Il frate minore docente di Esegesi del NT all’Istituto Teologico di Assisi, di cui è preside, pubblica la ricerca intrapresa per la predicazione di due esercizi spirituali dettati ai vescovi della Conferenza episcopale pugliese e ai vescovi greco-cattolici dell’Ucraina.
La ricerca di Giulio Michelini è davvero originale nella trattazione dell’evento evangelico riferito dai tre sinottici e ricordato anche nella Seconda Lettera di Pietro. Egli è convinto che il focus del brano non sia soltanto il cambiamento del volto di Gesù ma di quello dei personaggi lì presenti. Oltre a 2Pt e ai racconti evangelici, l’autore prosegue la sua indagine sfruttando i dati offerti dagli scritti apocrifi Apocalisse di Pietro e Atti di Pietro, molto venerati dai primi cristiani.
Seconda Lettera di Pietro: eravamo presenti
La Seconda Lettera di Pietro non racconta l’evento della Trasfigurazione, ma ne fa una memoria in un testo teologico raccontato in prima persona per rafforzare nei cristiani la fede nella verità del fatto, data la presenza dell’apostolo sul «santo monte» (2Pt 1,16-18). L’evento non è un mito o una leggenda come tante ne circolavano in quel tempo, perché l’apostolo vi era presente.
Egli tralascia ogni dettaglio dell’evento e presenta il significato teologico dello stesso: Gesù è stato onorato e glorificato, ha permesso che la sua divinità fosse vista anche solo per poco tempo da testimoni prescelti, perché la Trasfigurazione è la garanzia della dottrina della sua seconda venuta in pienezza alla fine dei tempi. La seconda venuta iniziava a essere contestata, dato l’evidente ritardo della parusìa.
La voce del Padre non viene dalla nube, ma dalla «maestosa gloria», cioè da Dio stesso. Si rivolge solo a Gesù, che riceve la titolatura di «Figlio», un titolo molto importante con cui Gesù viene chiamato, ricco di implicazioni trinitarie. È rivolta solo a lui come nel momento del battesimo: «Questi è il Figlio mio, l’amato» (2Pt 1,17; cf. Mt 3,17). Gli evangelisti narrano che tutti i discepoli sentirono l’affermazione della voce divina proveniente dal cielo.
Il Salmo 2, regale, si compie in modo estremamente umano, implicando una relazione personale che comprende affetto («amato»), legalità («mio figlio»), superiorità («in cui mi sono compiaciuto»). Michelini ribadisce l’importanza di ricordare quando siamo stati con Gesù! Ora la Parola da ascoltare ci giunge nel presente, la Parola della Scrittura da accogliere nella fede.
I Vangeli
Nel c. 2 l’autore ricorda gli elementi fondamentali del racconto della Trasfigurazione secondo i vari evangelisti. C’è la contestualizzazione spazio-temporale (non si menziona il nome Tabor), la Trasfigurazione di Gesù di fronte ai tre discepoli e l’apparizione di Mosè ed Elia. Dopo la reazione dei tre discepoli, Pietro propone la costruzione di tre tende, che Gesù nega; una nube copre il monte e una voce dal cielo interviene direttamente chiedendo di ascoltare il “Figlio”. Alla fine Gesù rimane solo con i discepoli, e questi scendono a valle.
Matteo presenta la Trasfigurazione come un evento apocalittico e luminoso. Parla di “luce” delle vesti che sembra rimandi a una tradizione rabbinica sull’Adamo luminoso nell’Eden. Eramo ed Eva erano rivestiti di luce, che persero col peccato. La nube luminosa rimanda al monte Sinai mentre Mosè riceve la Legge. In Matteo e Luca la nube e la voce scompaiono mentre Pietro sta ancora parlando. I discepoli sono terrorizzati dalla voce che rimprovera Pietro, e mentre per Marco la paura viene dall’apparire di Mosè ed Elia, per Luca sorge quando i due profeti sono avvolti dalla nube.
Marco non dà enfasi al volto splendente di Gesù, inverte l’ordine menzionando prima Elia e poi Mosè. Per lui certo non vale che i due rappresentino la Legge e i Profeti (interpretazione tradizionale). Matteo si rivolge a Gesù col semplice titolo di “Rabbi”, “maestro”, che diventa Kyrie in Mc ed Epistata (“sovraintendente”) in Luca.
