Lectio magistralis del card. Pietro Parolin tenuta il 7 novembre nel quadro del convegno che ha inaugurato la cattedra Eugenio Corecco presso la Facoltà Teologica di Lugano.
Sua Eccellenza Mons. Valerio Lazzeri, Vescovo di Lugano e Gran Cancelliere della Facoltà Teologica di Lugano, Sua Eminenza il Cardinale Angelo Scola e illustri Relatori, Chiarissimo Rettore, Autorità accademiche e Corpo docente, Autorità civili, Cari alunni, Signore e Signori, Cari amici,
vi saluto cordialmente e ringrazio per il gentile invito che mi è stato rivolto in questo importante Convegno, che inaugura la cattedra Eugenio Corecco. Esso mi offre l’opportunità di condividere alcune riflessioni a proposito di un tema quanto mai attuale e centrale per la vita della Chiesa contemporanea.
L’idea della vulnerabilità umana, come categoria antropologica e tema morale, ha guadagnato un rilievo centrale nell’ambito della filosofia politica e dell’umanesimo etico degli ultimi decenni.
La narrazione dominante dell’Occidente
In prima battura, si potrebbe dire che questo rilievo è significativamente in contro-tendenza rispetto alla narrazione dominante della nostra modernità, sino ad oggi orientata piuttosto dai miti della potenza progressiva dell’uomo sulle forze della natura, capace di produrre benessere e sicurezza di livelli sempre più alti: fino ad immaginare di poter vincere con successo anche le debolezze della natura, mediante l’invenzione di tecniche capaci di oltrepassarne i limiti e di correggerne i difetti.
L’odierna rivalutazione del tema della vulnerabilità umana – e, come vedremo, dei diversi livelli di questo concetto, che giustificano l’uso di vulnerabilità al plurale – ha incominciato a provocare un serio ripensamento delle proiezioni prometeiche di quell’ingenua proiezione del mito del progresso umano.
Non solo. Il nuovo concetto di vulnerabilità umana si va approfondendo anche come appello morale di rilievo fondamentale, proprio in considerazione della ricaduta esistenziale e sociale negativa che emerge come effetto del privilegio accordato all’illusione di una potenza illimitata, e all’irresponsabilità della rimozione del limite umano.
Desidero illustrare i contenuti essenziali di questa maturazione della concezione antropologica ed etica della vulnerabilità, non facile, ma al tempo stesso inarrestabile, per dare un contributo al discernimento della reale opportunità che essa offre di mettere a frutto, in questo mutamento d’epoca, il seme evangelico del riscatto della dignità della persona e dell’appello alla ricomposizione della comunità umana.
La resistenza dei movimenti ambientalisti
Di fatto, una prima reazione critica alla concezione di una illimitata progressione della potenza umana di manipolazione della natura, che procede linearmente mediante la selezione dei liberi e forti che possono imporla, si è prodotta nell’ambito dei movimenti ecologisti/ambientalisti, già nella seconda metà del secolo XIX.
Nella sua prima parabola, la sensibilità e l’interesse della reazione ai tumultuosi effetti ambientali dello sviluppo industriale e urbanistico sono focalizzati proprio sul rispetto della natura: la difesa delle bellezze naturali, la protezione delle specie animali minacciate di estinzione, la creazione di aree sottratte allo sfruttamento produttivo ed edificabile del territorio.
L’interesse di questa sensibilità culturale per la protezione dell’ambiente naturale può essere sintetizzato in due elementi. In primo luogo l’emergere di una posizione critica nei confronti della tendenza a concepire il potere illimitato della manipolazione ambientale da parte della comunità umana come una semplice funzione strumentale del progresso civile. Il valore delle dimensioni contemplative, estetiche, spirituali, dell’habitat naturale della vita umana, un tempo prerogativa di artisti, letterati, élites culturali e tradizioni religiose, si proponeva ora come un tema di sensibilità generale, orientato a coinvolgere strati sociali più ampi e ad affermarsi come ethos attivo della comunità.
