Siamo in una villa di campagna dell’alta borghesia di una grande città del terzo mondo, una di quelle metropoli dove la miseria si accompagna allo spreco più sfacciato.
Al termine della festa per il ventesimo compleanno della figlia – brillante studentessa universitaria – i genitori ordinano ai due domestici di sistemare la sala.
Ecco la sorpresa: sui tavoli è avanzata un’enorme quantità di carne, riso, patatine fritte, torte, pasticcini.
Che ne facciamo di tutta questa roba? – chiede imbarazzato il marito. La moglie, che sta portando in cucina un vassoio colmo di bicchieri da lavare, si ferma un istante, sorpresa, poi, come chi si rendesse conto in ritardo dell’errore commesso, soggiunge: “Abbiamo invitato le persone sbagliate: gente che non aveva fame”.
Abbiamo paura di lasciarci avvicinare da chi ha fame, temiamo che possa impoverirci. Eppure la festa della nostra vita potrebbe concludersi in modo deludente: potremmo ritrovarci con quei beni che il Signore ci aveva dato affinché con essi potessimo “sfamare” i suoi poveri.
“Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!” – esclama l’angelo dell’Apocalisse (Ap 19,9). Ma a quella festa potrà partecipare solo chi si è privato di tutto per donarlo a chi aveva fame.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il povero bussa alla mia porta per offrirmi un’opportunità di provare la gioia di Dio”.
Prima Lettura (Sir 3,17-20.28-29)
17 Figlio, nella tua attività sii modesto,
sarai amato dall’uomo gradito a Dio.
18 Quanto più sei grande, tanto più umìliati;
così troverai grazia davanti al Signore;
19 perché grande è la potenza del Signore
20 e dagli umili egli è glorificato.
28 Una mente saggia medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
29 L’acqua spegne un fuoco acceso,
l’elemosina espia i peccati.
Per essere umili è forse necessario ricercare il disprezzo degli altri? Non sarebbe saggio, non avrebbe senso. Questo atteggiamento non attirerebbe – come invece assicura il Siracide – l’amore degli uomini e la benevolenza di Dio.
Qual è allora il comportamento che attira la simpatia degli uomini ed il favore del Signore? In che modo gli umili gli rendono “gloria”? (v.20).
Basta una rapida verifica, una semplice introspezione per rendersi conto che tutto ciò che siamo è un regalo di Dio. Da lui provengono la vita, la bellezza, la forza, l’intelligenza, le qualità che abbiamo. Nulla è nostro, di nulla ci possiamo vantare.
Non è malvagio, è soltanto ridicolo chi fa sfoggio dei doni di Dio come se fossero suoi. È insensato chi ostenta le qualità che ha ricevuto per confrontarsi e per imporsi agli altri. I doni di Dio sono stati dati affinché di essi facciamo dono ai fratelli.
Umile è colui che – ben cosciente delle proprie doti, attitudini, capacità – si mette a servizio di tutti, considera gli altri come padroni che gli possono chiedere aiuto quando sono nel bisogno.
L’umile mantiene il capo chino, come chi è sempre pronto a ricevere ordini dai superiori. “Glorifica” Dio, perché ciò che dà “gloria” a Dio è la gioia dell’uomo.
È l’umile che instaura rapporti che rendono felici, che pone fine all’egoismo, alla competizione, all’ostentazione e introduce nel mondo il principio nuovo dello scambio gratuito dei doni di Dio.
È in questo senso che Gesù si è autodefinito “mite ed umile di cuore” (Mt 11,29): ha donato senza riserve tutto se stesso per amore.
Seconda Lettura (Eb 12,18-19.22-24a)
Fratelli, 18 voi non vi siete accostati a un luogo tangibile e a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, 19 né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano che Dio non rivolgesse più a loro la parola;
22 Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa 23 e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, 24 al Mediatore della Nuova Alleanza.