Luca non menziona che la montagna sia alta, inverte l’ordine dei discepoli, parla di «otto giorni dopo», specificando «questi discorsi». La Trasfigurazione avviene mentre Gesù è in preghiera (importante per capire i sentimenti e le prove che accompagnano Gesù sul Tabor). Non c’è Trasfigurazione ma cambiamento d’aspetto. Luca precisa l’argomento della conversazione tra Gesù, Elia e Mosè – che solo per Luca sono nella «gloria»: l’esodo che si compirà a Gerusalemme. Solo Luca sottolinea che i discepoli sono inconsapevoli perché «oppressi dal sonno». La Trasfigurazione è un evento che si pone oltre le capacità comprensive umane…
Sul monte per pregare
Gesù sale sul monte a pregare. Sale pieno di sentimenti incamerati dopo i discorsi fatti nell’annuncio del suo destino di morte a Gerusalemme e la reazione di Pietro. I suoi sentimenti sono molteplici. Pietro gli ha ricordato che lui è il Messia, prova il sentimento dell’esperienza della morte che lo attende, prova delusione per l’incomprensione di Pietro, paragonato a satana.
Gesù sale sul monte per almeno tre ragioni: per pregare, perché la prova di Gesù aveva preso l’avvio da un monte, perché Gesù educa i suoi discepoli. Gesù reagisce agli eventi di sei giorni prima con la preghiera, per fare unità e raccogliere i sentimenti, compiere il discernimento per lasciarsi guidare da Dio.
La seconda ragione è che Gesù sale sul Tabor perché lì lo Spirito lo aveva già portato. L’apocrifo Vangelo degli Ebrei afferma: «Mi ha appena preso mia madre, lo Spirito Santo [ruach, “spirito”, in ebraico è femminile] per uno dei miei capelli e mi ha portato sul grande monte Tabor». Forse qui ci si riferisce alla tentazione, la terza in Matteo. Mt 17,1 ricorda che il monte della Trasfigurazione è molto alto, come quello della tentazione (Mt 4,8 hypsēlon).
Il monte Tabor – afferma Michelini – è sia il monte della prova, sia il monte della Trasfigurazione. Meglio, è il monte dove Gesù viene trasfigurato perché è proprio il luogo dove ha vinto la prova della terza tentazione (almeno in Mt). La «memoria di quella prima prova originaria si riaccende ora, quando Gesù torna dove la sua missione aveva avuto inizio» (p. 47).
La terza ragione sta nel fatto che Gesù porta con sé i discepoli che hanno più bisogno, per educarli. Sono tre discepoli che avranno un ruolo importante nella comunità e devono capire meglio chi è Gesù, compiendo essi stessi una “trasformazione” dell’immagine imprecisa che si erano costruita di lui.
La trasformazione di Gesù è opera del Padre (il passivo divino metemōrphothē). «Il verbo non sembra veicolare l’idea che di un cambiamento “di” Gesù, quanto piuttosto “nei suoi riguardi”, da parte cioè di coloro davanti ai quali (“davanti a loro”; Mc 9,2) avviene la trasformazione. La Trasfigurazione implica un cambiamento di comprensione o di prospettiva, o, in termini teologici, una rivelazione, un’alterazione che svela una verità nascosta […]; il corpo di Gesù, che i discepoli vedono glorioso non è ancora cambiato, e perché ciò accada è necessaria la sua glorificazione, con la morte e risurrezione; quello che cambia è lo sguardo dei discepoli» (pp. 52-53).
Per chi è la visione? Essa accade davanti ai discepoli, ma essi sono spettatori e non ripartecipano pienamente. Non si può conoscere fino in fondo il mistero, entrare nella sfera di Dio, dove Elia e Mosè avevano la loro dimora. Essa avviene per Gesù, ma interpella anche i discepoli, chiamati a trasformarsi, soprattutto Pietro.
Dal Sinai al Tabor (Mosè) – Dal Carmelo al Tabor (Elia)
Un aspetto molto interessante della ricerca di Michelini è quello di indagare su come i personaggi di Mosè ed Elia siano arrivati al Tabor. Ne ricostruisce la loro avventura umana e spirituale.
Dio agisce da lontano, salva Mosè che, dopo la violenza in Egitto, si ritira a vita privata. Dio lo chiama in un momento inopportuno, da anziano, da rassegnato, da persona ritirata «anacoreticamente» (Es 2,15). Le sue cinque obiezioni poste a YHWH sono riassumibili in due: chi sono io? Chi è Israele? Mosè riconosce i suoi errori e limiti e non crede neppure che Israele voglia uscire dalla schiavitù.
