Il canto liturgico è parte integrante della liturgia solenne (SC 112) perché favorisce la partecipazione di tutta l’assemblea dei fedeli. Difatti, «non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede… L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo» (SC 13).
Il canto, adeguato alla nobiltà della liturgia, fa parte dell’ars celebrandi a servizio della bellezza; non va considerato come un’aggiunta ornamentale in vista di una maggiore solennità, ma appartiene alla forma simbolico-rituale propria della celebrazione eucaristica, in cui il Risorto si fa presente nella sequenza del rito che dispiega, nel tempo e nello spazio, ciò che, avvenuto nel Cenacolo e sul Calvario, si fa Evento che, nella fede, i cuori amanti e oranti possono intuire e sperimentare nello Spirito, attraverso i segni.
L’arte del celebrare si apprende “in ginocchio”, frutto e riflesso di una intensa vita spirituale, di un rapporto intimo col Signore, di comprensione teologica e orante di ciò che si sta compiendo nella celebrazione col popolo. Lo stile di celebrare, «sebbene bisognoso – come tutte le arti – anche di formazione tecnica, affonda le sue radici nel cuore amante di coloro che con l’ordinazione, l’istituzione o di fatto sono stati chiamati a manifestare e a comunicare il mistero di Dio e il dono della sua salvezza» (Silvano Sirboni, RPL 4/2020).
Il popolo di Dio accorreva alle messe celebrate dai santi attratta più dallo stile di vita e dalla fede ben riflessi nel modo di celebrare, che da regie liturgiche molto elaborate.
Ciò comunque non significa che si debba prescindere dall’esigenza di curare la bellezza, che è frutto di quella «nobile semplicità» che deve coinvolgere anche il canto, grazie al quale la celebrazione «acquista un’espressione più gioiosa, gli animi si innalzano più facilmente alle cose celesti» (Musicam sacram, 16).
«La ricerca della sobrietà, contro la artificiosità di aggiunte inopportune si unisce ad un fondamentale rispetto per il linguaggio singolare della liturgia, che non confonde la semplicità con la sciatteria e che non rinuncia alla ricerca di un linguaggio degno della grandezza del Signore, attento alla qualità “poetica” di un linguaggio, che proprio come la poesia, si presenta come una “differenza che attrae”» (CEI, Un messale per le nostre assemblee, pag 34).
Criteri per discernere un canto liturgico
Il canto, che esprima la lode perenne, dev’essere dotato di autentiche qualità artistiche, di bellezza nella forma, ma anche di verità espressiva e autenticità di coinvolgimento.
Non sarebbe né autentico né vero liturgicamente se fosse contaminato da motivazioni ambigue e fuorvianti, come certe pretese, per celebrazioni particolari, di repertori suggeriti dal cattivo gusto; o avesse connotazioni che vanno dal festaiolo leggero al solenne lordo e pesante. Tutto ciò crea interferenza, disturba, confonde, dissocia, devia l’attenzione dai messaggi fondamentali e dagli atteggiamenti primari e diventa retorica pesante, ridondanza ingombrante, cicaleccio intemperante.
Tutte queste precisazioni non intendono certo suggerire una liturgia compassata, seriosa, guidata da un criterio perfezionista. Karl Barth diceva: «Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano la musica di Bach; sono certo, invece che, quando si trovano fra loro, suonano Mozart e allora anche il Signore trova particolare diletto ad ascoltarli».
L’atmosfera della celebrazione deve essere dunque di gioiosa festività, evitando due estremi: una celebrazione vissuta all’insegna di una perenne allegria a fronte di tanti drammi, oppure seriosa e ingessata e quindi opprimente.
Al riguardo, François Varillon diceva senza mezzi termini: «L’eucaristia deve essere una festa, ma non sarà mai un musical» (Gioia di credere e gioia di vivere, p. 287)
Il clima di festa sarà frutto di uno svolgimento sereno e di interventi canori del celebrante in dialogo cantato con l’assemblea e canti propri dell’assemblea. Partiamo da questa.
