Appuntamento a Ventotene. Invitati da Matteo Renzi, partecipano Angela Merkel e François Hollande. Le ombre di De Gasperi, Adenauer e Schuman si allungano su questo scarno scoglio delle isole Ponziane e si intrecciano con quelle di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, i tre prigionieri del fascismo che, nel remoto 1941, al culmine dell’espansione nazifascista, ebbero il coraggio, meglio la temerarietà, di scrivere che solo un’Europa Unita e democratica avrebbe potuto garantire ai popoli un avvenire di pace e di giustizia.
Ha fatto bene Renzi ad invitare e i suoi interlocutori ad accettarlo. Segno che condividono l’esigenza di una riflessione sul “da dove veniamo” in un momento in cui nessuno sa “dove stiamo andando”; e ciò, fondamentalmente, per la difficoltà che si incontra nello stabilire “chi siamo”.
Le “scritture” e il contesto
Rifarsi alle “scritture”, nel senso dei documenti fondativi, è indice di saggezza nelle situazioni critiche. Soprattutto da parte di coloro che hanno ostentato la voglia di azzerare il passato nel segno dell’avvento di un “nuovo” che non risponde all’appello.
Tuttavia leggere le “scritture” fuori contesto, cioè fuori dalla considerazione delle circostanze in cui furono prodotte e senza la considerazione della situazione che nel frattempo è maturata, potrebbe portare ad esiti di astrattezza e di sterilità.
Questa avvertenza non toglie nulla al valore della “visione” del Manifesto di Ventotene, anche quando ne coglie i limiti connessi alla cultura dell’epoca in cui fu pensato e ai dati d’analisi in cui fu costruito. Diversamente, si compie il rito dell’imbalsamazione di una… salma e non la rivisitazione, per l’oggi, di uno straordinario documento politico: si alimenta un mito e non un rilancio operativo.
Nazionalismi e totalitarismi
Di qui il suggerimento ai tre che si riuniscono a Ventotene di considerare come decisivo il cuore dell’analisi dei tre precursori. Che era sostanzialmente questo: i nazionalismi, come esaltazione delle prerogative assolute degli stati nazionali, hanno creato le premesse per l’avvento degli stati totalitari; e questi hanno imposto la loro volontà di potenza e di sopraffazione su quanti, popoli e individui, non si sono sottomessi. La seconda guerra mondiale con tutti i suoi orrori è nata da qui.
Per impedire che anche dopo la sconfitta del nazifascismo (gli autori erano persuasi di tale possibilità) si ricalchi l’ordinamento precedente, basato su nazioni militarmente, economicamente e culturalmente impermeabili, bisogna inventare qualcosa di nuovo e di inedito e cioè gli Stati Uniti d’Europa. Era il nucleo della suggestione: «costruire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spine dorsali dei regimi totalitari, abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federati le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli».
L’idea-madre del progetto
La speranza dei promotori era quella di veder nascere, attorno all’idea-madre del loro progetto, un impetuoso movimento che mobilitasse tutte le forze disponibili: e l’idea-madre era appunto il superamento degli stati nazionali e l’avvento dell’Europa come “una repubblica di repubbliche”. Modello americano, modello svizzero? Certamente una visione originale che bisognava realizzare con un approccio inedito, prendendo il meglio dei precedenti conosciuti.
Il “resto” del“manifesto”, specie quando si avventura nel censimento delle forze da coinvolgere, risente del clima dei rapporti all’interno della sinistra specie in ordine al giudizio da dare sull’affidabilità dei comunisti, legati anch’essi ad un modello totalitario e in più vincolati alla temibile disciplina staliniana, anche se considerati indispensabili al compimento del disegno.
Può essere una curiosità rilevare che non altrettanta attenzione veniva dedicata ad una componente popolare cattolica, sommariamente catalogata tra le forze di sostegno delle posizioni reazionarie, al seguito di una linea ecclesiastica ritenuta tutta omogenea con esse. Eppure anche i cattolici, con la guida di Luigi Sturzo, si erano avventurati sui sentieri della democrazia e avevano subìto la loro misura di vessazioni e di ostracismi, galera ed esilio compresi.
Frutto di pregiudizio o semplice sottovalutazione analitica? Sta di fatto che poi, al dunque, quando si cominciò a parlare di Europa, furono precisamente cattolici (Adenauer, Schuman e De Gasperi) i dirigenti che assunsero la guida del processo.
Né federalismo né gradualismo: perché?
Ma quale segno ha avuto il processo? Varrebbe la pena di prolungare il soggiorno a Ventotene per dedicare tempo e attenzione ad un esame critico dello svolgimento dell’europeismo, dalla sua impostazione induttiva (mettere insieme alcuni settori: carbone, acciaio, atomo) ad una visione comunitaria più larga (ancorché tutta mercantile) fino ai tentativi di varare un’architettura più solida (il Trattato dell’Unione sostenuto a fine Novecento dallo stesso Spinelli), alle vicissitudini del rapporto tra dimensione democratica (il Parlamento) e quella governativo-amministrativa-burocratica (Consiglio e Commissione).
Forse non occorre uno sforzo di fantasia per rendersi conto del fatto che non si è progredito né sulla strada della costruzione del modello federale né su quella dell’unificazione progressiva di poteri e responsabilità. Tant’è che sono stati bloccati gli impulsi a costituire una Comunità europea di Difesa e di varare un simulacro di Costituzione. Mentre l’unica realizzazione concreta – la moneta unica, l’euro – è rimasta appesa… al nulla, priva com’è di un centro politico univoco di riferimento, non avendo la Banca Centrale Europea prerogative di governo.
Se questo è il quadro, è doveroso interpellarsi, più che sulle responsabilità, sulla cause strutturali e politiche che hanno impedito che il processo europeo si sviluppasse o nel modo di Ventotene o nel modo gradualistico coltivato dagli statisti di ispirazione europeista. Né la “visione” né la “concretezza” hanno trainato il convoglio. Che ultimamente ha perduto un vagone importante, quello del Regno Unito, sempre malamente agganciato in coda.
Ecco. Qui il richiamo del “manifesto” suona come una provocazione: quanto del vecchio nazionalismo è rimasto in campo a sbarrare la strada non solo all’Europa federale ma anche ad ogni tentativo di andare al di là di uno status quo considerato immutabile? Spinelli, Rossi e Colorni forniscono un argomento da sottoporre ad esame: quello della connessione tra nazionalismo e totalitarismo. Un esame da compiere sulle manifestazioni e sui personaggi attuali del fenomeno, non su quelli dei primi decenni del secolo scorso. Mettere a fuoco le defezioni dalla convergenza europea (ma vale anche per i processi mondiali come quello dell’Onu) e indagarne le ragioni storiche e gli interessi contingenti è la premessa necessaria di un risultato costruttivo, oltre alla visita ad un’amena località marina, deturpata dalla memoria di un famigerato luogo di detenzione e illuminata da una profezia politica ancora vitale. Perché non attuata.