In Nm 20 è descritta la crisi di autorità di Mosè che, invece di parlare alla roccia per far sgorgare acqua, la batte con violenza due volte. Maria è morta, Aronne è assente, la nuova generazione a Kadesh si lamenta e vuole tornare in Egitto. Una regressione che appare come il fallimento di Mosè e di Aronne. I capi sono sempre responsabili dei comportamenti di coloro che essi guidano. Mosè arriva al Tabor senza meriti, con tutta la sua vita, la sua famiglia, Maria e Aronne, la crisi che ha fatto sì che il mediatore Mosè non entrasse nella terra promessa.
Elia possiede le chiavi dell’acqua (1Sam 17,1-7), mostra tratti di severità estrema, ma nella fuga deve fidarsi della provvidenza di Dio per il suo sostentamento (corvi impuri lo nutrono…). Dio gli toglie l’acqua del ruscello, insegnandogli che lui ha più misericordia del suo popolo di quanta ne avesse Elia. Secondo la tradizione rabbinica, Elia era di stirpe sacerdotale e zelante come Pincas e, quindi, in un certo senso, più zelante di Dio stesso.
Elia è mandato dalla povera vedova di Sarepta, in territorio pagano, e deve fidarsi di Dio, deve accettare di essere aiutato da una povera vedova pagana. Anche la vedova dove fidarsi di quel Dio di cui Elia le ha parlato. Alla morte del figlio della vedova, Elia presenta a Dio il dolore della vedova e avviene la guarigione quando Elia rinuncia all’enorme potere che aveva sulle acque.
Le chiavi non affidate agli angeli, secondo il Talmud, sono tre: quella della nascita, quella della pioggia e quella della risurrezione. Nelle mani del Padrone non può rimanere una sola chiave. Il Creatore ne concede una sola alla volta. L’autorità di Elia non è assoluta. Ottiene il miracolo con la preghiera.
In 1Re 19, dopo la sfida vittoriosa del Carmelo con centinaia di morti, Elia fugge e scopre la verità della sua vita, che prima non aveva visto: l’aspetto doloroso, al punto da voler morire. Dopo un corvo e una vedova, ora un angelo lo conforta – cioè Dio stesso che si prende cura di lui – e gli fa proseguire il cammino. Sull’Horeb udrà il dolce sussurro, una brezza leggera, una voce interiore. Dio si rivela con segni inattesi, sempre più diversi da quelli conosciuti.
Elia salirà nel turbine e portato in cielo, ma prima viene educato, trasformato da Dio, che critica sempre in modo delicato la violenza religiosa e l’intransigenza del suo profeta. Dio gli ha ricordato che «la parola divina non deve penetrare a forza negli animi umani e che l’adesione al progetto della Torà deve avvenire per ciascuno con i propri tempi» (p. 83, cit. S. Alalli).
Nelle storie talmudiche Elia cresce enormemente di importanza, diventa il mediatore per eccellenza tra il mondo celeste e quello terreno. Viene paragonato ad altre forme di mediazione, come gli angeli o la “Bat Qol”, la “figlia della voce”, una forma speciale di comunicazione da parte del mondo divino.
Gesù, Elia e Mosè
Tradizionalmente si afferma che Mosè ed Elia rappresentano la Legge e i Profeti. Interpretazione debole, perché ci sono profeti scrittori importanti come Isaia o Geremia. Marco inverte l’ordine: «Elia e Mosè».
La novità proposta da Michelini è che il ruolo dei due vada forse riconsiderato anche partire dalle storie biografiche che li riguardano. Apparentemenete non è data alcuna ragione dell’apparizione di Mosè ed Elia. Luca informa che il dialogo con Gesù verte sull’“esodo” che si compirà con la morte a Gerusalemme. Il riferimento all’esodo tiene insieme la gloria che pervade la scena e l’abbassamento del Messia. Seguirà la morte del Messia e solo successivamente la sua glorificazione. Per Gesù non c’è gloria senza abbassamento.
Secondo lo studioso J.P. Heil – citato da Michelini –, la chiave per comprendere l’apparizione di Mosè ed Elia è il modo in cui i due profeti hanno raggiunto la gloria celeste, modo decisamente in contrasto con la glorificazione di Gesù. Tutti e tre hanno incontrato opposizione, rifiuto, sofferenza a causa del popolo. Elia non è morto, ma rapito in cielo. Mosè è morto in pace, col bacio di Dio e, secondo l’apocrifo Assunzione di Mosè (o Testamento di Mosè), anche Mosè sarebbe stato assunto in cielo come Elia.
