Lettera aperta a tutto il personale del Centro servizi Ca’ Arnaldi, Noventa Vicentina (VI), e a chiunque abbia intenzione di lasciarsi coinvolgere.
20 ottobre 2020
Oggi abbiamo una visita fissata nella mattinata per incontrare il papi. Mentre mio fratello, mia sorella e io siamo in viaggio per arrivare da lui, mi viene in mente una cosa: sono passati esattamente otto mesi dall’ultima volta che ho potuto stargli vicino, spingere la sua carrozzina, prendere le sue mani, abbracciarlo. Era il 20 febbraio di quest’anno, il giorno precedente alla scoperta del primo caso accertato di positività al coronavirus in Veneto. Otto lunghissimi mesi.
Oggi è davvero un buon momento per il papi. La sua malattia è fluttuante: in altri incontri è capitato di trovarlo molto assopito (anche addormentato), a volte non siamo sicuri che ci abbia riconosciuto perché la distanza di tre metri e la mascherina, i suoi problemi di percezione e il suo disturbo visivo, la sua patologia neurodegenerativa in fase avanzata (demenza a corpi di Lewy), il deterioramento cognitivo e la sua difficoltà a mantenere l’attenzione rendono difficile la relazione con lui in queste modalità.
Ma oggi è chiaro che subito ci riconosce: si illumina il viso quando ci vede! Una grande emozione: arrivano al cuore le sue parole, anche perché è sempre più difficile che riesca ad esprimersi verbalmente. In questo lungo periodo ha perso molto sul fronte del linguaggio: è comprensibile, quando viene a mancare lo stimolo forte di comunicare con le persone importanti…
Quello che ripetutamente ci dice oggi è “Vieni qua”. Allungando la sua mano verso di noi chiede la nostra mano, la vicinanza, il contatto, ci invita ad usare quel linguaggio che ora per lui è diventato più importante delle stesse parole. È proprio per questo che, nonostante i nostri tentativi, non abbiamo modo di fargli comprendere le motivazioni per cui non è permesso avvicinarci. Quello che possiamo dirgli in tutta onestà è che, pur con la mascherina, pur con tutte queste limitazioni difficili da spiegare e far comprendere, ogni volta che ci sarà permesso, noi ci saremo. Perché anche noi abbiamo bisogno di stare con lui.
Non vorrei, ma mi scendono le lacrime e non riesco a fermarle, per tutto il tempo che possiamo stare insieme: riesco però a parlargli comunque con serenità, perché so che è importante anche il modo in cui gli parlo, perché non voglio che abbia la mia tristezza e desidero invece, per quanto mi è possibile esprimere, che gli arrivi la mia gioia di vederlo.
Anche oggi, come è successo altre volte, devo lottare contro il forte impulso di alzarmi, correre verso il papi e abbracciarlo forte, finché mi sarà permesso. Perché possa capire che noi che lo amiamo non abbiamo mai avuto intenzione di abbandonarlo, che questa separazione fa tanto male anche a noi, che siamo sempre stati, siamo ancora e sempre saremo con lui, per tutto il tempo che ci è dato da condividere.
Visitare gli anziani
Quando ho iniziato a scrivere questa lettera, non era ancora arrivato l’ultimo dpcm che prevede nuovamente la chiusura delle visite ai familiari nelle strutture che accolgono anziani. Scrivevo, allora, per chiedere di trovare una modalità diversa per gli incontri con i familiari, nella consapevolezza che non rispondono al bisogno e al diritto fondamentale di ciascun ospite di relazionarsi con i propri cari.
Riconosco il grande impegno dei responsabili e del personale delle strutture per permettere le visite con i familiari e le molte risorse messe in campo per garantire almeno questa forma di incontro. Ma basta a pensare ad una persona con demenza o con altre patologie neurodegenerative…, le visite in questa modalità a volte diventano una sottile forma di tortura, per loro e per noi familiari. Non abbiamo la possibilità di spiegare a parole le motivazioni di questa distanza, non è il linguaggio verbale che può essere compreso.