Interventi canori dell’assemblea
Già il canto all’ingresso segna l’inizio della celebrazione, e per l’assemblea serve da “camera di decompressione” perché gli animi siano introdotti nella celebrazione che prevede il canto del Kyrie e del Gloria che non siano riservati al solo coro. È opportuno cantare almeno il ritornello del salmo responsoriale, l’acclamazione al vangelo sia prima che dopo. È importante il dialogo con il celebrante al prefazio.
Il Santo, non essendo classificato tra i canti, ma tra le acclamazioni, deve essere eseguito da tutti. Il Messale offre la possibilità di interventi all’anamnesi, all’acclamazione dopo la dossologia, al Padre nostro, dopo l’embolismo.
L’Agnello di Dio dev’essere cantato interamente dall’assemblea, così pure il canto che accompagna la processione per la comunione eucaristica. Non è previsto un canto allo scambio della pace.
La celebrazione liturgica è armonica quando al canto del celebrante risponde l’assemblea con interventi brevi previsti dal rito e tali da coinvolgere tutti nell’azione liturgica e per tutta la sequenza del rito.
Le parti destinate al canto del presidente iniziano con il segno di croce e il saluto iniziale e il canto della colletta, proseguono col il dialogo prima e dopo la proclamazione del vangelo, il dialogo e il canto al prefazio, il canto dell’anamnesi – anche se non si è cantato al racconto della Cena –, come pure quello della dossologia al termine dell’anafora, l’invito alla preghiera del Signore, la preghiera del Signore, l’embolismo e la successiva preghiera per l’unità e la pace (quest’ultimo intervento cantato è una novità introdotta nella nuova edizione del Messale).
Anche i riti di conclusione prevedono il canto di tutte le parti. Per favorire e facilitare il canto del celebrante, sono state inserite nelle pagine dell’ordinario le parti in canto (nell’edizione precedente erano relegate in appendice), con una particolare attenzione ad alcuni tempi e solennità.
Questa corrispondenza speculare tra il celebrante principale e l’assemblea che celebra fa sì che il Messale non sia del solo prete, ma di tutta l’assemblea.
È chiaro però che non si può infarcire la celebrazione con tutti gli interventi suindicati riguardanti sia il celebrante che l’assemblea: tutto sta nel saper dosare, scegliendo in maniera oculata gli elementi da mettere in evidenza di volta in volta, tenendo presente il grado di solennità, il criterio dell’alternanza e del giusto equilibrio fra le varie parti della celebrazione.
Nel caso si voglia solennizzare utilizzando molte parti cantate, è importante però che quelle del popolo siano musicalmente brevi, incisive e non tortuose, in modo che non distraggano dal clima orante, finendo con l’appesantire la celebrazione per saturazione.
Ciò che è scritto nel messale allora prende forma, diventa vita, partecipazione attiva sentita, carica anche di pathos dell’assemblea, che non è più uditrice passiva di parole, a volte in eccesso.
Tutti i linguaggi e i sensi per coglierli sono interessati e coinvolti: parole, canti, gesti, colori, luci, odori, sapori, movimenti. Anche il linguaggio del silenzio, che facilita l’interiorità e accompagna l’offerta (il sacrificio) della vita ordinaria espressa in vari momenti del rito e significata dal rito delle gocce d’acqua versate nel calice.
Gli interventi e il dialogo canoro, se condotti con la semplicità e la naturalezza che sanno evitare toni stentorei, surreali ed enfatici, non metteranno tra parentesi, in quell’oasi temporale che è la messa, la cruda realtà di chi soffre, muore di fame, non sa dove sbattere la testa, vive ore di angoscia. Si sta celebrando il mistero pasquale che è risurrezione, ma attraverso la passione e la morte.
