Nel settembre 2019, rivolgendosi alle autorità mozambicane durante la sua visita nel paese, papa Francesco ha citato un passaggio della Evangelii gaudium: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità». Non c’è dubbio che egli si riferisse anche alla situazione di Cabo Delgado, una regione nel Nord del Mozambico. Dall’ottobre del 2017, in quella regione si sono succeduti sempre più frequentemente attacchi alla popolazione che hanno causato morti, incendi, distruzione di beni pubblici e privati, e in seguito hanno acceso scontri tra gli «insorti» e la polizia e poi con l’esercito, che iniziava a essere dispiegato nell’area.
Regione povera e ricchissima
Cabo Delgado è una regione povera di infrastrutture, di servizi primari, con il più alto tasso di analfabetismo nel paese, ma ricca di materie prime, con enormi giacimenti di gas naturale, miniere di grafite, rubini e altre risorse il cui sfruttamento è iniziato solo di recente e per il quale si stanno investendo decine di miliardi di euro, come nel caso del gas naturale dove l’italiana ENI è tra le grandi promotrici.
L’inizio dello sfruttamento di queste risorse ha creato una grande aspettativa e alimentato il sogno di una facile ricchezza. Ma la gente del posto si è vista ben presto privata di questo sogno: dagli spostamenti forzati per fare posto ai cantieri, all’assegnazione dei diritti di sfruttamento dei rubini e altre materie prime a ditte legate all’élite governativa, fino all’uso della forza per reprimere proteste e garantire il rispetto delle concessioni fatte a interessi stranieri ed élites.
Questo elemento sembra aver fatto da detonatore a una situazione creata da un insieme di fattori – decenni di abbandono, già dal tempo coloniale, tensioni di vario genere e assenza di fatto dello stato – che hanno reso gran parte di questa regione, con le sue centinaia di chilometri di costa incustoditi e l’entroterra difficile da controllare, il luogo di transito di ogni attività illegale, iniziando dal flusso di eroina proveniente dall’Oriente che, attraverso questa porta di entrata, raggiunge il Sud Africa e da là l’Europa. Con la sua «porosità» e una debole presenza locale delle istituzioni, la regione favorisce il traffico di persone e il commercio illegale di fauna selvaggia, legname, pietre preziose e quanto può essere fonte di lucro illecito.
Ad aver dato inizio alle recenti azioni violente sembrano essere stati giovani coinvolti nel processo in atto di islamizzazione dell’Africa che, tra le iniziative, favorisce la formazione di giovani in paesi islamici secondo una linea radicale. Ma il numero elevato di persone che si sono via via unite a coloro che, fino a poco tempo fa, erano chiamati gli «insorti», sono giovani di altre regioni del Nord del paese, non necessariamente di religione islamica, attratti da quello che sembra essere un lavoro ben pagato, almeno nei primi tempi.
Daesh cavalca gli eventi
L’ultimo anno ha registrato un aumento esponenziale delle azioni di distruzione e occupazione del territorio. Sono state attaccate cittadine con grande presenza di militari, e alcune di esse sono state occupate, come il porto di Mocimboa da Praia, la cui conquista ha significato il blocco di ogni tipo di circolazione su gran parte del territorio. La presenza di combattenti stranieri al fianco dei mozambicani è un dato di fatto. Lo Stato islamico (Daesh) rivendica spesso le azioni nel tentativo di cavalcare gli eventi e intestarsi la leadership di quella che è divenuta ormai un’autentica guerra, la quale conta già oltre 2.000 morti accertati, 500.000 sfollati e una imponente distruzione di villaggi e cittadine.
Non ci sono rivendicazioni o proclami di obiettivi che si vorrebbero raggiungere. Il fatto però che dei circa 600.000 abitanti dell’area, più di 500.000 siano fuggiti a Pemba, capitale della regione, o nelle regioni più a Sud, permette di formulare un’ipotesi. Non sembra tanto che si voglia stabilire uno stato islamico con una sua legislazione, ma piuttosto creare un’ampia zona franca disponibile a ogni genere di traffico illecito, principalmente da e per l’Oriente, dentro l’Africa australe. Sfruttando i canali commerciali di quest’ultima, ci si garantirebbe infatti l’accesso a un “mercato” molto più ampio.
Si tratta di una situazione che, pur radicandosi nelle dinamiche di povertà, esclusione e sfruttamento locali, oltrepassa le frontiere del Mozambico e coinvolge soggetti internazionali con interessi spesso in contrasto non solo tra loro, ma anche e soprattutto con la dignità delle persone. Per raggiungere i loro fini essi non esitano cinicamente a “scartare”, come direbbe papa Francesco, interi popoli.
Dom Claudio Dalla Zuanna, dehoniano,
è vescovo di Beira in Mozambico dal 2012.