Il numero cui diamo subito attenzione nel consueto bollettino della pandemia diramato ogni giorno verso sera sono i morti di quel dì, sempre tanti, sempre troppi. Sempre a dirci, in verità, che in questa partita siamo perdenti, e non solo perché quei maledetti numeri sono maledettamente alti.
A questa costatazione di fallimento rispondiamo con le precauzioni, negazionisti permettendo o loro esclusi, ma soprattutto con la speranza di arrivare il più presto possibile al vaccino che ci immunizzerà tutti. E torneremo così «a riveder le stelle». Assieme, naturalmente, senza più divieti di assembramento e coprifuoco.
Per vivere (e non sopravvivere)
Tutto ciò infonde coraggio. O è coraggio, quel misto di sensazioni/emozioni che di solito ha tale paradossale genesi: nasce dal suo contrario, la paura, e dal disappunto legato alla sensazione di poter far ben poco per eliminarne la causa (in tal caso la prospettiva della morte); il coraggio, tenue all’inizio, è comunque nel farlo tutto quel poco, fino in fondo.
È così che il coraggio aumenta, quasi autoalimentandosi, tanto più se il gesto è condiviso da altri; mentre il tipo coraggioso sperimenta – quasi per incanto – che quel poco cresce via via come possibilità d’azione, va oltre quel che egli pensava d’esser capace di fare; e lo provoca ad alzare ancora l’asticella, a non cessare di dar sempre il massimo di sé, anche osando e rischiando, pagando di persona…
Il coraggio, allora, diventa sempre più quell’atteggiamento positivo con cui si affronta una situazione di pericolo, o con cui si tende a uno scopo dal raggiungimento difficoltoso e incerto.
Tutti vediamo quanto oggi ci sia bisogno di coraggio. E di coraggio per vivere e non sopravvivere o tirare a campare: c’è bisogno di coraggio per amare e lasciarsi amare, per sposarsi e fidarsi d’un altro, per fare un figlio e poi essergli davvero padre o madre… Tanto più per affrontare l’attuale situazione drammatica, che ci confronta ogni giorno con la paura più grande, quella della morte. Ma forse qui abbiamo bisogno d’un altro coraggio.
Per morire (e non crepare)
Il titoletto, specie il verbo tra parentesi, suona macabro e fuori luogo, ma non è eventualità così remota. Per questo non basta il coraggio di vivere, è necessario il coraggio di morire, o quell’atteggiamento interiore che ci consente di andare incontro alla morte con dignità e capacità di darle senso, di non subirla, né sentirla come rapina, ingiustizia, maledizione, destino beffardo…
Tale coraggio non nasce dalla paura, ma dall’accoglienza della vita come dono del tutto gratuito e immeritato, così ricco e intenso da render il vivente capace di far dono a sua volta della propria vita. E di andare incontro alla morte come la logica e inevitabile conclusione d’una esistenza vissuta pienamente, al massimo, dandole il senso più vero e più bello che l’uomo le possa mai dare, cioè generando “vita”, facendosi carico dell’altro, spendendosi: chi si dona e lo fa in modo molto concreto, infatti, “deve” morire prima o poi, perché l’amore ha una struttura pasquale, ma sarà lui che andrà incontro alla morte, non questa che gli capiterà all’improvviso, come un ladro, quando men se l’aspetta. Un po’ come Gesù («la mia vita nessuno me la toglie, io la do da me stesso», Gv 10,18).
La morte diventa allora “sorella morte”, conferma definitiva del proprio essersi donati, e compimento naturale del senso fondamentale dell’esistere umano: la vita è un bene ricevuto che tende, per natura sua, a divenire bene donato.
Chi invece non capisce questo e s’ostina egoista a tenersi la vita ben stretta nelle proprie mani, costui non muore, “crepa”. Ovvero: non ha avuto il coraggio di vivere, non avrà nemmeno la dignità di morire. Sarà dominato e soffocato dalla paura!
“Non andrà tutto bene”
Il coraggio di cui parliamo non è allora banale ottimismo che vuol credere a tutti i costi che anche stavolta ce la faremo, o temerarietà di chi nega tutto o non ha il senso del rischio, né è solo impegno pur benemerito a trovare rimedi, tanto meno è solo pregare e impetrare da Dio la grazia di non beccarsi il virus o di venirne fuori presto…
Il coraggio credente davvero non viene dalla paura, ma da quella fiducia che consente di guardare al futuro non pretendendo che “tutto andrà bene”, ma sapendo con assoluta certezza che Dio sarà al mio fianco, che non mi lascerà solo, nemmeno se sarò isolato-intubato in una camera d’ospedale, e mi darà la forza in ogni caso di vivere i miei giorni riempiendoli di luce… perché è Dio fedele, amico affidabile, mani sicure, garanzia d’un amore più forte della morte. Mi posso fidare di lui!
Non solo mi darà una vita oltre la morte, ma già ora mi dà di vivere una vita piena e generosa, ricca di amore e senza paure, persino libera di andare incontro alla morte… Una vita già eterna!