Non solo di ethos – ed è il secondo elemento di interesse – ma anche di un’etica pubblica e generale. La reazione agli eccessi della manipolazione e del degrado ambientale, infatti, non ha un’intonazione esclusivamente estetica e tanto meno utilitaristica. L’aspetto interessante di questo nuovo ethos naturalistico (che progressivamente si definirà più correntemente come ambientalistico ed ecologistico) è proprio il suo profilo etico e umanistico. In altre parole, esso promuove un concetto di “protezione” della natura che attiene alla responsabilità etica di una civiltà coerente con la qualità umana dell’abitare.
La celebrazione del “Primo congresso internazionale sulla protezione della natura” (Parigi 1923) e la successiva istituzione di un “Bureau International pour la Protection de la Nature” (Bruxelles 1928) portano in evidenza questo concetto riassuntivo della nuova sensibilità globale per l’ambiente naturale.
In questa impostazione, dunque, “vulnerabile” – implicitamente – è proprio la natura, intesa come habitat terreno dell’uomo. Essa è vulnerabile non tanto perché fragile e corruttibile, ma piuttosto perché suscettibile di essere sfregiata, offesa, umiliata dalla prepotenza dell’azione umana, che le impongono mortificazioni e stravolgimenti capaci di mettere a rischio e di danneggiare l’esuberanza estetica e la generosa vitalità delle sue forme creative.
Questo scenario del nuovo concetto etico-ecologico di vulnerabilità – in cui la natura è il soggetto offeso e l’uomo il soggetto prevaricatore – ha mantenuto la sua continuità, diventando, nell’evoluzione di alcune tendenze radicali dell’ecologismo contemporaneo, una fondamentale ragione di critica della concezione tecnocratica ed economicistica del progresso.
Di più, questo orientamento critico rappresenta ora, in alcune interpretazioni massimalistiche, la base di un vero e proprio atto d’accusa dell’antropocentrismo che ha dominato la cultura occidentale: la manipolazione umana della natura sarebbe ormai talmente pervasiva, aggressiva, distruttiva, da renderci convinti di essere una specie dannosa per il diritto alla vita delle altre specie e per l’equilibrio cosmologico delle forme e delle forze che rendono abitabile il pianeta.
In questo genere di radicalizzazioni, che pure esasperano punti realmente critici del nostro modello utilitaristico di progresso, sorprende comunque un dato: in certo modo presente sin dall’inizio della nuova cultura ambientalista contemporanea. La vulnerabilità riconosciuta alla natura non-umana, come tema umanisticamente degno di responsabilità e di cura, non include lo specifico riconoscimento della vulnerabilità che è propria dell’essere-umano: ossia, come dimensione eticamente rilevante per l’analoga individuazione del dovere di protezione della sua dignità personale e di cura delle modalità relazionali di una convivenza all’altezza di tale dignità.
Limiti della militanza ambientalista
Il movimento ambientalista, non per caso, si è inabissato nei decenni dello sconvolgimento doloroso e furioso dell’umana convivenza prodotto dalla seconda guerra mondiale. Battuta d’arresto comprensibile, certo, in un passaggio drammatico per la convivenza umana su scala internazionale, segnata dall’utopismo tragico di ideologie in cui prevaleva un disegno di saldatura della potenza tecnico-economica con il dominio politico-militare delle masse.
Ma anche battuta d’arresto a suo modo sintomatica. La nuova idea ambientalista, in effetti, era già rimasta piuttosto defilata anche rispetto ai temi propriamente umanistici del conflitto ideologico acceso intorno alla riconfigurazione della forma politica imposta dalle nuove dinamiche di affermazione dell’egemonia capitalistica e dalle istanze di trasformazione dell’assetto economico-sociale. Del resto, l’idea ambientalista non aveva significativamente intercettato neppure il nesso evidente delle manipolazioni aggressive del sistema ambientale con le politiche coloniali dello sfruttamento delle risorse naturali nei paesi extra-europei.
Di fatto, dopo la seconda guerra mondiale, l’orizzonte di interesse internazionale del tema, sarà ripreso esattamente nei termini in cui era stato lasciato. Nel 1948, sotto l’egida dell’UNESCO, fa la sua apparizione l’“Union Internationale pour la Conservation de la Nature”.
