Martin Werlen, ex abate dell’abbazia benedettina di Einsiedeln, ha appena pubblicato un nuovo libro, con l’editrice Herder, intitolato Raus aus dem Schneckenhaus! Nur wer draußen ist, kann drinnen sein – “Fuori dal guscio. Solo chi è fuori, può essere dentro” –, dove invita la Chiesa ad essere creativa e aperta, e critica i circoli farisaici di oggi che hanno paura del nuovo. Scrive infatti in copertina: «un libro da gustare con cautela dai farisei». La seguente intervista è stata raccolta per Katholisch.de da Matthias Altmann (12 ottobre 2020).
- Padre Martin, proprio nel mezzo della pandemia del coronavirus, lei invita la Chiesa a uscire dal suo “guscio”. Come vede la Chiesa in questa crisi?
Nella crisi del coronavirus, si sono viste chiaramente le diverse immagini di Chiesa: si è passati dall’affermazione “La vita della Chiesa sta soccombendo” a una creatività molto grande. Un’esperienza centrale di fede mi accompagna e provoca continuamente: Dio non è là dove vorremmo che fosse, ma dove siamo. La Chiesa deve far fronte a questa realtà e cercare Dio in questa situazione, in questa crisi. Si è anche visto che la Chiesa deve essere profondamente creativa perché Dio è creativo. Se vuole testimoniare questo Dio vivente, non può fare altro che essere creativa. Quando si parla di una Chiesa che “soccombe” di fronte a questa situazione, si tratta di un’immagine tutt’altro che cattolica.
- In che senso?
Da un siffatto punto di vista, si tratta soltanto di tenere in piedi un’istituzione. Ma la Chiesa è testimone della presenza di Dio – in ogni tempo. Non si può dire che, quando la pandemia del coronavirus sarà passata, allora potremo essere di nuovo Chiesa. Ma in questa crisi posso io stare accanto alle persone nel loro bisogno? Questa è la Chiesa. Oscar Romero diceva che dove la Chiesa sta con le persone, con le loro gioie e loro dolori, lì è presente Cristo. Dobbiamo avere il coraggio di compiere questo passo. Finché la Chiesa aveva il potere forte di indicare come dovevano andare le cose e di ritagliarsi il proprio spazio, non era necessario richiamarlo. Molti aspetti del Vangelo non erano più percepiti o lo erano solo debolmente. Ma oggi questo non è più possibile. Per citare nuovamente Romero: la gente si è allontanata dalla Chiesa perché la Chiesa si è allontanata dalla gente.
- Nel suo libro, lei propone, ad esempio, di guardare in maniera diversa la gente che se ne va, che abbandona la Chiesa e sostiene che la Chiesa non dovrebbe fissarsi troppo sui numeri…
Proprio da coloro che se ne sono andati possiamo imparare: come sentono la Chiesa, cosa imparano da essa? Se la gente non sente più cos’è la Chiesa, allora possono lasciarla senza che a loro manchi qualcosa. Se la Chiesa è percepita solo come un’istituzione la quale dice che questo e quello non si può fare, quale ragione hanno ancora per appartenerle? Ma la Chiesa è una vita profondamente condivisa. Quello che la costituzione pastorale Gaudium et spes afferma all’inizio – condividere ansie, gioie, speranze e dolori (tutto questo è Chiesa) – molta gente dentro e fuori non lo avverte.
- Come può la Chiesa compensare questa perdita di autorità di cui parla?
Soprattutto i più in alto nella gerarchia ecclesiastica non devono isolarsi nel loro status, ma stare con la gente, e starvi per davvero. La domanda pertanto è questa: l’autorità nella Chiesa esiste perché uno status prevale sugli altri? O l’autorità cristiana esiste proprio perché si è in mezzo alla gente? All’apertura del sinodo dell’Amazzonia, mi ha colpito molto il fatto che papa Francesco abbia camminato in mezzo agli altri nella processione dalla basilica di San Pietro all’aula del sinodo. Questo va diritto al cuore e ci si rende subito conto che questa è la Chiesa: testimoniare un Dio che non parla dall’alto, ma che si fa uomo.
- Lei scrive che il suo libro è difficile da digerire per i farisei. Chi intende in concreto?
Non si tratta naturalmente del gruppo di 2000 anni fa, ma della tentazione di ogni credente di essere improvvisamente bloccato mettendo la legge al primo posto anziché la persona che è nel bisogno. Nel sentirsi migliori di coloro che ti stanno accanto, nel guardare gli altri con disprezzo, nell’insistere nell’osservanza delle norme. Se guardiamo ai farisei nel Nuovo Testamento, possiamo capire meglio la situazione attuale della Chiesa.
- Percepisce in questo senso la Chiesa ufficiale come farisaica?