Gli Ebrei che si erano convertiti al cristianesimo continuavano ad avere una certa nostalgia della religione dei loro padri. L’autore della lettera cerca di illuminarli facendo un confronto fra la religione antica, rappresentata dal monte Sinai e la religione cristiana, che ha per simbolo la nuova Gerusalemme.
Cosa è accaduto sul Sinai? Ci furono lingue di fuoco, tuoni, oscurità, tenebre. Di fronte ad un simile spettacolo, il popolo ebbe paura e chiese a Mosè che fosse lui a parlare e non il Signore (vv.18-19). Come si può avere nostalgia di un Dio che non può essere avvicinato se non attraverso intermediari?
I cristiani – continua la lettura – non si avvicinarono al monte Sinai, per fare esperienze terrificanti di Dio (v.22). Essi si avvicinano a Cristo. L’esperienza religiosa che fanno è completamente diversa: è quella della festa perché in Gesù scoprono il volto del Dio amico degli uomini (v.23-24). Nell’AT vi erano tanti mediatori fra il Signore ed il popolo: i sommi sacerdoti, i leviti, il sinedrio, gli anziani. Oggi i cristiani sanno di potersi rivolgere direttamente al Padre, senza alcuna riserva o paura. L’unico mediatore è Cristo il quale non cerca servi, ma amici (Gv 15,15).
Vangelo (Lc 14,1.7-14)
1 Un sabato Gesù era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo.
7 Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: 8 “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te 9 e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10 Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.
11 Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
12 Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. 13 Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
In Israele il pranzo del sabato non si riduceva a una semplice refezione, era un convito dove si ritrovavano parenti e amici che conversavano sui più svariati argomenti. Si discorreva di lavoro, di politica, di problemi familiari e sociali. I temi religiosi, teologici e morali venivano trattati soprattutto quando un rabbino era fra gli ospiti. I maestri e i dottori approfittavano di questi banchetti per esporre le loro dottrine. Anche Gesù ha dato molti dei suoi insegnamenti a tavola (Lc 5,29; 7,36; 9,17; 10,38; 11,37; 14; 19,1; 22,7-38).
Il brano di oggi va collocato in questo contesto di simposio festivo. Siamo nella casa di un fariseo, al termine della liturgia nella sinagoga e Gesù è fra gli invitati (v.1).
A tavola non ci si siede come capita, bisogna attenersi a una rigida etichetta, ci sono gerarchie da rispettare. I posti vengono assegnati con molta attenzione: al centro le persone di riguardo, accanto a loro il padrone di casa e poi via via tutti gli altri, disposti ai tavoli in considerazione della loro posizione sociale, della funzione religiosa che svolgono, della ricchezza che possiedono, dell’età. Gesù accompagna con il suo sguardo distaccato e anche un po’ divertito la distribuzione dei posti fatta da uno dei domestici, osserva l’imbarazzo di chi, magari inavvertitamente, si è portato un po’ troppo avanti e deve arretrare di alcune posizioni, vede il compiacimento malcelato di chi si schermisce, ma alla fine acconsente ad occupare un posto più centrale e prestigioso; nota gli atteggiamenti impacciati, i rossori, le goffaggini. Introduce una prima parabola (vv.7-11).
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto… va all’ultimo, perché, venendo colui che ti ha invitato ti dica: amico, passa più avanti! Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”.
Questo invito alla furbizia stona parecchio sulla bocca di Gesù. È strano che egli si abbassi a suggerire un trucco tanto meschino per avere successo in pubblico e per compiacere la vanità. Inoltre il proverbio che cita è ben noto in Israele perché si trova nella Bibbia: “Non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: sali quassù!, piuttosto che essere umiliato davanti ad un superiore” (Prv 25,6-7). Rabbi Simeon, un contemporaneo degli apostoli, raccomandava al suo discepolo: “Sta sotto di due o tre posti rispetto quello che ti spetta e attendi che ti si dica: ‘Sali più su!’… È meglio infatti sentirti dire: ‘Sali più su! Sali più su!’, piuttosto che ‘Scendi più giù! Scendi più giù!”. Gesù dunque non fa che richiamare una prassi raccomandata da tutti.