Mi sono soffermato sulla evocazione di questa “premessa ecologica” dell’apparizione del tema della responsabilità morale della vulnerabilità, perché mi sembra utile tenere ben presente il fatto che essa non emerge anzitutto come profilo antropologico della condizione umana, bensì come argomento di un’etica naturalistica dell’ambiente non-umano.
Questo scarto rimane altamente sintomatico della difficoltà, tuttora imponente, di elaborare un nesso più radicale – non ultimamente estetico o utilitaristico – fra la cura dell’ambiente naturale e la tutela della dignità umana che la giustifica.
Laudato si’ e il creato
Il tema è stato posto con esplicita chiarezza – inedita nella tradizione magisteriale – dall’enciclica di papa Francesco Laudato sì. La sua lettura secondo i parametri dell’ecologismo estetico e utilitaristico, non è soltanto riduttiva: è un vero e proprio fraintendimento. Potremmo dire, con un pizzico di provocazione, che quell’insegnamento è piuttosto la prosecuzione del magistero sociale della Chiesa con altri mezzi: mezzi appunto adeguati all’inedito profilo critico raggiunto dal rapporto fra cura della terra dei viventi e salvezza della dignità dell’essere umano.
La via più appropriata per la giusta ricomposizione di questo rapporto, che deve dare propulsività e motivazione ad una antropologia adeguata, è proprio l’esercizio di una riflessione meno arbitraria e più approfondita sulla dignità dell’appello a prendersi cura della vita creata, che costituisce la prerogativa unica e preziosa dell’essere umano. Egli soltanto è in grado di cogliere e di raccogliere questo appello: questa responsabilità è parte integrante della sua dignità. Questo appello – questa vocazione, secondo le sacre scritture di rivelazione che accogliamo nella nostra fede – è iscritto nella consegna della terra abitabile e della creatura vivente alla cura dell’uomo e della donna: anche in questo, e per questo, creati a “immagine e somiglianza” del Dio creatore.
In questa cornice, appare francamente piuttosto singolare la lettura distorta che viene recentemente avanzata a riguardo della “signoria” assegnata all’uomo nei confronti del mondo naturale e delle creature viventi. Questa “signoria”, infatti, non può che essere “immagine e somiglianza” di quella del Creatore: che in mille modi – pensiamo soltanto ai Salmi o al libro della Sapienza – viene celebrata come affezione provvidente per tutte le creature viventi, anche le più piccole e trascurate.
Del resto, nel racconto di Noè che tutti conoscono, anche i non frequentatori della liturgia cristiana, il gesto simbolico che indica la via della salvezza per la famiglia umana e la terra dei viventi comprende l’imbarco delle coppie di tutti gli animali, pulcini e pesciolini compresi. Insomma, il mito di Prometeo, che una volta fu posto al vertice del calendario secolare dell’ateismo intenzionalmente umanistico (Marx), ed ora è impugnato come ispiratore di una volontà di potenza che autorizza il dispotismo distruttivo della specie umana nei confronti della terra dei viventi, proprio non ci appartiene: né per tabulas, né come ispirazione.
L’essere umano, d’altra parte, è costitutivamente vulnerabile. Lo è in modo specifico, perché non lo è soltanto biologicamente o psicologicamente: l’essere umano è intellettualmente e moralmente vulnerabile, ossia nella sua natura più propria e più intima. Questa vulnerabilità, naturalmente, si fa sempre strada attraverso la mortificazione del corpo e della psiche. E tuttavia, essa mostra sempre, negli esseri umani, i tratti della sua correlazione con il bisogno di un riconoscimento intenzionale e di un apprezzamento personale che oltrepassano la fragilità e il limite psico-fisico. Riconoscimento e apprezzamento, infine, che puntano alla certezza di una singolarità umana irrevocabile, inviolabile, insuperabile: in qualunque costellazione sociale, in qualsiasi contesto naturale.
Questa consapevolezza è forse la parte migliore, al momento, della nuova sensibilità antropologica che sta maturando in questo pur confuso e contraddittorio cambiamento d’epoca. La coscienza collettiva del profilo affatto speciale della vulnerabilità costitutiva dell’essere umano – la sua disposizione ad essere ferito anche nell’anima dalla prevaricazione dell’altro e dall’impotenza propria – è un tratto nuovo della nostra evoluzione culturale. L’istanza morale del rispetto e della responsabilità collettiva per l’uomo vulnerabile non è una deduzione del tema ecologico, né una variabile del calcolo economico.
