Devo confessare che già alle prime pagine del volume di Mario Costa Ebraismo e arte contemporanea, l’iniziale curiosità si è presto mutata in sconcerto, poi confermato e amplificato dalla lettura dell’intero volume, che ha lasciato dietro di sé un fastidioso strascico tra l’incredulità e l’imbarazzo. Eppure Mario Costa – leggo in quarta di copertina – è stato professore ordinario di Estetica, e ha al suo attivo numerose pubblicazioni dedicate alla storia dell’arte.
Come è possibile – mi sono chiesto – che, rivolgendosi a un tema talmente interessante come il rapporto tra ebraismo e arte contemporanea, egli mostri di essere guidato da linee pregiudiziali che, consapevolmente, rischiano di suscitare sospetti di antisemitismo? L’autore stesso infatti anticipa nell’introduzione che «questo libro potrebbe far gridare all’antisemitismo, ad un ritorno dell’entartete Kunst o della Addled Art; niente di tutto questo: gli ebrei mi sono perfettamente indifferenti» (p. 10). Perché e cosa significa questa excusatio non petita?
Vittime della proibizione mosaica?
La tesi principale del libro è riassunta dallo stesso autore. Dopo aver sostenuto che il principio mosaico circa il divieto di costruire immagini, «interpretato e sentito correttamente, annulla la nozione stessa dell’arte ed è servito a mantenere gli ebrei lontano da essa per tutto il corso della loro storia, fino al XIX secolo» (p. 51, nota 14), egli non si fa problemi ad asserire che «l’espressionismo astratto prima, e poi la pop art, l’arte povera, il nouveau réalisme, la body art, il minimalismo, l’arte concettuale, gli happenings, le arti performative e quelle interattive… vale a dire che è tutta la storia dell’arte contemporanea, quella che si consuma tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, che risponde, tutta quanta, alla esigenza ebraica di mantenersi al riparo dai divieti mosaici e di scansarli» (p. 158).
In questo calderone artistico che, stando alla ricostruzione di Costa, sarebbe interamente un prodotto dello «spirito ebraico», non poteva naturalmente mancare la mano occulta di un’Agenzia d’intelligence come la CIA (pp. 73-78), i lauti finanziamenti di magnati ebrei (pp. 9, 160, nota 6), il ruolo direttivo nella promozione ed esportazione da parte del MoMA e soprattutto del Jewish Museum di New York (pp. 9, 159-160).
A conclusione del volume l’autore ribadisce, con espressioni che a mio parere dovrebbero provocare nel lettore viva sorpresa ma soprattutto preoccupato sconcerto: «E dunque, la storia della cosiddetta arte contemporanea è stata quale il lavorio sotterraneo delle esigenze religiose ebraiche l’ha voluta» (p. 151).
Ma come può Costa portare avanti una tesi talmente riduttiva e allo stesso tempo estrema? Sostanzialmente utilizzando senza alcuna remora due strategie convergenti: mostrare che prima delle avanguardie novecentesche non esisteva un’arte ebraica; ridurre tutta l’arte moderna e contemporanea a un denominatore comune.
Confrontiamoci allora con le due colonne portanti della sua tesi.
Non contro l’arte ma contro l’idolatria
Secondo Costa, è evidente che un monito come quello presente nel libro della Sapienza – «Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte, e che chiamarono dèi i lavori di mani d’uomo, oro e argenti lavorati con arte e immagini di animali, oppure una pietra inutile, opera di mano antica» (13,10-19) – «se letto nel modo più rigoroso e radicale annulla il concetto stesso dell’arte occidentale» (p. 51, nota 14).
Sorprende alquanto una tale netta conclusione. In effetti tanto gli apologeti ebrei che cristiani, nel difendere il loro monoteismo dal paganesimo citavano il passaggio di Sapienza in funzione anti-idolatrica più che anti-artistica. La controversia teologica riguardava il garante della propria speranza, non tanto l’indirizzo estetico da prendere.
Tanto è vero che il cristianesimo mostrerà a partire dal III secolo un rigoglioso sviluppo dell’arte, ma – come vedremo subito – neppure l’ebraismo si astenne dalla rappresentazione artistica, nonostante la convinzione opposta di Costa.
Infatti l’autore continua imperterrito la sua lezione di storia della non-arte ebraica dichiarando, come già visto, che «questo principio, interpretato e sentito correttamente annulla la nozione stessa dell’arte ed è servito a mantenere gli ebrei lontano da essa per tutto il corso della loro storia, fino al XIX secolo» (p. 51, nota 14). Ribadisce, poi, che «nei fatti, fino al XIX secolo gli ebrei sono totalmente assenti nell’arte, e il problema neanche si pone» (p. 53).
