Oltre cinquant’anni, una bella fetta di vita per chiunque. E forse ancor più per un’associazione sui generis come il SAE (Segretariato attività ecumeniche), nato quando il Vaticano II era ancora in corso grazie alla caparbietà prorompente di una donna appassionata di unità, Maria Vingiani. A lei, infatti, si deve quell’intuizione all’epoca addirittura impensabile: un organismo interconfessionale di base fatto di laici che si spendono su un tema che nella Chiesa cattolica – quella in cui lei era stata formata – non era neppure in agenda. Era l’estate del 1964 quando, con il titolo Ecumenismo missione della Chiesa, fu organizzata la prima sessione di formazione ecumenica, due anni prima che la stessa associazione, il SAE appunto, si costituisse formalmente (cosa che avvenne nel 1966). Mentre il decreto Unitatis redintegratio, dedicato appunto a questo argomento, sarebbe stato votato dai padri conciliari solo il 21 novembre 1964…
Quello che abbiamo veduto e udito…
Vale la pena di accennare alle radici di un’esperienza che, in un tempo non facile per associazioni e movimenti, continua ogni anno a offrire uno spazio privilegiato per la formazione all’ecumenismo; e che sente, da qualche anno, una particolare spinta propulsiva proveniente dalla spiccata sensibilità al riguardo dell’attuale vescovo di Roma, Francesco, forte di una consolidata esperienza ecumenica maturata in terra argentina. Questo il contesto in cui si è svolta, dal 25 al 30 luglio scorsi, la cinquantatreesima Sessione di formazione ecumenica del SAE, ospitata come lo scorso anno dalla Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli, a due passi da Assisi. Il tema scelto era di evidente attualità: il 2016 è l’anno del Giubileo della misericordia per i cattolici ma è anche quello della celebrazione dell’atteso Concilio panortodosso; inoltre, nel 2017, il mondo protestante celebrerà il cinquecentesimo anniversario della Riforma di Lutero. Eventi che non hanno rilevanza solo per le Chiese che li celebrano, ma che abbracciano l’intero pluriverso cristiano, che sta vivendo una stagione di grandi trasformazioni. La dinamicità del tempo attuale richiede dunque a un’associazione interconfessionale come il SAE di proporre uno sguardo capace, partendo dal passato, di attraversare il presente e di scrutare il futuro, con una particolare attenzione alla questione delle (complicate) trasmissioni generazionali, sia della fede sia della sensibilità ecumenica. Per questa ragione, la sessione 2016 ha costituto solo la prima di due puntate di un ciclo dedicato a Tradizione, riforma e profezia; la seconda avrà luogo il prossimo anno. Quest’anno, sotto il titolo Quello che abbiamo veduto e udito noi l’annunciamo (1Gv 1,3), ci si è soffermati principalmente sulla tradizione, proponendone una lettura dinamica, sia dal punto di vista dei significati sia delle implicazioni teologiche. Tale dinamismo si è irradiato altresì sull’impostazione stessa della sessione, da sempre un’esperienza da viversi a 360 gradi più che un puro e semplice convegno di studio: con meditazioni e conferenze in plenaria, gruppi di studio o laboratori e celebrazioni liturgiche, fino alla condivisione dei pasti e dei momenti di pausa. I partecipanti erano circa 250, provenienti un po’ da tutta la penisola, in maggioranza cattolici ma anche protestanti, ortodossi, ebrei e musulmani. Diversi sono stati i passaggi forti della sessione, ed è impossibile, qui, ripercorrerli tutti, rimandando alla pubblicazione degli Atti.