Ci è chiesto di stare a guardare, inchiodati alla sedia e alla nostra impotenza, prima a tre metri di distanza, ora, peggio ancora, attraverso lo schermo in videochiamata, assistendo al lento spegnersi di chi amiamo. Perché questi sono gli effetti della solitudine, dell’isolamento e del vissuto di abbandono che sperimentano gli anziani reclusi. Li vediamo sempre più debilitati, sempre meno in grado di capire la situazione, smarriti per la distanza fisica che dobbiamo tenere tra noi: perché sappiamo bene che l’aspetto psicologico ed emotivo influisce non poco sullo stato di salute fisica.
Spero di non essere in alcun modo fraintesa. Non sto sottovalutando il grande lavoro svolto dai centri che accolgono le persone anziane e riconosco che voi state portando il peso di una situazione insostenibile. Anzi. Tutto quello che sento la necessità di dire parte da una premessa: un grande rispetto e una profonda riconoscenza verso tutto il personale delle strutture che sono state e continuano ad essere a fianco dei nostri cari in questo periodo di emergenza.
Tante volte penso a quanto è cambiato il vostro modo di lavorare e quanto maggiore è lo sforzo che vi viene richiesto, la pressione che dovete gestire quotidianamente, la responsabilità che vi assumete ogni giorno. Tanta gratitudine nei vostri confronti.
Isolamento e gentilezza
Voi siete le sole persone che hanno la possibilità di avere un contatto con i nostri familiari, solo voi avete la possibilità di regalare magari una carezza, un atto di gentilezza, una parola di speranza… Voi avete sotto gli occhi ogni giorno gli effetti di questo isolamento.
Siamo d’accordo che spesso sono le patologie stesse di cui soffrono gli ospiti ad essere degenerative e quindi il peggioramento di questi mesi è senz’altro dovuto anche alla loro naturale evoluzione. Ma penso che nessuno possa negare che i grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi lunghi mesi stanno segnando indelebilmente queste persone. La mancanza di un rapporto continuativo ed effettivo con i familiari, lo sconvolgimento della routine quotidiana, la mancanza delle molte attività relazionali e di svago che riempivano le giornate… tutto questo non è indifferente. E penso che ce ne rendiamo conto noi familiari, ma ancor di più voi tutti, operatori e personale sanitario che siete quotidianamente al loro fianco.
Capisco che, visto l’aggravarsi della situazione attuale rispetto a questa pandemia, può sembrare follia avanzare una richiesta di questo tipo. Non sono ingenua, non nego la situazione di alto rischio e il pericolo che corrono le persone portatrici di grande fragilità, come gli anziani che vivono in una struttura.
Ho seguito e seguo con partecipazione e con sofferenza le vicende delle molte case di riposo in cui si è diffuso il contagio: conosco il dramma di molti ospiti che sono morti soli e lo strazio delle famiglie che non hanno potuto condividere gli ultimi momenti di vita del proprio caro. Ho vissuto queste notizie con la consapevolezza che sarebbe potuto capitare anche a noi, anzi che ancora potrebbe succedere.
Penso che sia doveroso impegnarsi per cercare soluzioni che possano garantire il bisogno di protezione e, nello stesso tempo, il rispetto del diritto di non essere lasciati soli. Mi risulta difficile pensare che, soprattutto con le modalità messe in atto, possiamo essere stati noi familiari il veicolo di contagio per gli ospiti: siamo stati controllati ad ogni ingresso con la misurazione della temperatura e l’igienizzazione delle mani, siamo rimasti a distanza di tre metri e con la mascherina sempre indossata, il tempo che abbiamo avuto a disposizione è stato limitato…
Mi spingo più in là. Non sarebbe possibile entrare con l’esito negativo e recente di un tampone? Non sarebbe forse la stessa procedura a cui siete sottoposti anche voi operatori che potete avvicinarvi e toccare i nostri cari?
Protezione e seclusione
È evidente che c’è la necessità di proteggere i nostri anziani da questo virus, ma se li priviamo delle relazioni significative stiamo togliendo loro il senso del vivere. Stiamo decidendo per loro una morte più lenta: la morte delle emozioni, la spoliazione della loro storia, la privazione radicale di ciò che è essenziale e riempie di significato la quotidianità. Non hanno forse già perso abbastanza? E noi familiari con loro? Lasciamogli la dignità di preservare frammenti della loro identità, nel limite concesso dalle loro stesse patologie. Siamo noi che possiamo essere la loro memoria del cuore, noi che li amiamo possiamo ancora toccare le corde del loro mondo emotivo perché possa vibrare e restituirci, amplificata, la gioia del semplice esserci uno accanto all’altro.