Vulnerabilità e umanesimo civile
La sensibilità per le vittime e la responsabilità dei vulnerabili è obiettivamente destinata ad illuminare una questione stantis aut cadentis della civiltà umana in quanto tale: siamo pronti a prendere congedo dal nostro delirio di onnipotenza, per riaprire l’orizzonte di una civiltà della compassione? La compassione che ci è richiesta non è la commiserazione sentimentale della disgrazia altrui, che ci procura sollievo per lo scampato pericolo, ma una vera e propria passione morale per la condivisione responsabile e fattiva della nostra comune vulnerabilità: a incominciare da quella che è minacciata dall’indifferenza, dalla rimozione, dall’abbandono.
La vulnerabilità condivisa, attraverso la circolazione di una sensibilità che concepisce la sua inclusione nel progetto sociale complessivo, ci rende umani, tanto quanto la sua mortificazione condanna alla vana retorica ogni presunto progresso della civiltà del diritto e dei diritti.
Un segno promettente dell’innalzamento di livello di questa sensibilità, che introduce il tema nella prospettiva di una più avanzata concezione della dignità umana e del bene comune, può essere colto nella Dichiarazione di Barcellona del 1998, redatta con l’aiuto di ventidue esperti, afferenti a diverse discipline nell’ambito bioetico, su stimolo della Commissione Europea e tramite il coordinamento del Centre for Ethics and Law di Copenhagen.
In questo testo, non soltanto la vulnerabilità è nominata per la prima volta come parte integrante dei principi regolativi della bioetica universale (autonomia, integrità, dignità, vulnerabilità). Essa viene anche esplicitamente collegata al riconoscimento della finitezza costitutiva della condizione umana e all’istanza di un appello ineludibile alla responsabilità morale della comunità umana. Il segnale che viene da questa integrazione, non privo di una certa audacia propositiva, in tempi di sospetto generalizzato nei confronti della rilevanza del profilo morale dell’antropologia, è sicuramente incoraggiante.
Il richiamo alla comune vulnerabilità della condizione umana disinnesca ogni possibile deriva dell’interpretazione dei fondamentali della dignità umana (e dell’integrità e dell’autonomia) in termini di volontà di potenza e di selezione dei vincenti. L’indifferenza e il disprezzo per la vulnerabilità umana e, rispettivamente, per la compassione civile, unito alla esaltazione dell’autosufficienza individualistica e della forza competitiva appaiono ora, oltre ogni mascheramento ideologico, come fattori di degrado della persona e della comunità.
L’attuale passaggio attraverso la sconvolgente pandemia di un virus sostanzialmente ignoto, ha mostrato – oltre ogni previsione – quanto disorientamento, quanta incertezza, quanta impotenza le nostre società civili, anche le più tecnologicamente ed economicamente organizzate, hanno potuto esibire in poche settimane. Nel repertorio delle nostre misure di contrasto, con tutta la sofisticazione della nostra scienza, abbiamo trovato soltanto i vecchi rimedi già adottati nelle leggendarie pestilenze del Medioevo: isolamento, reclusione, paralisi delle attività.
L’imprevedibile della pandemia
I tesori della nostra accumulazione economica e finanziaria sono ora forzati ad una redistribuzione che non immaginavano, nella loro vita spensierata, soltanto per non farci morire. E per non morire, essi stessi. La nostra vulnerabilità ha portato platealmente allo scoperto la vulnerabilità dei nostri più sofisticati sistemi di protezione della vita e del benessere.
Non senza la dolorosa e tragica ironia di un sistema di interdipendenze la cui rete, che dovrebbe assicurarci maggiore protezione, è anche uno strumento eccellente per la diffusione del contagio. Per sopravvivere abbiamo dovuto fermare il mondo. Ma se il mondo si ferma, non sopravviviamo. La nostra vulnerabilità si è trovata stretta nella morsa di una inedita contraddizione: dovrebbe bastare per occuparci più seriamente, e in modo nuovo, del progetto civile di una civiltà che ne tiene seriamente conto nella sua normale organizzazione della convivenza.