Il misterioso appuntamento tra le generazioni
Scegliamo perciò di soffermarci, per la loro rappresentatività nel quadro dell’attuale fase dell’ecumenismo, sulle due tavole rotonde che, il 25 e 26 luglio, hanno costituito l’ossatura dei lavori in plenaria, dedicate a una lettura antropologica e teologica delle tre parole chiave della sessione (tradizione, riforma, profezia), e moderate da una voce storica dell’ecumenismo cattolico, Carlo Molari. La prima ha visto gli interventi della pastora battista Anna Maffei e dello psicanalista Francesco Stoppa. «La dimensione dell’eternità che ci viene donata e che intuiamo per fede, lungi dal rappresentare una fuga dal reale offre qualità e stabilità alla nostra vita», ha esordito Maffei. Il presente è il tempo in cui percepiamo la presenza del Dio che ci visita, in cui ogni incontro può divenire benedizione, in cui scegliamo le nostre priorità in risposta alla vocazione personale e collettiva che riceviamo. Ma il presente non è appiattimento nell’ottica consumistica che ci domina, perché ha lo spessore della memoria delle storie della fede di chi ci ha preceduto e ha per orizzonte la speranza del compimento. In questa stabilità, già compiuta in Dio e anticipata nella fede in Cristo morto e risorto, la tradizione è ricordo/trasmissione degli eventi centrali della fede e resta compito primario di ogni generazione. Così, a cinque secoli dalla Riforma di Lutero, è compito ecumenico interrogarci insieme sul principio del Sola Scriptura senza arroccamenti identitari. E se la parola di profezia rende possibile l’azione umanizzatrice dello Spirito santo, oggi – come ieri, del resto – è parola spesso soffocata, ignorata, calpestata.
I tre termini in questione, in realtà, sono un’unica vocazione che si fa preghiera, rivolta a tutti noi: non spegnete lo Spirito! La speranza è il sentimento forte, il filo che attraversa le problematiche relative al rapporto tra tradizione e innovazione, ha esordito Stoppa. La cosa è evidente per quanto riguarda le vicende connesse alla trasmissione intergenerazionale, dove si assiste a una delicata e non sempre indolore dinamica tra continuità e discontinuità, tra fedeltà e trasgressione. Adolescenza e vecchiaia – ha proseguito il relatore – rappresentano da questo punto di vista due diversi modi del prendere la Parola, cioè del profetizzare, che entrano in tensione reciproca in quello che è il misterioso appuntamento tra le generazioni. L’una è chiamata ad assicurare la forza propulsiva per mandare avanti il mondo, l’altra deve trovare una modalità a sua volta creativa – attraversata dal desiderio e non dalla rassegnazione – per cedere il testimone. In tutto questo gioca una parte essenziale la questione della paternità come elemento portante, non solo simbolico o normativo ma reale, della trasmissione intergenerazionale.
Contro la durezza del cuore
Relatori del secondo incontro sono stati il decano del Decanato ortodosso romeno di Milano e Lombardia Sud Traian Valdman, la teologa cattolica Lilia Sebastiani e il decano della Chiesa luterana in Italia (CELI) Heiner Bludau. Secondo Valdman per la teologia ortodossa la Tradizione, con la Ti maiuscola, è di fondamentale importanza, perché è la vita della Chiesa. La Tradizione è viva all’interno della Chiesa e la Chiesa è viva all’interno della Tradizione: nessuna delle due può esistere senza l’altra ed entrambe vivono nello Spirito Santo. Se la Scrittura presenta Gesù Cristo e la sua opera salvifica, la Tradizione fa passare Cristo nella vita degli uomini mediante le strutture sacramentali e mediante la predicazione della Parola. La Tradizione è anche trasmissione del deposito di fede di generazione in generazione e, per opera dello Spirito Santo, illumina la mente umana per accoglierlo.