Comprendo benissimo che le singole strutture non abbiano molti margini di autonomia e ci sia la necessità di adeguarsi alle normative nazionali e regionali. Capisco anche che non ci sono risposte semplici a portata di mano, ma questo non significa che le domande fondamentali che abbiamo davanti non esigano comunque il coraggio di risposte che veramente tengano conto di ogni aspetto della situazione.
Non penso che una soluzione possa arrivare se non attraverso un percorso condiviso, attento e rispettoso di ogni punto di vista: quello degli anziani fragili, tanto quanto quello del personale medico, sanitario e assistenziale, quello dei familiari tanto quanto quello di chi si occupa di politica e quindi, si spera, del bene comune, quello del personale delle strutture tanto quanto quello degli specialisti del settore…
Penso che chi ha la responsabilità di prendere decisioni dovrebbe farlo mettendosi nei panni di chi è toccato direttamente da questi provvedimenti. Provate a pensare di avere in questa situazione vostro padre o vostra madre, di avere un fratello, uno zio, vostra moglie o vostro marito, un amico carissimo… Provate a pensare di essere voi domani in questa situazione paradossale. Forse qualcosa potrebbe cambiare. Ricordate però che non sarà comunque come viverlo davvero.
E vado oltre: di fronte a chiunque si trovi a vivere una situazione del genere, che sia una persona cara oppure uno sconosciuto, credo che dovremmo provare una profonda indignazione e custodire la capacità di schierarci dalla loro parte. Perché questo è soltanto un atto di umanità. Francamente è sconvolgente rendersi conto che spesso ci sono altri interessi e altre priorità a muovere l’ago della bilancia sul piano delle scelte che contano e che l’attenzione è spostata su altro. Basta davvero poco per capire che non c’è la stessa attenzione, lo stesso impegno riservato ad altre situazioni nel cercare di trovare una soluzione accettabile quando si parla di persone fragili, come gli anziani o le persone con disabilità…
Insieme per politiche diverse
Eppure qui stiamo parlando di restituire l’essenziale che è stato tolto. Eppure stiamo parlando di persone che già sopportano il peso di patologie devastanti, alcuni di loro è presumibile pensare che non avranno davanti molti anni o mesi oppure giorni: chi ci potrà restituire questo tempo di separazione forzata? Per quanto ancora dovremo rinunciare all’essenziale?
Di fronte alle ultime direttive contenute nel decreto, è evidente la difficoltà delle singole strutture di assumere una posizione diversa. Però penso che possiamo unire le nostre voci e farci sentire, portare tutti questi aspetti sul tavolo delle discussioni che contano, fare in modo che non siano ignorati elementi importanti di valutazione. Possiamo, se lo facciamo insieme. È la forza di condividere e lottare per ciò che conta davvero. Un singola voce non ha nessuna possibilità. Ma più voci insieme possono diventare un coro che può “cantare” anche per chi non ha più la possibilità di farsi sentire.
Io lo sento il grido silenzioso del papi, lo percepisco ogni volta che contemplo il suo volto, che porta impressi i segni della sua sofferenza: è un grido che non fa rumore, eppure per me diventa assordante. È un grido che mi chiede di rompere il silenzio e far sì che, attraverso la mia voce, possa finalmente esprimersi e trovare ascolto.
Questa lettera aperta vuole essere il suo grido e quello di chi, come lui, si trova a vivere nelle stesse condizioni.
Penso che sia umano avere paura, ma se la paura blocca la vita, allora bisogna trovare il coraggio per andare oltre. Perché sopravvivere non è abbastanza. Per nessuno. Perché, se non è garantito e rispettato il diritto alla vita, che è per sua natura essenzialmente relazione, se non ci impegniamo con gesti concreti ad affermare che la salute non è soltanto assenza di malattia o di un contagio, ma riguarda il benessere fisico, psichico, affettivo, emotivo e sociale della persona e la sua qualità della vita, se non siamo pronti a lottare perché ciò che è essenziale venga garantito a tutti, a partire proprio dalle persone più fragili, allora penso che stiamo mettendo a rischio non soltanto la nostra salute, ma la nostra stessa umanità. Che cosa ci resterà?