Gesù, invece, arriverà alla gloria del cielo attraverso la morte (e solo dopo avverrà la sua risurrezione).
Secondo uno studio di M. Gilbert, Mosè ed Elia appaiono per consolare Gesù. Le prove subite da parte del popolo che guidavano e rappresentavano (vitello d’oro, fuga verso l’Oreb con constatazione del fallimento) hanno fatto sapere loro cosa comporti il rifiuto che Gesù sta sperimentando, perché l’hanno sperimentato in prima persona. Eventi avvenuti su un monte, in collegamento a un’idolatria, con la complicità di Aronnne… La presenza dei due non è tanto o solo per i discepoli, ma è per la consolazione di quel Figlio che sta per andare a Gerusalemme. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù deve intraprendere. Gesù viene consolato e rafforzato circa il suo esodo e anche per altre prove che ha vissuto e che vivrà ancora: ad es., le prove che vengono dai fratelli, dalle incomprensioni, dall’annuncio del Regno.
“È bello per noi essere qui”
Luca nota che i tre discepoli vengono presi dal sonno, che ricorda il torpore divino al momento della creazione della donna o dell’alleanza con Abramo. Quando passa Dio, non si è mai totalmente consapevoli e quanto sta accadendo sul Tabor riguarda una sfera che non è umana, ma divina. Non mentre si allontanano (Lc 9,33) ma proprio mentre parlano con Gesù, Pietro lo interrompe notando la bellezza di stare con lui, vedere la sua gloria. I due esseri appaiono in gloria e quindi appartengono alla sfera divina, dove sta Dio.
Sul Tabor avviene una visione che svela la divinità del Figlio, che in quella luce – che Dio aveva all’inizio separato dalle tenebre – mostra la sua bellezza in quanto egli stesso è Dio. «Gesù lasciò vedere qualcosa della sua divinità, manifestò a loro il Dio che stava abitando in mezzo a loro» (Giovanni Crisostomo, cit. p 108). Gesù manifesta però anche la bellezza della sua umanità, e per un momento mostra il volto dell’uomo come Dio l’ha pensato, che poi sarà sfigurato dai soprusi e dalle violenze subito dopo e lungo i secoli. È la bellezza originaria della natura umana ricordata nella Liturgia greco-cattolica della festa della Trasfigurazione.
Solo Matteo, nel suo vangelo molto attento al giudaismo, parla del volto di Gesù paragonandolo al sole. Alla luce delle tradizioni rabbiniche questa notazione si può spiegare come un’allusione al volto raggiante di Mosè mentre scende dal Sinai (Es 34,29-35). Delle sue vesti dice che divennero bianche come luce. In ebraico “luce” (’ôr) è molto simile a pelle (‘ôr). Nelle fonti giudaiche antiche si dice che i corpi di Adamo ed Eva all’inizio erano nudi ma avvolti da una nube di gloria o di un manto di luce. Adamo ed Eva era trasparenti l’uno all’altro. Dopo il peccato persero il loro vestito di luce che si trasformò in pelle. Ciò spiega perché nelle fonti rabbiniche si pensava che il Messia, quando si sarebbe manifestato, avrebbe rivestito il vestito di luce di Adamo.
«Ne consegue che Gesù non solo è il divino Figlio del Padre dell’eternità, ma in lui sul Tabor vi è la bellezza originaria di Adamo, la creatura più amata da Dio, per la quale esclamò che era cosa “molto buona”» (p. 111). La bellezza dell’umanità di Gesù è quella di ogni essere umano, quando non è occultata dal male o dal peccato. I discepoli possono vederla «perché il loro sguardo è finalmente cambiato e può cogliere ciò che si trova nel profondo dell’uomo» (ivi). Il «Figlio mio, l’amato» (Mt 17,5) richiama l’Isacco di Gen 22,2 e il popolo di Israele, “figlio” per eccellenza di YHWH, e rimanda all’uomo al quale Gesù trasfigurato ha fatto ritrovare la sua originaria trasparenza.
Quando la bellezza è totalmente occultata, può essere ritrovata solo grazie all’aiuto degli altri, come accadde a Francesco d’Assisi che, aiutato da Giacomo il semplice e pentito, ridiede dignità alla bellezza del lebbroso nascosta dietro la sua malattia mangiando nel suo stesso piatto.
