La parrocchia di San Vito al Giambellino di Milano, già dal primo lockdown, ha messo in esercizio delle pratiche di celebrazione domestica. In preparazione al Natale hanno invitato alcuni amici per pensare insieme su questo tema. Condividiamo con i lettori di SettimanaNews l’intervento di suor Francesca Balocco, ringraziando la comunità della parrocchia per la calorosa ospitalità che ha saputo trasmettere anche nel non-luogo un po’ asettico della rete.
Sono stata invitata a riflettere sul senso delle celebrazioni domestiche, in questo tempo in cui siamo stati condotti a percepire i tempi, gli spazi, i movimenti in modo diverso e di conseguenza introdotti in questa novità del celebrare che sempre più sta diventando per molti cristiani il modo ordinario di celebrare la fede.
Condivido quindi pensieri che nascono da un’esperienza vissuta e riletta, che cerca di essere detta in queste righe.
La prima sensazione, di fronte alla necessità celebrare tra le mura di ciò che ci è fin troppo familiare, è quella del ripiego: non avendo possibilità o ritenendo più prudente non partecipare a celebrazioni comunitarie ci siamo ripiegati, ci siamo adattati a questa modalità. Ci siamo sentiti forse espropriati di qualcosa che era conosciuto, familiare, un modello che avevamo imparato a seguire e per questo forse un poco rassicurante. Ripiego e smarrimento.
Dove voi siete
Ma dopo la prima reazione, forse in modo più autentico e profondo, emerge la possibilità di vivere con gratitudine questa dislocazione, di cogliere in questo cambio di posizione un’opportunità. Emerge la sensazione di essere stati restituiti a qualcosa che già ci apparteneva, qualcosa di conosciuto e di nuovo, qualcosa di essenziale e originario.
Perché, a ben pensarci, lungo la storia della salvezza, i luoghi in cui Dio si rivela raramente sono luoghi istituzionali, strutturati, definiti: il deserto, il mare, la strada, le case… contempleremo a breve l’Epifania del Signore nella mangiatoia di una stalla… manifestazioni che spesso sono accompagnate dalla sorpresa e dallo stupore per la scoperta della presenza di Dio: Il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo… (Gn 28,11).
Molti modi e molti luoghi hanno caratterizzato il rivelarsi di Dio nella storia, ma è in particolare nel tempo doloroso e incerto dell’esilio che il popolo fa un’esperienza di Dio unica e trasformante. La situazione dell’esilio non è certamente desiderabile, è un tempo di costrizione: il popolo vive un esodo forzato, vive in un luogo non scelto, carico di minaccia che pone domande sulla fine, ma soprattutto sull’inizio e sul presente. Dov’è Dio? Come e dove riscoprire la sua presenza ora che si è perso tutto ciò che sembrava stabile?
Domande che appartengono a un popolo di esiliati ma che sembrano essere così attuali in questo tempo che stiamo vivendo. In un tempo in cui ci sentiamo costretti e minacciati e in cui viviamo il dolore della perdita e della lontananza, la storia della salvezza e la vicenda del popolo d’Israele ci offrono la possibilità di scendere in profondità per cercare la solidità dell’inizio e così trasformare la costrizione in opportunità.
L’opportunità nella costrizione
Quale opportunità ci offre questo tempo? Quale occasione ci viene data per riscoprire i luoghi della presenza di Dio e il modo di celebrarla?
In esilio il popolo scopre che Dio è presente lì, in mezzo a loro, dove vivono – sono stati condotti, confinati e lì, nel cuore dell’esilio e della costrizione Dio si rivela come Colui che non ha bisogno di un luogo istituzionalizzato per essere incontrato, perché è Lui stesso luogo, spazio, tempo e relazione. In esilio sono crollate tutte le certezze che erano legate all’apparente stabilità delle istituzioni politiche, religiose, nazionali e questo crollo, questa perdita, sono state l’occasione per riscoprire che è vero quanto Dio aveva detto a Davide tramite il profeta Natan… Ma io non ho abitato in una casa… fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda… ho camminato, ora qua, ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti (cf. 2Sam 7,5ss). All’immobilità costretta del popolo sopperisce la libera scelta di itineranza da parte di Dio.
Questo tempo nuovo e destabilizzante che stiamo vivendo, e che ci porterà a vivere e a celebrare in modo diverso la venuta del Signore Gesù nel tempo e nella storia, porta in sé una grande opportunità: ci viene restituito ciò che già da tempo ci apparteneva – la libertà di lasciarci incontrare da Dio lì dove siamo e come siamo, nelle nostre case, negli ospedali, in quarantena, al lavoro, riscoprendo e celebrando, proprio lì dove siamo, la sua presenza in mezzo a noi.
E a un certo punto sappiamo che l’esilio finisce. Anche noi desideriamo la fine di questo tempo di pandemia, desideriamo con forza un post Covid-19… ma come sarà questo dopo? Davvero vogliamo che tutto torni come prima? Non sarebbe come vivere una parentesi, magari stringendo i denti, ma senza lasciare che questo tempo ci suggerisca nuove forme del vivere e del celebrare? Desideriamo giustamente un ritorno alla normalità, ma cosa significa questo? È così incredibile pensare che questo tempo possa trascinare con sé qualcosa di diverso da cercare e da vivere?
