoci a lei, che meglio di ogni altro può insegnarci come leggere, meditare, pregare e contemplare Dio che si fa presente nella nostra vita senza mai stancarsi.
Roma, San Giovanni in Laterano, 30 settembre, memoria di San Girolamo, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato.
Francesco
[1] «Deus qui beato Hieronymo presbitero suavem et vivum Scripturae Sacrae affectum tribuisti, da, ut populus tuus verbo tuo uberius alatur et in eo fontem vitae inveniet», Collecta Missae Sancti Hieronymi, Missale Romanum, editio typica tertia, Civitas Vaticana 2002.
[2] Epistula (in seguito Ep.) 22,30: CSEL 54, 190.
[3] AAS 12 (1920), 385-423.
[4] Cfr Udienze Generali 7 e 14 novembre 2007: Insegnamenti, III, 2 (2007), 553-556; 586-591.
[5] Sinodo dei Vescovi, Messaggio al Popolo di Dio della XII assemblea generale ordinaria (24 ottobre 2008).
[6] Cfr AAS 102 (2010) 681-787.
[7] Chronicum 374: PL 27, 697-698.
[8] Ep. 125,12: CSEL 56, 131.
[9] Cfr Ep. 122,3: CSEL 56, 63.
[10] Cfr Meditazione mattutina, 10 dicembre 2015. L’aneddoto è riportato in A. Louf, Sotto la guida dello Spirito, Qiqaion, Magnano (BI) 1990, 154-155.
[11] Cfr Ep. 125,12: CSEL 56, 131.
[12] Cfr VD, 89: AAS 102 (2010), 761-762.
[13] Cfr Ep. 125,9.15.19: CSEL 56, 128.133-134.139.
[14] Vita Malchi monachi captivi 7,3: PL 23, 59-60; Opere storiche e agiografiche, a cura di B. Degórski, Opere di Girolamo XV, Città Nuova, Roma 2014, 196-199.
[15] Praef. Esther 2: PL 28, 1505.
[16] Cfr Ep. 108,26: CSEL 55, 344-345.
[17] Ep. 52,8: CSEL 54, 428-429; cfr VD, 60: AAS 102 (2010), 739.
[18] Praef. Paralipomenon LXX, 1.10-15: SCh 592, 340.
[19] Praef. in Pentateuchum: PL 28, 184.
[20] Ep. 80,3: CSEL 55, 105.
[21] Messaggio in occasione della XXIV solenne Seduta pubblica delle Pontificie Accademie, 4 dicembre 2019: L’Osservatore Romano, 6 dicembre 2019, p. 8.
[22] VD, 30: AAS 102 (2010), 709.
[23] Ep. 125,15.2: CSEL 56, 133.120.
[24] Ep. 3,6: CSEL 54, 18.
[25] Cfr Praef. Josue, 1, 9-12: SCh 592, 316.
[26] Homilia in Psalmum 95: PL 26, 1181; cfr S. Girolamo, 59 Omelie sui Salmi (1-115), a cura di A. Capone, Opere di Girolamo IX/1, Città Nuova, Roma 2018, 357.
[27] Cfr Vita S. Pauli primi eremitae, 16,2: PL 23, 28; Opere storiche e agiografiche, cit., 111.
[28] Cfr In Isaiam Prol.: PL 24, 17; S. Girolamo, Commento a Isaia (1-4), a cura di R. Maisano, Opere di Girolamo IV/1, Città Nuova, Roma 2013, 52-53.
[29] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 14.
[32] Cfr S. Girolamo, Ep. 53,5: CSEL 54, 451; Le lettere, a cura di S. Cola, II, Città Nuova, Roma 1997, 54.
[33] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 12.
[37] N. 56; cfr In Psalmum 147: CCL 78, 337-338; S. Girolamo, 59 Omelie sui Salmi (119-149), a cura di A. Capone, Opere di Girolamo IX/2, Città Nuova, Roma 2018, 171.
[38] Cfr Lett. ap. in forma di Motu Proprio Aperuit illis, 30 settembre 2019.
[39] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 152.175: AAS 105 (2013), 1083-1084.1093.
[40] Cfr Ep. 52,3: CSEL 54, 417.
[41] Cfr VD, 72: AAS 102 (2010), 746-747.
[42] S. Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti (4 aprile 1999), 5: AAS 91 (1999), 1159-1160.
[43] Cfr Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, 1506.
[44] 25 aprile 1979: AAS LXXI (1979), 557-559.
[45] Esort. ap. Evangelii gaudium, 116: AAS 105 (2013), 1068.
[46] Homilia in Ezech. I, 7: PL 76, 843D.
[47] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 116: AAS 105 (2013), 1068.
[48] Cfr P. Ricœur, Sur la traduction, Bayard, Paris 2004.
[49] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24: AAS 105 (2013), 1029-1030.
[50] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, 5.6.
[51] Esort. ap. Evangelii gaudium, 31: AAS 105 (2013), 1033.
[52] Cfr G. Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, Oxford University Press, New York 1975.
[53] Cfr Ep. 15,1: CSEL 54, 63.
[54] Ibid., 15,2: CSEL 54, 62-64.
[55] Ibid., 16,2: CSEL 54, 69.
[56] Ibid., 82,2: CSEL 55, 109.
[57] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 99: AAS 105 (2013), 1061.
[58] Ep. 60,10: CSEL 54, 561.
[59] Sulpicius Severus, Dialogus I, 9, 5: SCh 510, 136-138.
[60] Ep. 52,7: CSEL 54, 426.
[61] Homilia de nativitate Domini IV: PL Suppl. 2, 191.