Facciamo tre capanne
Michelini non pensa che il brano si contestualizzi nel periodo della Festa delle Capanne. Gesù sta salendo a Gerusalemme (cf. p. 114 nota 10; alla r 7 leggi però 20,17-18 e alla riga -2 leggi «la trasfigurazione avviene poco dopo»). Lo studioso Armand Puig ì Tàrrech pensa non a capanne o a tende ma ad un riparo di pietre trovate sul monte. Marco e Luca spiegano con imbarazzo l’inadeguatezza delle parole di Pietro. Ma non dicono perché sono inadeguate.
Nella storia vennero date alcune spiegazioni della proposta di Pietro. Egli non voleva tornare alle occupazioni quotidiane (Agostino); Pietro pretende di fermare il tempo, di rendere permanente il transitorio (C.M. Martini). Per K. Berger ci fu un’esperienza storica ma mistica, il cui significato è quello di distinguere il Figlio, che porta la rivelazione, dai profeti dell’antica alleanza. Volendo costruire tre tende (uguali) Pietro mette tutti sullo stesso piano, equiparando le autorità. «La tenda a cui allude Pietro non è tanto un’abitazione “privata”, ma il luogo della rivelazione e dell’incontro con Dio, come lo era la tenda di Mosè nel deserto, durante l’esodo dall’Egitto» (p. 117). Berger mette in chiaro la novità di Gesù rispetto agli antichi profeti.
Già Girolamo invitava a non cercare tre tabernacoli, ma solo il tabernacolo del Vangelo, «nel quale la Legge e i Profeti sono ricapitolati! Mentre cerchi tre tabernacoli, tu metti sullo stesso piano i due servi col Signore» (p. 118). Per Origene, la frase di Pietro era un ulteriore tentativo, dopo quello di Cesarea di Filippo, di fermare Gesù nel suo cammino verso la passione, quasi una replica del suo «Dio te ne scampi, Signore», pronunciato poco prima (cf. Mt 16,22). Una spiegazione posteriore, di tono politico, faceva allusione alle tende stampigliate sulla monete durante la rivolta di Bar Kokhba (132-135 d.C.), detto sia “figlio della stella” che “figlio della menzogna”.
La storia di Pietro
Come aveva fatto con Mosè e con Elia, nel c. 9 del suo libro Michelini ripercorre la storia di Pietro da Cafarnao al Tabor. Ricorda i tre salti di fiducia che è invitato a compiere nel momento della chiamata durante la pesca miracolosa (Lc 5,1-11): gettare le reti quando sembra inutile, riconoscere di fronte a Gesù la propria indegnità per le cose fatte male nella sua vita, accogliere la delicatezza con cui Gesù lo chiama a diventare pescatore di uomini.
La fragilità di Pietro è spesso rilevata nei vangeli. Si oppone o interrompe Gesù in quel che sta facendo o dicendo e lo contraddice. Guida la pretesa captativa degli abitanti di Cafarnao su Gesù uscito a pregare. Sul Tabor interrompe Gesù «mentre faceva questo discorso»; nell’Ultima Cena non vuol accettare di farsi lavare i piedi da Gesù. Volendo camminare sulle acque (Mt 14,22-33) sembra voler ostacolare Gesù, emulandolo, immaginando di poter fare come lui, di mettersi al pari di lui. «Solo Gesù però può camminare sul mare perché solo lui è il Dio-con-noi (cf. Mt 1,23; 28,20), che può camminare “sulle onde del mare”, come è scritto in Gb 9,8 a riguardo di Dio» (p. 127). Gesù è più di Mosè (che cammina sull’asciutto) e di Elia (che cammina sul mantello). Gesù cammina sul mare e supera l’ostacolo del mare e della morte (come Giona) ritornando dai discepoli. Gesù invita Pietro al cammino, ma riceve una severa lezione.
Come Mosè ed Elia, sul Tabor Pietro si presenta con tratti di fragilità, di mancanza di fede, che in qualche momento vuol tirare il maestro dalla sua parte, a volte vuole essere come lui o addirittura più di lui. A Cesarea di Filippo mostra inconsistenza nel capire chi è il messia Gesù ed è tentato di montarsi la testa, dimenticando di essere discepolo.