La rimozione della vulnerabilità umana, come tema morale di una convivenza realmente a misura d’uomo, apre una falla inimmaginabile nelle congiunture della pura emergenza. Nella fase più critica della pandemia, ossia della vulnerabilità di tutti, il carico maggiore è stato portato dall’istituzione familiare e dal supplemento di generosità della comunità locale.
Il contenimento più efficace della vulnerabilità e dell’angoscia è venuto dalla ritrovata disposizione all’affetto per le persone e al sacrificio per la comunità che i professionisti della cura hanno trovato in loro stessi. La tecnica e il denaro, l’amministrazione e l’organizzazione, in altri termini, sono apparse chiaramente risorse necessarie, ma in alcun modo sufficienti. E di fronte alla clamorosa emergenza di una vulnerabilità generale, sono apparse anche obsolete: legate ad una società del benessere selettivo, del desiderio individuale, della potenza competitiva.
Questa società, pur con tutti i suoi innegabili progressi, fallisce la sfida della vulnerabilità: non solo perché non riesce a generare risorse di senso per una vita che appare imperfetta e fallibile, ma anche perché si manifesta inadeguata anche per la cura e la protezione delle persone più fragili e più deboli: come se fossero fatalmente più povere di dignità e più ragionevolmente sacrificabili.
Infine, tutto la lascia pensare che la riscoperta della vulnerabilità umana, avviata dalla riflessione antropologica e imposta dalla congiuntura epocale, debba giocare un ruolo centrale, e non marginale o accidentale, nella ricomposizione di un progetto umanistico e civile – economico, sociale, politico, culturale – all’altezza della nostra costitutiva esposizione e disposizione ad essere avviliti, e persino travolti, nella nostra dignità di esseri umani, dagli stessi mezzi con i quali cerchiamo di procurarci un più sicuro possesso dei beni della vita.
Questa considerazione aggiunge alla riflessione sulla vulnerabilità della condizione umana un profilo specifico, legato precisamente al grado di sofisticazione raggiunto dalla potenza dei mezzi della tecnica e dello sviluppo dell’economia. In assenza di una salda prospettiva etica, capace di regolare questa potenza secondo modalità proporzionate alla nostra vulnerabilità, il suo semplice sviluppo accumula anche un enorme potenziale di inciviltà relazionale. La sua energia disgregatrice, oltre una certa soglia critica, è destinata a diventare endemica: ossia, a incistarsi e a convivere all’interno del normale funzionamento delle istituzioni e dell’ethos diffuso delle collettività.
Libertà e vulnerabilità
Le forme e i livelli della vulnerabilità umana sono tema complesso: si dispiegano in rapporto a diverse condizioni e hanno gradazioni molto diverse. In primo luogo, la condizione naturale dell’essere umano lo espone in molti modi alla precarietà della sua dimensione corporea: ineludibile, per quanto diversamente distribuita e diversamente condivisa. In secondo luogo, la sua costitutiva indipendenza dal semplice istinto lo rende dipendente dall’elaborazione culturale – affettiva, sociale, politica – delle sue relazioni e dei suoi stessi bisogni.
Infine, l’insostituibile mediazione della libertà nell’orientamento dell’esistenza, che implica la responsabilità morale dell’agire collettivo e la corresponsabilità relazionale delle decisioni personali, impongono a tutti gli esseri umani di fronteggiare la fallibilità del giudizio e il discernimento della colpa.
La custodia della dignità inviolabile di una creatura corporea-spirituale, in molti modi vulnerabile, è sicuramente una sfida di alto profilo. Eppure, è difficile trovare un nucleo di condensazione del progetto di esistenza e di convivenza dell’essere umano più preciso, più fondamentale, più promettente e più generativo di questo.
Immaginare una comunità umana radicalmente disegnata nella prospettiva dei tratti fondamentali della vulnerabilità umana, ai quali abbiamo accennato, costituirebbe certamente una svolta epocale in ordine ad una società civile all’altezza delle condizioni-limite delle diverse e più specifiche vulnerabilità delle storie di vita.