La liturgia poi non diventa «trasgressiva» (A. Grillo) nella misura in cui non perde di vista la concretezza dell’evento che celebriamo nel mistero: Cristo capofila degli emarginati, il servo sofferente. E aiuta a trarre le conseguenze per la vita personale e sociale.
Per una riuscita fusione tra canto e liturgia
Il repertorio dei canti sia prima di tutto appropriato al momento liturgico che si sta vivendo: si eviti perciò la genericità e la banalità. Ogni celebrazione (battesimo, confermazione, matrimonio, funerali…) richiedono canti che le si addicono.
Fonti sicure a cui attingere sono il Repertorio nazionale e La famiglia cristiana nella Casa del Padre: entrambi forniscono l’indice dei canti tenendo presente lo svolgimento del rito della messa, i vari tempi liturgici e gli altri sacramenti. Questi sussidi sono dei punti fermi in cui si potranno scoprire di anno in anno nuovi canti, senza dover necessariamente ricorrere a quanto viene sfornato di continuo, spesso all’insegna dell’effimero, senza una dignità letteraria e una nobiltà musicale.
Tuttavia, su fascicoli e riviste musicali si possono trovare canti pregevoli dal punto di vista musicale e linguistico.
Per la scelta di canti appropriati Amelio Cimini giustamente fa notare che «un canto va calato realisticamente nel momento rituale; oltre che avere una corrispondenza interna ad esso, deve anche permettere di partecipare alla coralità dell’azione liturgica. È semplicemente assurdo, ad esempio, considerare intercambiabili un canto d’ingresso e un salmo responsoriale, come non è logico utilizzare durante la processione di comunione un canto che richiede particolare attenzione per contenuto ed esecuzione tecnica.
La veloce usura di certi canti deriva proprio dal loro impiego ossessivo e indiscriminato (vedi i cosiddetti canti per tutte le stagioni come lo sono stati Al tuo santo altar, Resta con noi, Esci dalla tua terra, Symbolum ’77 ecc., canti benemeriti, ma eseguiti con disinvoltura a Natale, Pasqua, funerali, matrimoni, cresime e prime comunioni). I tempi forti e le grandi solennità dovrebbero avere i loro canti caratteristici, non intercambiabili con quelli di altri tempi o feste».
Ci sono infatti i “canti segnale” per i tempi forti che devono essere necessariamente presenti durante la celebrazione perché le danno una coloritura particolare in sintonia col tempo liturgico, liberi ovviamente di introdurne altri, evitando però di celebrare per esempio le messa del tempo natalizio prescindendo dai canti che il popolo conosce e ama cantare.
Nella scelta del repertorio spesso si punta sull’effetto, affidando il tutto a un gruppo particolare, trascurando però l’assemblea e lasciando sguarniti, da un punto di vista liturgico-canoro, alcuni snodi fondamentali del rito, con una conseguente estrema povertà liturgica pur in tanto fasto canoro.
I canti saranno scelti tenendo presenti le possibilità dall’assemblea, il contenuto con riferimenti biblici e in linea con la grammatica e la sintassi. Siano tali da rasserenare gli animi, favorendo la calma e la preghiera interiore che scaturisce dal rito stesso, e senza che l’assemblea venga ferita con lagne o al contrario con toni troppo esaltati per essere veri. In medio stat virtus.
Più che essere preoccupati di cambiare continuamente, è consigliabile «un’acquisizione di materiali agili, come dialoghi-risposte, acclamazioni, ritornelli di benedizione o di supplica, litanie. Una regia che sa organizzare con proprietà simili elementi, solo in apparenza poveri, ottiene a volte vantaggi non inferiori a quelli legati all’impiego di materiali laboriosi in fase sia di apprendimento che di esecuzione… Una messa parrocchiale di una comunità volenterosa e fedele ai valori profondi, benché povera di possibilità musicali, può essere più solenne di celebrazioni spettacolari, fascinose, ricche di apparati tali da attirare l’attenzione della cronaca e i consensi della critica» (F. Rainoldi). La nuova edizione del Messale favorisce questo criterio.
