È vero che il funerale non è un sacramento e che l’unzione degli infermi non il sacramento della fine. Ma certamente il Covid-19 ha evidenziato in modo drammatico la questione del morire e del rito con cui accompagnare questo passaggio della vita.
Provo quindi a fare qualche semplice considerazione su che cosa ne è stato della nostra pratica di celebrare la morte nella fede al tempo della pandemia.
La morte rimossa
L’impossibilità di un segno religioso che accompagnasse il morire è stata percepita come una delle ferite più profonde alla dignità della vita, e questo anche da chi non è credente, e forse troppo poco dalle Chiese che si sono adeguate alle indicazioni dei protocolli, senza evidenziare la ferita che questo comportava nel cuore di chi stava vivendo il dramma della morte di una persona cara.
Nel concreto poi molti preti si sono attivati in tanti modi e molti credenti – infermieri e personale sanitario – hanno vissuto vicinanze straordinarie con chi affrontava la morte e con i familiari coinvolti.
Ma su questo già molto si è detto. Vorrei sottolineare invece un altro aspetto. Noi veniamo da una cultura che ha rimosso da tempo il tema della morte. Lo ha fatto rimuovendolo anzitutto dalla casa: il morire è un evento da tempo ospedalizzato, affidato a “esperti” (?) che se ne occupino in tutte le sue fasi. Questo toglie, a chi vive il morire di una persona cara, la responsabilità ma anche le parole e i gesti che permetterebbero di elaborare il momento della morte.
Inoltre, la morte ha perso ogni rilevanza pubblica: la comunità civile non vi partecipa (salvo rari casi), perché la morte è una questione privata. Mi è capitato, appena usciti dal lockdown, di essere chiamato in una casa per una defunta. Sono andato subito, abbiamo fatto una preghiera con le due figlie che erano giunte da fuori Milano, e al termine ho chiesto come si stavano regolando per il funerale. Mi hanno risposto: «No, padre, va bene così, ci basta la preghiera che lei gentilmente ci ha fatto». Insomma, neppure un funerale, ma il tutto ricondotto a un momento privato e individuale.
Ora il Covid-19 ha rimesso in primo piano l’evidenza della morte, ma in che modo? I morti erano e sono anzitutto dei numeri; interessano perché, se crescono, cresce la paura di un contagio (e dunque anche della possibilità di morire); se diminuiscono, possiamo tornare alla spensieratezza irresponsabile di prima, come se la morte non esistesse.
È mancata la narrazione della singolarità del morire; e quando c’è stata qualche narrazione era intrisa di questo sentimento recriminante: di chi è la colpa? Perché la morte è sempre un errore. Nel sistema panottico che presume un controllo totale della vita, la morte irrompe come una guastafeste, come un errore che chiede un colpevole.
Morire in solitudine
Un ulteriore aspetto che ha segnato la percezione della morte nella pandemia è la solitudine del morire. In realtà, sempre si muore da soli. Oltretutto, la rimozione della morte dal tessuto familiare ha amplificato questa solitudine e il senso di colpa di non esserci, di “non arrivare in tempo”, di perdere il momento ultimo (anche Gesù non arriva in tempo per la morte dell’amico Lazzaro!).
Perché si sente che proprio lì dovremmo esserci, perché sia possibile vivere una vicinanza anche nella distanza.
Ora, in realtà, questo paradosso di essere vicini nella distanza lo si vive e lo si impara ben prima dell’ultima ora. Nella morte si rivela la qualità delle relazioni, la capacità di coniugare prossimità e distanza. Solo se si è stati prossimi nella vita si può sopportare l’inevitabile distanza del momento della morte.
In queste particolari condizioni diventa centrale il ruolo del rito: questo offre proprio la possibilità di trovare momenti condivisi nei quali vivere il morire, e le parole per elaborare il lutto come celebrazione della singolarità della vita.
Credo che questo sia un compito e un servizio decisivo e delicato che le comunità possono offrire alla vita di tutti. Farlo in tempo di pandemia è ancora più difficile e urgente.
Credo che quello che serve sia un esercizio di ascolto capace di favorire una narrazione che riscatta il morire dalla rimozione e dall’isolamento. Quando accosto una famiglia che chiede un funerale, o che racconta il dramma di un amico o di un congiunto deceduto senza la possibilità di un rito di congedo, la cosa più delicata è dare la parola al dolore, ospitare un racconto. Il più delle volte inizia come se si dovesse rendere conto di un referto medico: quale malattia, quali terapie…
L’aspetto più difficile da far emergere è il vissuto spirituale ed esistenziale che si è sperimentato intorno all’evento della morte: che cosa ciascuno ha vissuto nel profondo, le paure ma anche gli affetti che sono emersi, il dolore e le incomprensioni ma anche la vicinanza e la testimonianza che una vita consegna.
Se si riesce ad andare oltre le recriminazioni (rivolte a chi non ha impedito la morte e spesso a sé stessi e ai propri sensi di colpa), allora si possono raccogliere testimonianze di vita, racconti di legami con le loro gioie e le loro ferite.
La povertà del rito
Credo che solo ospitando questi racconti sia possibile poi un annuncio di vita, come il pellegrino di Emmaus ha fatto nei confronti dei due viandanti sconfortati dal trauma della morte. Il rito, dicevamo, ha qui un ruolo decisivo. Perché cerca le parole condivise per dire insieme il dolore e la speranza, la ferita e l’amore che ogni morte porta con sé.
Non sempre il momento rituale riesce a farlo. Da un lato, perché oggi ogni forma di rito soffre di una crisi che viene da lontano. E i funerali ne sono l’indicatore più evidente: celebrazioni povere, spesso anonime, soprattutto in città.
Capita di celebrare in pochissime persone e non solo per colpa del virus e delle norme di distanziazione: sole – quelle vite – lo erano molto prima. Celebrazioni povere, perché anche la comunità cristiana è assente, o riesce con fatica a prestarvi una cura sufficiente (nel canto e nella cura celebrativa in genere). Celebrazioni povere, perché anche il linguaggio delle orazioni spesso risulta incomprensibile e in una lingua estranea a chi la ascolta.
Quello della morte rimane una sfida per le nostre comunità, ancor più nei tempi di pandemia. In questi giorni in città si sentono sempre più i suoni delle sirene delle autoambulanze, e i funerali che dobbiamo celebrare sono sempre più legati a morti collegate con il Covid-19.
Tra incertezze e paure (non mancano anche confratelli vicini già colpiti dal virus, chiese chiuse a causa della quarantena dei preti, funerali rimandati ad altre parrocchie vicine) ci apprestiamo a stare vicino a chi vive il dramma della morte in tempo di pandemia, sorretti dalla speranza che, anche con poveri mezzi e con povere parole, si può testimoniare una speranza per tutti.