Lumen gentium 12 è un testo conciliare molto ricco. Al suo interno non solo si parla del senso di fede, cioè di quel dono che tutti i cristiani hanno ricevuto dallo Spirito Santo e che consente loro di comprendere più pienamente la fede e di applicarla sempre meglio alla vita, ma anche dei carismi. Questi sono doni dello stesso Spirito che configurano in modo peculiare l’esperienza cristiana di ciascun credente. In altre parole, i carismi donano ad ogni discepolo del Signore un’identità precisa all’interno della Chiesa, che si differenzia da tutte le altre. Come insegna Paolo in 1Cor 12, la comunità ecclesiale è come un corpo dotato di molte membra, e i doni carismatici sono esattamente ciò che diversifica un membro dall’altro e gli consente di dare il proprio specifico contributo per il bene di tutto il corpo.
Queste semplici considerazioni sono il fondamento teologico della diversità dei credenti nella Chiesa. Certo, esiste una differenza tra le persone che è fondata sulle loro caratteristiche creaturali, come il genere, la personalità, l’età ecc. Vi sono però anche diversità fondate sulla grazia, cioè i carismi, che derivano da un’azione originale dello Spirito del Signore in ogni singolo credente. La molteplicità delle forme di vita cristiana, dunque, non deriva semplicemente dalle caratteristiche uniche di ogni essere umano volute dal Dio creatore, ma affonda le sue radici nello Spirito donato dal Risorto alla sua Chiesa.
Talora, però, ci si serve di questi principi teologici per giustificare qualunque singolarità presente nella Chiesa, come se ciascuna di esse potesse essere sempre ricondotta ai carismi personali e dunque alla volontà di Dio. In realtà, uno sguardo disincantato sul panorama ecclesiale, sia quello dei tempi passati sia quello dei nostri giorni, mostra che non è sempre così.
Alcune realtà ecclesiali, infatti, non si fondano su una base carismatica, in quanto non si pongono come un modo originale di vivere l’esperienza cristiana, che ne accentua alcuni aspetti a scapito di altri, e che dunque riconosce la legittimità e la necessità di altre modalità di vivere la stessa fede. Al contrario, vi sono realtà che nascono e si sviluppano sulla convinzione di rappresentare la forma migliore e più autentica dell’esperienza cristiana, e di costituire quindi il più efficace percorso di educazione alla fede.
Tale prospettiva, evidentemente più ispirata dall’orgoglio che dall’amore, riecheggia le pretese di grandiosità di alcuni membri della comunità di Corinto, a cui Paolo nella sua prima lettera ricorda che i carismi non sono per l’esaltazione personale ma per la costruzione del corpo ecclesiale, e che ciò che conferisce valore a ciascuno di essi è la carità, senza la quale non si è nulla (1Cor 12-13).
Ma come può nascere una realtà del genere nella Chiesa? In alcuni casi, la diversità rivendicata da singoli o da gruppi ecclesiali deriva semplicemente dalla personalità particolarmente forte di un leader, magari resa ulteriormente problematica da disturbi di tipo psicologico. Figure di questo tipo, infatti, hanno bisogno di esprimere il loro potere su altre persone, ma non accettano facilmente che altri abbiano autorità su di loro. Così essi possono dare vita a nuove realtà ecclesiali semplicemente perché non riescono ad integrarsi in nessun’altra comunità cristiana già esistente di cui non possano divenire i capi indiscussi.
Certo, nei credenti motivazioni del genere sono normalmente inconsapevoli, ma questo significa che si esprimono rivestite di argomentazioni pseudoteologiche che dovrebbero legittimarle sia agli occhi dell’interessato sia del più ampio contesto ecclesiale. Così, ad esempio, qualcuno potrebbe accusare la Chiesa di aver tradito il Vangelo, di aver perso di vista un aspetto fondamentale della vita cristiana, o semplicemente di non fare le cose sul serio, per giustificare la propria originalità come la risposta che è stato costretto a dare per affrontare questa situazione di pericolo.
E siccome il mondo è pieno di persone deboli che si sentono a loro agio quando qualcuno stabilisce la loro identità e dice loro cosa devono fare nella vita – lo dimostra la spaventosa diffusione delle sette! –, leader di questo genere possono arrivare ad aggregare intorno a sé molte persone, pure animate da un sincero desiderio di fare un cammino di fede.
Realtà ecclesiali di questo tipo, ovviamente, non riescono ad inserirsi all’interno di una parrocchia o di una Chiesa locale, a meno di non prenderne il controllo. Non avendo un vero carisma che consenta loro di offrire qualcosa di realmente spirituale agli altri credenti e di accogliere parimenti quanto viene donato da loro, sanno solo proporsi come alternativa a quanto esiste già. Dove arrivano, fanno terra bruciata di tutto il resto.
Certo, queste situazioni disgraziate, rese possibili da dinamiche psicologiche malsane ma anche dalla pavidità o dall’incapacità di quei pastori che avrebbero dovuto esercitare un sano e coraggioso discernimento nei loro confronti, restano comunque luogo dell’azione di Dio. Egli fa in modo che anche in questi contesti, come in molti altri ancora peggiori, possano nascere autentici percorsi di fede e storie di santità cristiana.
Ciò non toglie, però, il grave danno che realtà di questo genere procurano ai singoli e al tessuto ecclesiale. Le persone che vi aderiscono crescono, infatti, in un contesto di forte controllo e dipendenza esercitato dal leader o dai suoi epigoni che non favorisce la crescita libera e serena delle coscienze. Le parrocchie e le Chiese locali, da parte loro, vengono svalutate e sfidate sul piano della qualità dell’esperienza cristiana.
Si deve riconoscere, però, che nella pratica il discernimento di queste realtà ecclesiali è molto complesso, non solo per la difficoltà di capire se sono effettivamente fondate su un dono dello Spirito, ma anche per il fatto che possono arrivare ad aggregare molti individui. E quando, in un’organizzazione, un numero rilevante di persone milita sotto una qualsiasi bandiera, ha sempre un potere contrattuale molto alto, anche nella Chiesa.
Chi deve discernere la bontà di queste realtà molto numerose si può trovare nella situazione, non certo invidiabile, di dover dare un parere negativo, e quindi di dover portare il peso di un conflitto molto pesante e distruttivo, anche sul piano personale. Per questa ragione vi è sempre il rischio che un pastore finisca per adottare come criterio dirimente del discernimento quello del numero delle persone interessate: se sono molte e se non si danno obiettivi oggettivamente contrari alla fede o all’etica cristiana, si danno loro tutti i riconoscimenti richiesti.
Si potrebbe osservare che, di per sé, un pastore non dovrebbe lasciarsi intimidire dal conflitto che potrebbe nascere da queste situazioni complesse, e che chi ama il quieto vivere non deve pensare neppure lontanamente di poter esercitare un compito di presidenza nella Chiesa. In realtà, anche in questo campo nessuno può andare avanti da solo, anche perché non è indistruttibile. Solo una Chiesa locale nella sua completezza, in comunione con le altre Chiese attraverso i rispettivi vescovi e con il vescovo di Roma, se sceglie la via del dialogo e della sinodalità, può portare avanti con la serenità e la libertà necessarie un discernimento così complesso come quello relativo al carattere carismatico di una nuova realtà ecclesiale.