Sembra venuto il momento di immaginare un sistema che, invece di limitarsi a escogitare, nello stato di eccezione, algoritmi della redistribuzione dei sempre minori benefici comunitari dell’economia, metta in discussione i modi e i contenuti della normale produzione di beni e di servizi destinati al bene comune. E in particolare, per quanto riguarda la specifica vulnerabilità delle età della vita, e dei legami tra le generazioni si tratterà di immaginare condizioni di maggiore contiguità e integrazione delle reti famigliari e delle comunità locali: alla prova dei fatti, e nonostante il disarmo delle politiche familiari, esse hanno mostrato di essere l’asse fondamentale della tenuta della comunità.
E il cristianesimo, quali modalità di approccio ispira e sostiene, nei confronti delle vulnerabilità che definiscono la condizione umana? Di certo, la fede cristiana non apprende dall’esperienza delle diverse vulnerabilità umane la necessità di riconoscere e di condividere la fondamentale vulnerabilità della creatura umana.
Il compito del cristianesimo
La testimonianza biblica della rivelazione, fin dalle scritture dell’Antico Patto, attesta la fondamentale vulnerabilità dell’umana creatura. Come persona e come comunità umana. In tale cornice, la tradizione della Parola di Dio tratteggia simbolicamente, ma con realistica chiarezza, la verità dell’esperienza che vi corrisponde: nella quale si intrecciano misteriosamente la promessa indefettibile della benedizione di Dio che non rinuncia al suo riscatto, e la debolezza insuperabile della storia peccaminosa dell’uomo e della donna, che ne ostacolano l’accesso.
Dio assegna all’alleanza dell’uomo e della donna la cura del mondo creato e la continuità della storia umana. La loro vulnerabilità alla finitezza e alla colpa non lo induce a revocare la consegna: questa dignità di testimone operoso della bontà e della bellezza della creazione, che Dio riconosce alla creatura vulnerabile, dovrebbe aprirci la mente. Non ha molto senso – a parte il fraintendimento ideologico della lettera biblica – impiantare una polemica sulla contrapposizione della “signoria” accordata all’uomo e alla donna (che è a immagine e somiglianza di quella del Creatore, ossia “signorile” e affettuosamente compiaciuta, non “dispotica”) e la libera espansione delle forme della vita sulla terra (che rimangono in ogni modo misteriosamente e servizievolmente legate da una sussidiarietà provvidenziale delle forme e delle forze: dalla catena alimentare agli equilibri della biodiversità).
In ogni caso, noi siamo l’unica creatura in grado di aggiungere armonia e ricchezza al cosmo creato, esaltando le sue risorse e riparando i nostri danneggiamenti: l’immaginazione creativa della tecnica è una qualità dello spirito umano, dono della “immagine e somiglianza” del Creatore. Naturalmente, per la stessa ragione, quando non siamo fedeli alla consegna ricevuta, la nostra vulnerabilità è drammaticamente trafitta. La convivenza umana che diventa capace di rispetto e di protezione della dignità della creatura spirituale, porta intelligenza e ordine – non ostilità e chaos – nella natura creata. Non si tratta di “adorare” la natura creata da Dio, si tratta di “onorare” la creazione divina della natura. Il vero “signore” è quello che sa dosare la forza, non quello che la impiega senza amore e senza limiti.
Il vangelo del regno di Dio, infine, annunciato da Gesù – ossia il mondo in cui Dio è felice di abitare con gli uomini e le donne, ed essi vengono messi in condizione di abitare felicemente la creazione di Dio – sigilla una volta per tutte e per sempre la suprema dignità dell’amore del prossimo, che ne consente l’accesso. L’amore del prossimo, che illumina lo stesso amore di Dio, che nel Figlio si fa prossimo dell’essere finito, e anche fallito, che noi siamo – non seleziona alcuna vulnerabilità: come se ce ne fosse qualcuna che potesse rappresentare già in sé stessa una condanna a perdere, non degna di inclusione e di riscatto.
Non c’è motivo di contrapporre la cura razionale della dignità umana e la dedizione amorevole rivolta alla sua vulnerabilità. Le parabole del Vangelo impiegano sistematicamente le metafore narrative della buona economia della casa, dei beni, delle relazioni. Né si deve pensare all’insistenza di Gesù (e oggi del magistero ecclesiastico) sulla speciale attenzione che la fede rivolge alla testimonianza del vangelo attraverso la fattiva dedizione ai poveri e agli abbandonati.
