Vienna: l’accaduto e il linguaggio

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terrorismo

Quando e dove deve prendere le mosse il compito dell’inclusione, a cui non si è messo mano in precedenza? Forse già nel linguaggio? Vorrei raccogliere qui alcune impressioni sull’uso del linguaggio nel corso dei primi giorni dopo l’attentato del 2 novembre nel centro di Vienna.

Nella notte tra il 2 e il 3 novembre, in molti ambiti e interviste improvvisate, si è parlato dapprima di sgomento. Da parte dello stato e da quella delle autorità si è tenuto a sottolineare fermezza nel procedere contro il o i colpevoli. In queste parole si poteva cogliere la tensione fra la sottolineatura della serietà della situazione e il fatto di voler evitare il panico. La televisione pubblica si è impegnata a scegliere con dovuta misura cosa mostrare e cosa dire, lasciando fuori ciò che avrebbe superato la soglia del pudore.

In questa scelta, non sembrano esserci solo ragioni legate a una cooperazione con le autorità che stavano svolgendo le indagini, ma anche motivi di ethos giornalistico. Ben altra la scelta è stata fatta dalle televisioni private che, nelle loro trasmissioni, hanno superato la linea di demarcazione.

Modelli per l’avvenuto

Accanto alle informazioni sull’accaduto, già fin dalle prime ore si sono delineati due tentativi di contestualizzazione. Si cercavano modelli per l’incomprensibile. Da un lato, si accostava rapidamente in maniera analogica quanto successo a Vienna con quello che era accaduto in altre città europee negli ultimi anni. Data la prossimità così immediata coi fatti, non sarebbe stato forse opportuno attendere prima di mettere mano a questo tipo di comparazioni?

Oppure non si trattava tanto di conoscere, quanto piuttosto della ricerca di forme di comunanza emotiva e di solidarietà internazionale? Ma se già la pandemia e la crisi dei rifugiati mostrano quanto poco siano solidali tra di loro i paesi europei, vogliamo poi essere solidali e uniti nella crisi terroristica con Parigi e Londra…

L’altra linea narrativa è stata quella di mettere in connessione quanto accaduto la sera del 2 novembre con gli atti terroristici compiuti in Austria nei decenni passati (in particolare negli anni ’80 del XX secolo). Dietro questo mi sembra ci sia il tentativo di non alimentare il mito della singolarità dell’accaduto. Ma questo tentativo ha avuto anche esiti diversi dall’inteso.

Sia il ministro degli interni Nehammer, sia il presidente federale Van der Bellen, hanno evitato di presentare quanto accaduto al singolare e al superlativo. Nel suo discorso, il presidente ha sì affermato che l’attentato, «nella sua portata e nel suo freddo disprezzo degli esseri umani, è stato il peggiore della nostra storia recente» – ma ha evitato di caratterizzarlo come il peggior attentato di sempre. Nella conferenza stampa delle sei di mattina del 3 di novembre, il ministro dell’interno ha parlato di una «situazione che l’Austria non conosceva da decenni». Frase che è stata però resa dai media nei seguenti termini: «Si tratta di una situazione che l’Austria non ha mai conosciuto – così afferma il ministro dell’interno Nehammer».

Con questa escalation verso il superlativo si consegna a un omicidio brutale, forse opera di un singolo attentatore, il potere su tutta la storia del paese. Ed è proprio così che quanto accaduto ottiene quella risonanza che voleva avere.

Dualismo manicheo

Non di rado il linguaggio che si è potuto ascoltare quella notte aveva un carattere marziale. Alla mattina presto Angela Merkel ha affermato che «il terrorismo islamico è il nostro nemico comune. La lotta contro questi assassini e i loro sostenitori è la nostra battaglia comune». Questa dichiarazione della cancelliera tedesca può essere considerata paradigmatica di molte altre, anche se con lo scorrere del tempo il tono è stato leggermente affievolito passando collettivamente al tema dell’odio – sostanzialmente in una sua continua ripetizione, come ha notato l’esperto di comunicazione mediatica Martin Gselmann: si è parlato molto di «odio», «nemico», «lotta», «terrorismo».

In tutto questo, l’attentatore è stato del tutto marginale facendo dell’odio il nemico comune da cui si doveva prendere le distanze per ciò che concerne il fondamento della società. Si poteva infatti sentire più volte il leitmotiv «voi non sarete i destinatari del nostro odio».

La vulnerabilità dello spazio pubblico

In una dichiarazione ufficiale il presidente austriaco Alexander Van der Bellen ha detto: «l’odio non cade su un terreno fertile nella nostra società. Il terrorismo vuole diffondere insicurezza e conflitto, non ci lasceremo infettare da questo odio. Proteggeremo noi stessi e i nostri valori (…). L’odio non può essere mai forte come la nostra società vissuta in libertà, democrazia, tolleranza e nell’amore».

Dopo tutte le affermazioni di risolutezza e dopo che si sono prese le distanze dall’odio, non avrebbe dovuto esserci però una fase in cui si sarebbe dovuto portare alla parola con coraggio anche la vulnerabilità della nostra società e la fragilità dello spazio pubblico? «Non daremo spazio all’odio» (Sebastian Kurz, cancelliere federale) – parole come queste non possono ultimamente assicurare che l’odio non faccia suo questo spazio.

Lo spazio pubblico, se esso rimane aperto a una pluralità di modi di usarlo ed è liberamente accessibile da tutti, non sarà mai completamente sicuro davanti alla violenza e al terrorismo. Soprattutto i luoghi più belli e carichi di storia di una città, con i suoi vicoli intricati, sono particolarmente esposti a ciò.

La preghiera discreta

Non avrebbe dovuto esserci una fase in cui noi, guardando al futuro, ci fossimo messi in cerca di un linguaggio capace di inclusione, libero dai dualismi che si trovano nelle immagini della lotta contro il nemico?

In questa direzione va, a mio avviso, una bella dichiarazione del presidente della Conferenza delle comunità religiose austriache: «se fosse possibile, chiediamo di lasciare aperte da domattina le porte delle chiese nel centro della città. Noi siamo per una Vienna aperta, che non ha timore ma si stringe insieme. Nella preghiera o nel ricordo ci uniamo tra di noi più di quanto l’odio possa dividerci». Anche se qui, alla fine, si è dovuto fare menzione dell’odio, questa espressione ha qualcosa di confortevolmente umano. Accanto a tutta la risolutezza e decisione che si sono ascoltate nelle ore immediatamente seguenti l’attacco terrorista, si può parlare qui al condizionale «se fosse possibile…».

Prima dell’imperativo («noi siamo per…»), che afferma una posizione comune, si può ascoltare una preghiera, una domanda. Alla «preghiera», quale azione connotata religiosamente tipica del monachesimo, si affianca un «ricordo» in grado di ospitare le forme secolari del vivere e del sentire.

Forse, non possono essere queste frasi discrete e sommesse a rappresentare un passo verso un linguaggio dell’inclusione?

Nostra traduzione dal tedesco nel quadro della collaborazione con il Blog del Centro di Ricerca Religione e Trasformazione nella Società Contemporanea dell’Università di Vienna (originale tedesco, qui).

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