Certamente ci manca il celebrare insieme, e forse viviamo le restrizioni con un po’ di nostalgia di quello che è stato, ma sappiamo bene che la nostra memoria a volte ricorda molto di più rispetto alla realtà e la abbellisce. Il popolo in esilio piangeva la lontananza dal tempio, dalla terra e supplicava la possibilità di un ritorno.
Eppure quando c’è stata la possibilità di tornare, solo un resto, trasformato per sempre dalla esperienza vissuta, ha fatto ritorno alla terra. L’esilio apre possibilità diverse ed è per questo che la celebrazione domestica ci offre l’opportunità della decisione.
Il tempo e l’esilio
Forse non tutti torneremo alle celebrazioni comunitarie parrocchiali, forse qualcuno si perderà o prenderà strade diverse, forse qualcuno scoprirà modalità nuove di celebrare la presenza di Dio nella propria vita. E qualcuno certamente tornerà. Forse per pigrizia, forse alla ricerca di forme rassicuranti; o forse tornerà chi avrà saputo dare senso alla dispersione, chi avrà saputo comprendere che si può celebrare pubblicamente ciò che si è imparato a celebrare nell’intimità familiare o nella solitudine. Celebreremo insieme ciò a cui avremo saputo dare corpo, sangue, vita, nel segreto dell’intimità.
I gesti, le parole comuni, che scandiscono la celebrazione pubblica, assumono significato se abbiamo avuto la possibilità e la pazienza di prepararci. Torneremo con gioia a rendere grazie insieme perché abbiamo sperimentato che c’è qualcosa per cui rendere grazie. La decisione di cui parliamo pertanto non si gioca sul tornare o meno a celebrare insieme, ma si tratta di una decisione sul senso delle nostre parole e gesti comuni, sul significato personale che diamo a ciò che celebriamo insieme.
La celebrazione domestica può inoltre aiutarci a recuperare ritmi, tempi, parole e gesti che sono alla nostra portata e questo chiede responsabilità. Ed ecco qui un’altra opportunità: crescere nella responsabilità, personale e familiare, del nostro cammino di fede.
È nella semplicità della celebrazione domestica che troviamo la forza per “uscire” incontro ad altri e per rendere grazie assieme a loro; nell’intimità che ci custodisce sperimentiamo la leggerezza di essere noi stessi, abitati dalla gioia, dal desiderio ma anche dalla lotta con il fatto che, a volte, non ne abbiamo voglia. La decisone di tornare richiede la responsabilità almeno del tentativo di prendersi cura della propria crescita nella fede che si traduce in gesti e parole buoni, buona notizia dentro le mura domestiche.
La responsabilità è anche un invito a non operare una sostituzione, né la celebrazione domestica può sostituire, nel suo significato, la celebrazione comune, né la celebrazione comune può esoneraci dal tentare questa responsabilità.
In mezzo, fra i piedi
L’esilio è stato un passaggio all’interiorità, un passaggio che rende Dio familiare, uno di casa. Familiarità con Colui che è venuto ad abitare in mezzo a noi. È inevitabile che quando qualcuno o qualcosa sta in mezzo ci si vada a sbattere… e superata la tentazione di spostare Dio dal centro delle nostre case e delle nostre vite, possiamo riscoprire il gusto della sua visibilità nella nostra ferialità. È la presenza stessa di Dio che rende un luogo adatto a Dio.
La quotidianità è il luogo privilegiato dove Dio si manifesta, proprio lì dove viviamo, nella quiete della stanza, nel caos della cucina, nel vocio della sala da pranzo, nella gioia e nella drammaticità della nostre relazioni… Tutto questo non solo è presenza di Dio, ma è anche il testo principale della nostra celebrazione domestica, è la vita stessa che ci offre il testo per la preghiera.
È sicuramente meno difficile e più rassicurante cercare Dio dove lo abbiamo sempre incontrato o dove nutriamo la certezza di incontralo, che trovarlo nella confusione della nostra casa, eppure è proprio lì dove ci sono i nostri affetti, le nostre paure e gioie, che Dio diventa uno di famiglia… un Dio che si fa carne, che sta in mezzo, esattamente in quei luoghi dove ci giochiamo la vita, nella bellezza e nella drammaticità delle nostre relazioni più care.
Non a caso Dio ci consegna il suo desiderio di essere tutto in tutti attraverso l’immagine del banchetto, che è molto di più del semplice mangiare e bere, è relazione e narrazione.
Verrò e cenerò con voi
Attorno al banchetto si celebra la vita, ed è Dio stesso a offrirci questa immagine di liturgia domestica, dove sono celebrati la gioia, il dolore l’incertezza, come tra amici.
Forse, in mezzo a tanto dolore, a tanta incertezza e paura ci si presenta l’occasione per imparare a coinvolgere Dio in quello che facciamo e che viviamo, per farlo finalmente entrare a casa nostra.
Ecco io sto alla porta e busso se qualcuno mi apre verrò e cenerò con lui (Ap 3,20). Sono le parole del Libro dell’Apocalisse, della Rivelazione, un invito a sperimentare che Dio viene per rimanere lì dove lo lasciamo entrare.