Non lo si può dire in maniera globale. Di fatto i più in alto nella gerarchia sono tentati di esserlo come qualsiasi altro battezzato. Vedo comunque – e l’ho costatato anche come membro della Conferenza episcopale svizzera – che i circoli farisaici sono molto dominanti nella Chiesa. Alcuni vescovi, pur rendendosi conto che la riforma è effettivamente urgente, non hanno il coraggio di procedere perché hanno paura delle reazioni, oppure sono bloccati da persone per le quali tutto deve rimanere com’era. In Germania lo si nota molto chiaramente nel cammino sinodale, dove si vede emergere la paura. E la paura è tipica dei farisei. Quando nel Vangelo guardiamo ai farisei, vediamo che hanno il timore che la fede vada perduta se non vengono osservate le norme. Un atteggiamento del genere regna anche nella Chiesa. Io scrivo nel libro: «Chiunque nel guscio va in fibrillazione quando sente la parola “riforma” dovrebbe chiedersi se molta gente non se ne va proprio per questo, per non ammalarsi di cuore». Se escludiamo le riforme, non siamo più Chiesa.
- Perché?
Perché essere Chiesa significa essere in cammino. Il concetto usato negli Atti degli Apostoli per dire Chiesa lo descrive perfettamente: “cammino”.
- Lei sottolinea anche che il confronto con i farisei nel Nuovo Testamento può aiutare la Chiesa a trovare una via d’uscita da vari vicoli ciechi, per esempio, il ristagno della riforma. Cosa intende dire?
Se nel Vangelo prendiamo sul serio i passi riguardanti i farisei, ci rendiamo subito conto di quanto ciò ci sia familiare. Mi sono sempre reso conto quanto siano attuali queste dispute. Per esempio, la domanda: chi è il mio prossimo? Gesù la rovescia: di chi posso essere il prossimo? Della persona che è nel bisogno. Non si tratta ovviamente di un problema di religione o di nazionalità. Quante volte i farisei hanno proposto i loro dubia per tendere un tranello a Gesù! Lo hanno accusato di infrangere la legge. E, quando qualcuno oggi chiede la riforma, certi circoli si affrettano a dire: ciò non è più cattolico. Oppure: questa è un’eresia. È esattamente la situazione in cui si trovava Gesù. Ma egli non si è piegato. Non ha mai nemmeno cercato di giustificarsi. Ha agito. E proprio ora, nella crisi del coronavirus, diventa chiaro che, se non abbiamo il coraggio di rischiare qualcosa, è evidente che questa è la fine dell’istituzione. Questa libertà, questo rischio della fede, è questo ciò che Dio ci chiede oggi.
- Cos’è per lei la vera cattolicità?
Per me è importante che non usiamo mai la parola “cattolicità” in modo limitativo. Questo è esattamente l’opposto del suo vero significato: ampiezza. Questa ampiezza dell’amore di Dio deve diventare visibile nella cattolicità. Se un cardinale, per paura che le riforme possano muovere qualcosa, dice che la Chiesa deve rimanere cattolica, non posso che scuotere la testa. Io direi che la Chiesa deve diventare più cattolica. Diventa più cattolica? Questa è la domanda che conta. Per me questa è un’idea grandiosa che noi, come altri, trasformiamo nel suo contrario. È chiaro: la Chiesa – e non intendo qui una confessione – è cattolica, ma questo è un concetto aperto verso l’alto. Io non posso dire, adesso sono cattolico e basta. Essere cattolici è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio. O, come dice san Benedetto: a chi avanza nella fede, si dilata il cuore. Questa è cattolicità: avere un cuore grande.
- Come può la Chiesa rendere più tangibile questa ampiezza?
Vivendo ciò che ascolta nella Parola di Dio e ciò che professa nelle preghiere. Non dobbiamo inventare qualcosa di nuovo, ma piuttosto vivere la nostra fede nell’oggi. Se siamo veramente alla sequela di Gesù e lasciamo che la sua parola e il suo esempio ci entrino nel cuore, allora non possiamo che diventare cattolici, cioè persone dal cuore grande.
- Qual è l’idea di Chiesa che desidera?
Se do una risposta breve, essa spiega troppo poco. Proviamo con un’immagine. Io sono cresciuto in montagna, e anche St. Gerold nella grande valle di Wals, dove lavoro adesso come prevosto, si trova in montagna. Questi luoghi danno un senso di sicurezza, invitano a guardare in alto. È così che immagino la Chiesa: sicurezza in una comunità dove si cammina insieme con lo sguardo rivolto in alto. I concetti centrali nella vita di fede sono aperti verso l’alto: fede, speranza, amore, cattolicità. Nel momento in cui lo capiremo, non saremo più chiusi entro i limiti, ma renderemo anche tangibile questa apertura. Io vorrei che la gente si muovesse verso questa apertura, in modo da scoprire cosa significa la fede, quale grande dono rappresenta. Di essa non dobbiamo aver paura, ma possiamo semplicemente viverla, nei giorni buoni e in quelli difficili.