È vero, le parole sono le stesse, ma il contenuto è diverso. Gesù non ha alcuna intenzione di rendere scaltri i suoi discepoli. Non si è mai mostrato interessato a far loro ottenere successi nella vita. Quando essi lasciavano trasparire l’ambizione dei primi posti, li riprendeva sempre con severità (Mc 9,33-37). Proibiva persino l’uso dei titoli onorifici (Mt 23,8-10), non tollerava le “divise” che consacrano e sacralizzano le caste, faceva dell’ironia sugli scribi “che amano passeggiare in lunghe vesti ed hanno piacere di essere salutati nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti” (Lc 20,46). Sulla sua bocca il proverbio non ha dunque lo scopo di insegnare una tattica per affermarsi. Vediamo di capire.
Se rileggiamo con attenzione il brano, verifichiamo che una parola ricorre più spesso delle altre (ben cinque volte!): è invitato-invitati. Il termine greco del testo originale andrebbe però tradotto con chiamato-chiamati. È ai chiamati che ambiscono ai primi posti che Gesù intende rivolgersi. Vanno dunque identificati.
Notiamo un secondo dettaglio: il modo con cui Gesù prende la parola è per lo meno sorprendente. Non è così che si interviene in casa d’altri. Egli non parla come un ospite, ma come se fosse il padrone.
Bastano queste due semplici osservazioni per farci intuire che la cena di Gesù in terra palestinese è una cornice artificiale. Luca se ne serve per porre sulla bocca del Signore una lezione ai chiamati, cioè ai cristiani delle sue comunità. È in queste comunità che, sempre più spesso, esplodono dissensi e dissapori per questioni di precedenze. I presbiteri, i responsabili dei vari ministeri si lasciano prendere dalla smania di occupare i “primi posti”. È l’eterno problema della Chiesa: tutti dovrebbero servire, ma, in pratica, c’è sempre chi aspira a titoli onorifici, vuole primeggiare, si gonfia di orgoglio e giunge a trasformare perfino l’eucaristia in un’occasione di auto-celebrazione. Ecco il cancro che distrugge le nostre comunità!.
Gesù sapeva quante tensioni sarebbero sorte fra i suoi discepoli a causa della frenesia per i primi posti, per questo, durante l’ultima cena, ha voluto richiamare di nuovo la lezione. Voleva che rimanesse impressa nella mente di tutti come il suo testamento: “Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,26-27).
Gesù non chiede – come faceva rabbi Simeon – di arretrare di due o tre posti, ma di capovolgere le posizioni, di rovesciare la scala dei valori. Solo chi sceglie, come ha fatto lui, il posto del servo, verrà esaltato durante l’unico banchetto che conta, quello del regno di Dio. Per chi in terra ha fatto sfoggio di vanità, ha ricevuto inchini e onori, quel momento sarà drammatico: si vedrà relegare all’ultimo posto, segno del fallimento della sua vita, dimostrazione che i valori su cui ha puntato erano effimeri e caduchi.
Dopo aver raccontato la parabola, Gesù si rivolge al fariseo che l’ha invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini…” (v.12). Non direi che il clima che si è creato a tavola sia dei migliori: Gesù se la sta prendendo un po’ con tutti. Che colpa ne ha quel povero fariseo se in Israele la tradizione impone di invitare solo quattro categorie di persone: gli amici, i fratelli, i parenti, i ricchi vicini? È forse conveniente mettere insieme un dottore della legge con un pastore ignorante o un fariseo con un pubblicano?
Lo abbiamo già notato: non è il Gesù seduto a tavola in una casa della Palestina che sta parlando, ma è il Signore risorto che si rivolge al fariseo presente nelle comunità di Luca. È il Cristo che fa raccomandazioni ai discepoli che si comportano da farisei, che discriminano. E che dice?