Dinanzi a una tale affermazione sorge più che altro l’impressione che l’autore sia rimasto prigioniero del XIX secolo, periodo in cui in effetti non si aveva ancora piena consapevolezza delle ricchezze artistiche testimoniate dall’arte ebraica persino nei luoghi sacri.
Ci si dimentica allora le grandi scoperte delle sinagoghe di Dura Europos e Bet Alpha, per citare solo, tra molte altre, le due più rinomate sinagoghe dell’antichità venute alla luce nel XX secolo. Esse mostrano decorazioni artistiche con splendidi affreschi e mosaici riportanti episodi biblici e simboli caratteristici della devozione ebraica (palme, calici, candelabri, cedri), accompagnati però anche da figure tratte dal paganesimo coevo: zodiaco, carro solare, testa di Medusa, personificazione delle stagioni.
Ci si dimentica poi la lunga storia degli splendidi codici miniati, che ancor oggi possono essere ammirati per l’eleganza e varietà di stili: la Bibbia d’Alba, la Haggadah di Sarajevo, la Haggadah d’oro, il Siddur Hamilton ecc.
Secondo Costa, che a supporto cita artisti ebrei come Max Liebermann, William Rothenstein, Lesser Ury, tra gli artisti dell’Ottocento «un’arte ebraica appariva del tutto inesistente» (p. 54), dimenticandosi però di altri grandi nomi di artisti ebrei del tempo, come Maurycy Gottlieb, Samuel Hirszenberg, Ephraim Moses Lilien, e scordandosi che al Quinto Congresso sionista di Basilea (1901) Martin Buber poté dichiarare: «Il nostro più magnificente documento culturale è la nostra arte».
Ma l’errore di fondo che non permette di riconoscere i capolavori artistici del passato ebraico è presto detto: dato un particolare principio (il divieto biblico di rappresentazione), si ricava more geometrico un determinato risultato. Come se con un improvviso colpo di spugna potessero essere cancellate: le infinite interpretazioni e discussioni intorno ad esso; le molteplici concause che hanno influenzato un determinato decorso della storia, anche dell’arte; le costanti trasformazioni nello spazio e nel tempo delle incarnazioni dei princìpi fondamentali; le influenze ambientali di altre culture e religioni. Si vede solo il testo e sparisce ogni contesto; ci si ferma alla legge e non si vede più l’uomo vivente.
Solo l’arte astratta? Non è vero
Il denominatore comune che l’autore rinviene nell’arte contemporanea è da lui stesso presto annunciato: «È mia opinione che la storia dell’arte contemporanea sia stata nella sua genesi e nei suoi sviluppi, radicalmente determinata dal divieto mosaico, rivolto al popolo ebraico, di non confezionare immagini per evitare di incorrere nella idolatria» (p. 8). Così, come abbiamo già notato più sopra, ogni corrente artistica dell’avanguardia moderna è ricondotta al divieto mosaico.
A questo estremo riduzionismo ideologico si può naturalmente ancora obiettare l’assoluta e stupefacente mancanza di distinzione e di contestualizzazione.
Ma, oltre a queste già esiziali carenze, vorremmo in particolare sottolinearne una particolarmente grave. L’arte moderna e contemporanea ebraica viene ridotta a quella delle avanguardie, trascurando che molti artisti ebrei non solo non ne hanno fatto parte o le hanno interpretate in modo assolutamente personale (vedi come esempio di non poco conto colui che viene riconosciuto come esemplare per l’arte ebraica, ossia Marc Chagall), ma anzi si sono addirittura opposti ad esse, come nel caso del pittore americano Jack Levine (1915-2010) che fu tra i fondatori della rivista Reality: A Journal of Artists’ Opinions, avente quale programma specifico proprio la messa in guardia dalla fulminea ascesa dell’arte astratta.
La feconda e complessa storia dell’arte ebraica mostra infatti una pluralità di stili e di percorsi irriducibili a un unico sistema e soprattutto incompatibili con l’idea fissa di «un lavorio sotterraneo delle esigenze religiose ebraiche».
Concludo queste mie sintetiche note critiche, a cui potrebbero essere allegati molti altri rilievi, con un’ultima considerazione. Per quanto mi riguarda, a differenza dell’autore gli ebrei non mi sono affatto «perfettamente indifferenti»: tanto perché, da cristiano, li considero «fratelli maggiori» nella fede, ma ancor più perché da persona li riconosco fratelli nell’umanità.
- Enrico Riparelli è docente di Teologia delle religioni e dialogo interreligioso e di Interculturalità e religione all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Padova – Facoltà teologica del Triveneto.