Ora che sta per entrare nell’uso comune, in molte diocesi, a partire dalla I domenica di Avvento, questa “terza edizione” del Messale romano in lingua italiana merita una più precisa parola di considerazione, di commento e di accompagnamento. Perché ora, proprio nell’arrivare alla meta tanto agognata da 18 anni, ora che “compie la maggiore età”, questo testo scopre sul suo corpo nuovo, lucido, scattante, le tracce di una minorità dura da superare e che merita cura e attenzione.
La minorità che persiste, nonostante l’età matura, è dovuta a un’infanzia e a un’adolescenza piena di traumi. I genitori non hanno avuto fiducia nel loro figlio. Lo hanno considerato come “mera copia” del padre e non lo hanno sufficientemente aiutato a differenziarsi dai fratelli maggiori. Anzi, proprio di lui, ad un certo punto, volevano fare quasi il centro di una “reazione”, quasi di una “ritrattazione”. Come se le lingue vive fossero il segno, doloroso, di un peccato originale, da farsi perdonare…
Non parlerò delle novità: poche sono davvero rilevanti, ma è certo che non rispondono ad un disegno complessivo. Perché il disegno non c’è. Non c’è un disegno nuovo perché non poteva e non doveva esserci e si voleva che non ci fosse. Ci sono alcuni spunti, alcuni schizzi, alcune tracce da non sottovalutare. Ma questa incompiutezza è strutturale ed è stata voluta così. Le ragioni sono molto grandi e molto complesse. Se si semplificano troppo, si fa loro torto. Proviamo a dirle in modo non troppo improvvisato.
1. La “terza edizione latina” e il disegno di “blocco della tradizione”
Forse è bene ricordare come, dove e quando è iniziata tutta la storia di questa “terza edizione” del messale italiano. Tutto è iniziato “in trincea”. Perché quando è stata approvata l’edizione latina, nel 2002, era appena stata introdotta la V Istruzione sulla Riforma liturgica, Liturgiam authenticam (2001), che pretendeva di impostare il lavoro di “traduzione” in un modo che avrebbe sostanzialmente distorto l’edizione italiana in vigore, cercando di tradurre il testo in un italiano rigorosamente e rigidamente pensato come il “calco” del latino.
In larga parte questi 18 anni sono stati una “guerra di posizione” tra le pretese smodate e sbagliate vantate da questa istanza centrale, e le resistenze di una Chiesa italiana che conosce bene la lingua che parla e la fede che professa. E che soprattutto ha già acquisito una “tradizione italiana”, che non può essere smentita in nome di una versioncina dal latino da correggere con la penna rossa e blu!
Ma, in questa fatica di resistenza, si è inevitabilmente perso il gusto di quasi ogni possibile avanzamento. Si è cercato di non arretrare. La cosa è lodevole, ed è anche ragionevole, ma certo non è il massimo, perché trasforma il cammino di inculturazione della fede in una pretesa guerra contro il modernismo, dove le realtà problematiche vengono enfatizzate e le opportunità spesso risultano dimenticate.
2. La fatica sovrumana nel fare le cose più semplici e nell’impedire le cose più assurde
Uno degli effetti di Liturgiam authenticam era stato questo: rendere la traduzione impossibile. Perché se traducevi bene, mettendoti in ascolto della lingua di arrivo, non venivi approvato. Ma per essere approvato dovevi tradurre male, ossia con fedeltà solo alla bocca di partenza, non all’orecchio di arrivo. E questo, come è evidente, ha bloccato tutto. Le cose semplici diventavano impossibili e le cose assurde apparivano raccomandabili.
Proviamo a ricordare, solo per un attimo, che cosa non è stata la “alta raccomandazione” di tradurre “fedeli al latino” il “pro multis”, come “per molti”. Così si sarebbe preteso di cambiare la formula “sul calice” per essere fedeli alla lettera del latino (ma dovendo spiegare che quella lettera in realtà significava quello che si era sempre detto, ossia “per tutti”, e che però si poteva solo pensare, ma non dire…) mentre la formula “sul pane” aveva e ha, da 50 anni e solo in italiano, quell’“offerto in sacrificio” che non risulta in nessuna versione originale. Abbiamo rischiato di trovare, nello stesso messale, la più letterale delle tradizioni per il calice e la più libera delle traduzioni per il pane… e su questa pretesa – linguisticamente e letterariamente e teologicamente assurda – si sono impegnate forze, energie, mediazioni, giri di valzer, compiacimenti e resistenze che, se Dio vuole, hanno avuto esito felice, ma a quale prezzo!
Il realismo ci impone, d’altra parte, di partire da ciò che abbiamo oggi tra le mani. Anche la scelta “minimalista” della iconografia non è senza ragioni e senza giustificazioni. A differenza di non pochi, su questo non sono affatto dubbioso o esitante. Approvo le scelte e apprezzo le realizzazioni. Volutamente diverse dai modelli precedenti. Qui vi è stato coraggio e questo deve essere apprezzato. E vi è anche gusto, seppur diverso dal precedente, che non è né di diritto divino né di estetica indiscutibile.