Gli evangelisti ricordano che questa volta è il Padre a interrompere colui che interrompe sempre Gesù. Pietro mostra una generosa iniziativa, ma non è quello che desidera il Padre. Come al battesimo, il Padre fa sentire la sua voce. Vera voce di Dio, e non debole eco, come era la “Bat Qol”, la “figlia della voce”, “una voce dal cielo”.
“Ascoltatelo”
Il comando è rivolto a tutti i tre discepoli, ma sembra indirizzato in modo particolare a Pietro. Un’esortazione per tutti i tempi. Se Gesù Cristo ora non lo si può vedere, lo si deve ascoltare, nella sua Parola. Lo si deve fare con umiltà, anche se investiti di autorità. Pietro rimane il primo, col potere delle chiavi, ma lo deve esercitare non con uso eccessivo, da “padrone”, ma come servo inutile. Pietro è chiamato «non a costruire ripari di pietra, ma ad ascoltare Gesù» (Armand Puig ì Tarrech, cit. p. 135).
La trasformazione sul Tabor «non riguarda solo Gesù, ma interpella anche Pietro, che dovrà finalmente accogliere la croce» (ivi). Come al battesimo, la voce del Tabor sottolinea che Gesù non è tanto il Cristo, ma è il Figlio, l’amato, l’unico da ascoltare. Pietro è invitato a trasformare la sua prospettiva su Gesù manifestata a Cesarea di Filippo pochi giorni prima. Pietro-Satana deve andare dietro a Gesù, cambiare idea su di lui e sul modo in cui questi è e sarà Messia e Figlio.
Gesù non rimprovera Pietro, non lo allontana, ma si avvicina a lui. Confortato da Mosè ed Elia, sostenuto dal Padre, Gesù ora tocca e incoraggia i fragili discepoli («Alzatevi e non temete» (Mt 17,7). Rialza Pietro dalle sue debolezze ma, da buon maestro, ricorda ancora la sua morte e risurrezione (v. 9), e questa volta Pietro non dice nulla. Pietro è cambiato.
Nella Seconda Lettera di Pietro e nelle versioni apocrife della scena, Pietro accoglie il martirio per Cristo, senza rinnegarlo (in Atti di Pietro, dopo il racconto che l’apostolo farà del Tabor, si narra della sua morte in croce).
In Gv 21,15-19 Gesù interroga Pietro sull’amore per lui ed egli gli risponde per tre volte che gli vuole bene. I verbi si equivalgono. Gesù non compie una resa a chi gli dice che gli può solo voler bene. Riprendo il bel paragrafo conclusivo di Michelini. «…poiché l’amicizia nel Quarto vangelo è molto importante, addirittura il vertice dell’amore, allora qui sembra proprio che Pietro abbia imparato la lezione. Dicendo di amare Gesù con l’amore di amicizia, si impegna a un amore che è capace di dare la vita per Gesù, suo amico, proprio come Gesù gli aveva insegnato: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici (philon)” (Gv 15,13). Pietro ha imparato dai suoi errori (e anche dal suo rinnegamento), e dà la sua vita per Gesù» (p. 140).
Nel c. 10 l’autore riporta alcune note sulla missione che deve essere trasformata. Finita la visione, la missione si trasforma. Si discende dal Tabor. La trasformazione del Cristo è quella che ha avuto luogo davanti agli occhi dei discepoli: Gesù era ed è sempre stato così, anche se i suoi non lo vedevano e solo in quell’istante il Padre ha permesso che mostrasse il suo volto. Da quella discesa può cambiare il modo in cui d’ora in poi lo cercheranno: non semplicemente nella gloria, ma nella fedeltà dell’esperienza quotidiana.
Il volume si conclude con un capitolo che analizza gli apocrifi Apocalisse di Pietro e Atti di Pietro, molto venerati nella Chiesa antica. Non sono resoconti ma riflessioni teologiche situate in prospettiva spazio-temporale postpasquale.
Volume ricco di spunti originali, supportati spesso dalle tradizioni rabbiniche non sempre conosciute ma importanti per capire i Vangeli, l’opera di Michelini si legge gradevolmente, anche per la novità dell’impostazione della ricerca, con lo studio su come i personaggi “arrivano” al Tabor. Il senso complessivo dell’evento della Trasfigurazione di Gesù, così come illustrato dall’autore, risulta in parte nuovo e molto arricchito.
- Giulio Michelini, Tabor. Il mistero della Trasfigurazione (La Bibbia e le parole s.n.), Edizioni Terra Santa, Milano 2020, pp. 176, € 14,00, ISBN 978-88-6240-812-7.