Non si tratta di una sorta di pauperismo ideologico, che cerca consenso approfittando di una vulnerabilità al grado zero e inducendo ostilità fra le classi sociali: sarebbe veramente una contraddizione imperdonabile. Si tratta piuttosto di portare radicalmente alla luce il tratto di dedizione disinteressata e onestà intellettuale che deve connotare la testimonianza evangelica del regno di Dio. La grazia del riscatto e del compimento offerto da Dio è realmente offerto all’uomo vulnerabile: non al soggetto selezionato in base alla presunta perfezione delle sue caratteristiche fisiche e della sua qualità. Se la dignità della creatura amata e riscattata da Dio si fa strada nella condizione più disastrata e più distante, per la quale si è disposti a metterci (e a rimetterci) del proprio allora c’è realmente speranza per tutti, vulnerabili quanti siamo.
Questo tratto della genuina fede evangelica ha già ispirato – apertamente o nascostamente – la nostra cultura umanistica. La crescente sensibilità della nostra cultura (ma anche di culture lontane che ne hanno assimilato l’ispirazione) per il racconto della storia sociale dalla parte delle vittime fa indiscutibilmente parte della storia degli effetti (e degli affetti) del vangelo cristiano.
Nella congiuntura attuale, il cristianesimo è certamente chiamato a confermare, in termini culturalmente e socialmente adeguati, la vitalità di quella originaria ispirazione della fede. Il kairos attuale, tuttavia, sollecita la speciale responsabilità di un valore aggiunto, capace di generare una significativa riabilitazione del rapporto fra politiche solidali degli affetti e passione per il bene comune.
Le condizioni del mutamento di passo, su questo punto, rese inaspettatamente urgenti dalla pressione di una vulnerabilità globale come quella che stiamo vivendo, raccomandano il massiccio avvio di una specifica educazione delle giovani generazioni all’estetica della vulnerabilità: che va diventando sconosciuta ad una generazione cresciuta dalle mitologie dell’invulnerabilità. La confidenza con le vulnerabilità più indifese – la disabilità, la solitudine, l’ignoranza, l’insignificanza – dalle quali imparare ad estrarre gli incanti di una dignità nascosta, ormai rassegnata all’esclusione, affina l’animo per sempre. E aprono l’orizzonte di una forma di felicità del voler bene che soltanto attraverso questo apprendistato della tenerezza si rende nota.
Vulnerabilità e l’iniziazione alla vita
La felice scoperta della capacità di trasformazione della convivenza generale, ad opera di questa forza gentile, può accumulare una massa critica sufficiente a chiudere culturalmente l’avventura tragica del super-uomo moderno, al quale abbiamo sacrificato abbastanza generazioni.
La vulnerabilità costitutiva dell’uomo si annuncia nel cuore dei due misteri in cui la nostra iniziazione alla vita percepisce più chiaramente il fatto che la sua promessa e il suo riscatto sono affidati ad un Altro. La nascita e la morte sono la soglia estrema della nostra vulnerabilità: ma al tempo stesso l’indizio più sicuro della nostra trascendenza. Questa vita non giustifica il nostro avvento come singolarità personale, che la nascita apre all’infinito, e non contiene la giustizia del suo compimento, che la morte lascia in sospeso.
Non lo giustifica, ma ne chiede in modo struggente la giustizia. La fede mette in campo un pronunciamento estremo a questo riguardo: il Signore, nato da donna per opera dello Spirito e morto in croce per amore degli uomini, è risorto. La nostra vita riceverà da Dio la sua giustizia e l’intera creazione sarà infine plasmata in armonia con il suo compimento.
Noi ne saremo partecipi, se solo non ci abbandoniamo l’un l’altro nei passaggi della storia che mettono alla prova la nostra vulnerabilità, aprendo così alla fede nella promessa di Dio il nostro affidamento reciproco. Incominciando dalle soglie estreme della nascita e della morte, che tutte le nostre vulnerabilità, simbolicamente, riassumono.