Pur sempre attualizzante, la Tradizione ci lega alle origini, al passato: ma dato che le situazioni storiche nelle quali vive la Chiesa sono mutevoli, la Tradizione è chiamata a dare indicazioni aggiornate ai sempre nuovi problemi che si pongono alla vita ecclesiale. Di fronte ai tanti problemi sorti a causa degli sconvolgimenti storici degli ultimi decenni, il Santo e grande sinodo di Creta di quest’anno va letto dunque come profezia. Pur non essendo panortodosso a causa dell’assenza di quattro Chiese, esso, secondo Valdman, ha confermato la scelta strategica della sinodalità quale metodo fondamentale per trovare risposte alle stringenti esigenze attuali. Secondo Lilia Sebastiani siamo ormai abituati, anche al di là delle nostre idee teologiche più consapevoli, a intendere d’istinto queste tre realtà storiche e ideali (tradizione, riforma, profezia) come se fossero altrettante aree ben recintate, e se gli abitanti di una di esse non potessero che guardare a quelli delle altre due con senso di estraneità e sospetto. Ma non è così: solo quella che nei vangeli si chiama sklerokardìa, durezza di cuore può dar luogo a questo irrigidimento non solo limitante ma antisalvifico, da cui deriva automaticamente una lettura statica e conservatrice della tradizione, una lettura della riforma troppo prudente e politica ai limiti dell’opportunismo, una lettura solo romantico–utopistica della profezia.
Non è condivisibile la definizione temporale che assegna alla tradizione il passato, alla riforma il presente, alla profezia il futuro; il vissuto di ogni autentica comunità di fede, in ogni tempo, piuttosto, è chiamato a partecipare di tutt’e tre le dimensioni. Sappiamo che le realtà umane e storiche sono sempre a rischio di involuzione; ma se guardiamo ai momenti aurorali della storia che ci ha condotti fin qui, possiamo leggerli come una compresenza di tradizione, riforma e profezia. Pensiamo allo stesso evento di Gesù, nel concreto della sua vicenda storica; alla santità extra-ordinaria di Francesco d’Assisi, libera, creativa, fedelissima; o a momenti di svolta nella storia quali il Vaticano II e il pontificato di Francesco, tuttora in cammino sotto il segno della misericordia di Dio.
Basandosi sul comune impegno evangelico secondo cui Quello che abbiamo veduto e udito noi l’annunciamo, Heiner Bludau ne ha poi illustrato la prospettiva luterana. A suo parere, le diversità nelle Chiese stanno nella questione su come si deve concretizzare l’annuncio. I concetti di tradizione, riforma, profezia costituiscono uno schema utile per giungere a un dialogo costruttivo su tali differenze. Dal punto di vista luterano la propria visione di sé come Chiesa dell’articolo 7 della Confessione augustana si lascia ben traslare in tale schema. Le forze e le debolezze dell’ecclesiologia luterana qui diventano evidenti: l’ampio orizzonte lascia aperte molte domande concrete, che possono portare a scissioni, ma impegna anche al dialogo e alla comunione oltre i confini della propria confessione. Come esempi positivi concreti in ambito protestante, si possono menzionare la Concordia di Leuenberg del 1973 e, nel dialogo con la Chiesa cattolica, il Consenso sulla dottrina della giustificazione del 1999, così come i documenti attuali sulla comune commemorazione del Giubileo della Riforma.
Unica in Italia
Detto di questi due momenti illuminanti, è importante ribadire che molti altri sono stati i passaggi forti della sessione, in cui, fra l’altro, si è fatto memoria dei trent’anni trascorsi dalla Giornata delle religioni per la pace, svoltasi proprio ad Assisi il 27 ottobre 1986, che lasciano ben sperare sul futuro del dialogo ecumenico nel nostro Paese. Un cammino certo faticoso, ma anche necessario e fruttuoso: come hanno ribadito gli ultimi due relatori di Santa Maria degli Angeli, il priore di Bose Enzo Bianchi e il pastore valdese Paolo Ricca. Quest’ultimo, in particolare, prima del suo intervento, ha voluto dare un grande ringraziamento ai presidenti Maria Vingiani, Elena Covini, Meo Gnocchi e Marianita Montresor che hanno accompagnato la vita del SAE, «questa iniziativa ecumenica unica in Italia».