In questi mesi in cui la Chiesa celebra la liturgia secondo le disposizioni anti-contagio, si è sollevata a partire da diverse voci, la necessità di ripristinare il cosiddetto scambio liturgico della pace: alcuni hanno saggiamente proposto lo “sguardo di pace”, evitando così il contatto delle mani tra i fedeli, senza smarrire la profondità liturgica e spirituale del gesto.
In effetti da come preghiamo possiamo ricavare come crediamo. Una liturgia priva di espressione e contatto corporeo rischia di cedere il passo a un cristianesimo senza carne – ripiegato sul piano “spirituale” e talora esclusivamente mentale. Gesù Cristo stesso abitando la nostra umanità si è continuamente relazionato ai discepoli, alle folle e ai suoi cari attraverso il suo corpo formato da emozioni, sentimenti e gesti.
I Vangeli, infatti, riportano questa dinamica corporale e sensoriale tipica delle relazioni costruite da Gesù, perché la sua salvezza non si rinchiudesse nell’ambito ultra-mondano, ma si immischiasse nella polvere e nella bellezza della carne umana. Ad esempio ricordiamo quando “guardò e amò” il giovane ricco (Mc 10,2), la compassione con cui guardò la vedova di Nain che aveva perso il suo unico figlio (Lc 7,13), la profondità con cui vide e chiamò Levi a seguirlo (Lc 5,27) e lo sguardo misericordioso che rivolge a Pietro dopo il rinnegamento (Lc 22,61).
Recuperare la bellezza dello sguardo non costituisce per la Chiesa – ai tempi del Covid-19 – un semplice espediente liturgico, nemmeno la bravura di mettere un pezzo di stoffa nuova su un vestito vecchio (Mt 9,16). Si tratta piuttosto di afferrare una possibilità inedita che questa crisi ci consegna: scoprirsi guardati dall’Amore, per guardarci con amore. Lo sguardo infatti svela – in maniera così s-facciata – i sentimenti inespressi o rimossi, la fragilità che temiamo di condividere, gli errori di cui ci vergogniamo.
Lo sguardo ci rivela, ci consegna all’altro nella verità di noi stessi: siamo volti ri-volti. Essendo gli occhi come finestre, che mentre fanno scorgere quello che siamo dentro, ci permettono di accedere all’incontro con l’altro e con la realtà. Già S. Weil aveva colto nel segno questa bellezza dello sguardo quando scrisse: «una delle verità fondamentali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti, è che lo sguardo è ciò che salva»[1].
La Chiesa potrebbe accogliere con creatività la sfida dello sguardo che questo tempo le offre: tralasciando le priorità ormai disintegrate dalla pandemia e disinnescando percorsi e momenti di cura. Deludente agli occhi di Dio e dell’umanità assetata di affetto sarebbe una Chiesa che si ostinasse a ritornare “come prima”, nell’ammalata normalità di una frenesia talmente mondana da allontanare le persone.
Una Chiesa che recupera il coraggio dello sguardo è disposta a perdere tempo e a “contare” di meno agli occhi del mondo, per incontrare – senza paura o rigidità – l’unicità di ogni vita che lo sguardo dischiude. La cura dello sguardo libera dai pregiudizi e apre al calore umano: perché non avviare nelle nostre comunità veri e propri spazi/luoghi di silenzio in cui riscoprire la gioia di curarsi anche solo con lo sguardo, senza l’eccesso delle proposte formative o l’attivismo sregolato.
Qualche mese fa, incontrando un gruppo di fidanzati in cammino verso il matrimonio, li invitai a sedersi uno di fronte all’altra, per guardarsi in silenzio: quante parole ho sentito, quanto dolore ho provato, quante lacrime ho intravisto, quanto amore mi ha raggiunto. «La cura che propongo è la cura dello sguardo. Sono convinto che molte malattie entrino dagli occhi e dalle parole. Le cose che ci sono state dette, gli sguardi che abbiamo subito, sono anche più potenti di agenti patogeni esterni che possono transitare nell’aria e nel cibo»[2].
[1] Simone Weil, Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, Milano 2008, 149
[2] F. Arminio, La Cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica, Bompiani, Milano 2020, 39.