3. Il meglio del nuovo messale è in ciò che già c’era e che merita nuova attenzione
Se non fosse stato per Magnum principium (2018) non saremmo mai arrivati in fondo, io credo. E tuttavia, come per altre conferenze episcopali, anche per l’Italia un effetto di distorsione, inevitabile, è stato il “lungo tempo di elaborazione”. Come si faceva, dopo 15 anni di lavoro, duro e contrastato, a lasciar cadere tutto? Come si sarebbe potuto giustificare che, dopo tanto attendere, non ne venisse nulla? E così il risultato è stato pesantemente condizionato dalle circostanze e dalle teorie che solo dal 2018 non hanno più un peso decisivo, ma che tanto hanno influito dal 2002 al 2018.
E come possiamo dimenticare che, nelle discussioni per così lunghi anni, abbiamo anche visto pastori e teologi non ignoti giustificare l’ingiustificabile e arrampicarsi sugli specchi del buon senso per difendere l’indifendibile? Di tutto questo è rimasta traccia evidente nel testo, che perciò non è uniforme e in sé unificato. Ma quando sai che il rischio di arretramento è alto, che un progetto di “normalizzazione dell’italiano” è concepito, così come è stato per l’inglese e per il francese, per lo spagnolo, con i danni che già abbiamo visto e che vedremo, allora un sano catenaccio, un “fare melina”, un “restare indietro” è un modo, comprensibile, per “salvare il salvabile”. Questo lo sappiamo e possiamo comprenderlo. Ora però non si faccia la retorica della novità. È un testo non troppo peggiorato, con qualche apprezzabile novità e qualche scivolone.
4. Il distanziamento “ante litteram” e la riforma liturgica
Forse è un segno dei tempi che la Chiesa sia stata superata, nelle sue prese di distanza dalle lingue parlate, dal “presidio sanitario”, che da 8 mesi ha imposto logiche più rigide di quelle dei peggiori pessimisti. Chi era sospettoso verso la “confusione del rito di pace” ha avuto la gioia di vedersi scavalcato dallo Stato, che ha vietato la stretta di mano. Chi era dubbioso sulla legittimità della “comunione sotto le due specie”, manco a dirlo. Nulla di tutto questo si vede più da otto mesi.
Allora, un messale “che ha fatto la guerra” è utile proprio in tempo di pandemia. Vive di una solidarietà “da trincea” che assomiglia molto al “protocollo” al quale possiamo e dobbiamo attenerci. Ma dopo? Quando tutto questo sarà finito? Quando potremo uscire dalla “quarantena liturgica” e avremo il tempo, lo spazio e la possibilità di celebrare davvero? Di parlare e cantare proprio in italiano e non nella fotocopia sbiadita del latino ufficiale? Allora, probabilmente scopriremo del tutto che questo testo, che è arrivato tra le nostre mani, e che farà la sua strada con dignità e con spirito di servizio, porta i segni di una guerra che lo ha reso debole e troppo trattenuto, quasi spaventato. Ha attraversato i tempi in cui si doveva chiedere scusa nel citare il Concilio Vaticano II e questo gli è rimasto attaccato addosso e qua e là si vede.
Se non avrà modo di trovare, accanto a sé e sopra di sé, testi che lo incoraggino, e che argomentino ampiamente a suo favore, non avrà vita facile. Grazie a Magnum principium ha potuto arrivare a essere un testo. Ma senza una nuova istruzione complessiva sulla riforma liturgica, che sappia non solo “frenare” Liturgiam authenticam, ma che ne sostituisca apertamente la logica distorta, questo messale resterà in mezzo al guado.
Per ora non ce ne accorgeremo. Il tempo è troppo particolare e troppo segnato dal distanziamento. Quando avremo modo di poterlo davvero fare entrare totalmente nell’uso ecclesiale, allora potremo iniziare a desiderare che la “partecipazione attiva” possa assumere in toto la sua centralità. In questo passaggio, che faremo grazie a questo strumento, lo strumento stesso ben presto resterà indietro e, pur essendo da poco diventato maggiorenne, a causa dello stato di minorità che abbiamo ricordato, si troverà molto più avanti nell’età di quanto avevamo pensato o sperato.
Sarà triste. Sarà duro. Ma non sarà stato invano, se, nel frattempo, avremo maturato nuove sensibilità, più forti dinamiche pastorali ed evidenze rituali non minimaliste. Allora anche il messale “minimalista”, una volta diventato grande e forte, sarà la buona premessa per imparare a celebrare il Signore Gesù come popolo e come Chiesa.
Pubblicato il 23 novembre 2020 nel blog: Come se non.
Mi piacerebbe che l’autore fosse un po’ meno ermetico, esplicitando che cosa intende per “qualche apprezzabile novità e qualche scivolone”