Dice che bisogna dare inizio a un nuovo banchetto in cui le quattro categorie della “gente per bene” cedano il posto ad altre quattro: “Quando dai un banchetto invita poveri, storpi, zoppi e ciechi” (v.13).
Gli storpi, i ciechi e gli zoppi non erano ammessi nel tempio del Signore (Lv 21,18; 2 Sam 5,8). La loro condizione era un chiaro segno del loro stato di peccato e l’assemblea degli israeliti doveva essere composta da gente integra, perfetta, pura, senza difetti. Gesù annuncia di essere venuto a dare inizio ad un banchetto nuovo, un banchetto in cui gli esclusi, le persone rifiutate da tutti divengono i primi invitati, coloro ai quali sono riservati i posti d’onore.
Il suo discorso è rivolto a tutti coloro che, nella comunità cristiana, sono incaricati di organizzare il banchetto del regno. A loro viene richiesto il coraggio di seguire criteri nuovi, opposti a quelli adottati dalla società civile.
Non è facile per le comunità cristiane assimilare i criteri di Dio. Fin dalle origini nella chiesa sono esplose tensioni a causa delle discriminazioni dettate dai criteri di questo mondo. Lo testimonia Giacomo che, nella sua lettera, è costretto a richiamare i cristiani. “Supponiamo – dice – che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: ‘Tu siediti qui comodamente’, e al povero dite: ‘Tu mettiti in piedi lì’, oppure: ‘Siediti qui ai piedi del mio sgabello’, non fate in voi stessi preferenze?” (Gc 2,2-4).
I poveri, i ciechi, gli storpi, gli zoppi, rappresentano quelle persone che hanno sbagliato nella vita. Sono il simbolo di chi cammina senza la luce del Vangelo e inciampa, cade, fa del male a se stesso e agli altri, passa da un errore all’altro. Gesù ricorda ai suoi discepoli che la festa è stata organizzata proprio per costoro. Guai escluderli.
Concludendo la sua esortazione, afferma: accogliendo coloro che tutti rifiutano “tu sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (v.14).
Quando gli uomini fanno un favore, subito pensano alla contropartita; quasi per istinto calcolano i vantaggi che ne possono ricavare. Questa logica è ben illustrata dalla raccomandazione di Esiodo (secolo VIII a.C.): “Invita a tavola chi ti ama e lascia stare il nemico. Ama chi ti ama; va da chi viene da te. Dà a chi ti da’, non dare a chi non dà”.
Gesù chiede al discepolo di amare gratuitamente, di fare del bene in pura perdita. Raccomanda di accogliere in casa coloro che non possono dare nulla in cambio. La ricompensa verrà data da Dio in cielo.
Questa affermazione ha bisogno di un chiarimento. L’invito ad aiutare il povero, pensando alla ricchezza che così si accumula in cielo, può essere ancora un comportamento egoista. È un servirsi del povero per “trasferire i propri capitali in paradiso”. Questo amore è antipatico, è subdolo.
Il povero va amato perché è amabile, non per compassione o assumendo un atteggiamento di altezzosa superiorità (magari anche solo spirituale). Certo non è facile scoprire qualcosa di simpatico, di attraente in un nemico, in un malfattore. Gli occhi umani non riuscirebbero mai a scorgere qualcosa di amabile in queste persone se la parola del Signore non purificasse gli sguardi, non curasse la cecità. È Gesù che fa capire che, se Dio ama ogni uomo, significa che nell’uomo esiste sempre qualcosa di meraviglioso.
Quale sarà la ricompensa?
Chi ama avendo come obiettivo la sola ricerca del bene del fratello diviene simile al Padre che sta nei cieli, fa l’esperienza della sua stessa gioia.
La felicità di Dio è tutta qui: amare gratuitamente.
Si realizza la promessa di Gesù: “Sarà grande la vostra ricompensa: sarete figli dell’Altissimo” (Lc 6,35). Non si può pretendere di più.