Nelle celebrazioni con prevalenza di fanciulli si utilizzeranno canti adatti per loro e all’estensione vocale dell’età. Non mancano al riguardo delle belle composizioni.
Tuttavia, volendo al riguardo allargare il discorso, credo opportuno riportare le severe osservazioni di Giuliano Zanchi: «La questione dei bambini nella liturgia per esempio è sotto questo profilo emblematica. Ha persistito la convinzione che iniziare i bambini alla liturgia significasse buttarli nel cuore dell’azione, a leggere, a cantare, a fare musica, a diventare protagonisti di gesti escogitati ad hoc, producendo pazientemente le condizioni per una infantilizzazione della liturgia di cui non si è capaci di mettere in conto il serio effetto deteriore sull’insieme della vita comunitaria.
Il furore dadaista prodotto dall’effetto combinato di questi equivoci ha soffiato su ogni tipo di strategia additiva, di innesto emotivo, di supplemento didattico, di integrazione ludica, finiti a comporre quel senso comune della cura liturgica che ha gaiamente perseguito la strada di espedienti al ribasso, più vicini alla logica dell’intrattenimento che ai processi della mistagogia» (Rimessi in viaggio, p. 56).
La corretta esecuzione dei canti
A questo punto è chiamata in causa la competenza musicale degli animatori del canto liturgico i quali, invece di affidarsi acriticamente alle esecuzioni offerte dai media o alle deformazioni ormai consolidatesi, dovrebbero essere capaci di una corretta interpretazione della partitura, rispettando il solfeggio e tenendo presente la regola d’oro: cantare come si parla. Si elimineranno così progressivamente pronunce e accentuazioni sbagliate di stampo provinciale, liberando la modalità del canto liturgico dal forte condizionamento da parte dei cantautori e dei doppiaggi di certe fiction.
Va corretta pure la tendenza alla lentezza e al portamento arbitrario tra una nota e l’altra: deformazioni che creano il patois tipico di un certo modo di cantare in chiesa che facilmente si presta al birignao da parte del comico di turno che ben sa imitare tutte le deformazioni, a partire dall’alleluia pasquale gregoriano, nobile ed agile fluire di crome secondo arsi e tesi, diventato un monstrum musicale di semiminime, con un assurdo e accentuato rallentando in un’acclamazione di sole tre battute.
La cura dell’agilità e dell’eleganza nel ritmo e nel fraseggio, l’adesione delle parole alla musica e viceversa, senza sdolcinature o forzature, il giusto rilievo dato ad ogni accento nell’ambito della stessa battuta, il leggero crescendo o diminuendo sia nel tono che nel fraseggio, una corretta articolazione orale nell’emissione dei suoni, una corretta respirazione che segua il senso compiuto di una frase, sono tutti elementi che danno le ali al canto che, espresso con decoro, diventa una vera lode che fa trasparire lo splendore e la misteriosa bellezza della liturgia.
Questo articolo, nonostante la bontà dell’intenzione, come tanti altri dice solo in modo diverso ciò che si è detto e ridetto da decenni e per di più con svariate imprecisioni, luoghi comuni e prassi date per scontate. La teoria ormai la si conosce. Manca invece uno studio serio e
critico del rapporto testo-melodia dei canti e ciò può essere fatto solo dal musicista o dal poeta, figure purtroppo rare tra gli autori degli innumerevoli canti liturgici che ancora oggi utilizziamo nelle nostre liturgie.
Forse gli angeli, quando sono intenti a rendere lode a Dio, suonano la musica di Bach; sono certo, invece che, quando si trovano fra loro, suonano Mozart.
Invece nelle nostre chiese normalmente si cantano le canzoni di Sanremo.