Mi capita spesso, quando faccio qualche incontro per dei gruppi giovani, di fare delle domande su vari argomenti, rivolte a tutti, per interagire un po’ e rendere l’incontro più partecipato. Se non conosco il gruppo e il gruppo non conosce me, normalmente nasce un po’ di imbarazzo: i ragazzi si guardano l’un l’altro, intimoriti che si tratti di una domanda trabocchetto. Io allora spiego che non è un test e che non ci sono risposte giuste o sbagliate, ma che voglio sentire la loro opinione. Dopo un altro po’ di silenzio, qualcuno si arrischia a rispondere. A questo punto mi è capitato che si presenti quella che possiamo chiamare la risposta indotta da catechesi. Normalmente tale risposta è semplice, breve (a volte di una sola parola) e solitamente coincide (o quasi) con una di queste tre opzioni: 1) «Dio», 2) «Gesù», 3) «amore».
Sono risposte semi automatiche, che forse andavano bene praticamente per qualunque domanda a catechismo, quando erano bambini. Ora, però, suonano un po’ vuote. La società e la cultura di oggi, in fondo, ci bersaglia – e i giovani in primis – con il messaggio che ciò che conta sono le risposte, i risultati e la concretezza. Tutte buone cose, certamente. Di conseguenza, però, i giovani corrono il rischio di essere pieni di risposte, di sapere moltissime cose (anche se di un tipo di cultura che qualcuno, più anziano, può trovare strana e poco ortodossa), ma il problema è che si sono scordati le domande. Sono confusi circa il valore delle domande, per esse non c’è spazio: a cosa può servire qualcosa di inutile come una domanda?
Eppure l’esperienza quotidiana ci dice che l’uomo è un produttore professionista di domande. Potremmo dire che è un punto di domanda con le gambe: non possiamo farne a meno. Il nostro cuore è abitato da mille questioni circa il passato, il presente, il futuro, la vita, l’amore, la morte, il pranzo, la salute, lo studio, il lavoro… Eppure sempre più i giovani sentono come inutile questa dimensione e le danno sempre meno valore. O, meglio, sentono che devono considerarla inutile, perché, volendo, a tutto c’è una risposta. Non pensiamo solo a wikipedia o a santoni in tv pronti a dare una risposta buona a tutto: a questa tentazione cadiamo spesso anche noi, operatori pastorali, nei nostri incontri e nei nostri colloqui. Ricorriamo sovente a quella che è stata chiamata pedagogia sapienziale, trascurando quella salmica, che valorizza la richiesta, la domanda, l’implorazione accorata e, soprattutto, quella parabolica, che interpella personalmente a mettersi in cammino.
Di risposte i giovani ne hanno tante, ma manca la comprensione del valore della domanda. Una risposta senza una domanda sentita è un po’ come una verniciata nuova su una parete cadente. Forse è davvero urgente recuperare la preziosità del questionare. La domanda, in fondo, è quella essenziale mediazione tra il problema – di per sé sterile e immobilizzante – e la risoluzione, il mettersi in cammino per elaborarlo e risolverlo. Ogni domanda serve da sprone per alzarci e crescere, perché i problemi nella nostra vita non restino tali ma si trasformino in coraggio di camminare: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» chiede Gesù a Bartimeo, a Gerico. Ed è questa domanda che smuove la risposta del cieco, la guarigione e il suo mettersi «lungo la strada» (Mc 10,46-52).
Certo, ogni domanda è in qualche misura destabilizzante. Essa porta sempre con sé ansia, agitazione e disorientamento, perché è sempre richiesta di ristrutturarci e di cambiare: è normale che i giovani (ma anche i meno giovani) vogliano evitare queste sensazioni poco piacevoli. Ma – citando Gaber nello spettacolo Il Grigio (1988) – c’è davvero necessità di «qualcuno o qualcosa che non faccia addormentare i tuoi dubbi, che non ti faccia riposare sulle tue presunte comode poltrone». Come ha detto papa Francesco alla veglia dell’ultima GMG, restando in tema di comodità e salotto, «non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti». La gioia di sapersi in crescita vale la pena della fatica del camminare.