Discorso di papa Francesco ai membri del Collegio Cardinalizio e della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi.
Cari fratelli e sorelle,
1. Il Natale di Gesù di Nazaret è il mistero di una nascita che ci ricorda che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per rincominciare»,[1] come osserva in maniera tanto folgorante quanto incisiva Hannah Arendt, la filosofa ebrea che rovescia il pensiero del suo maestro Heidegger, secondo cui l’uomo nasce per essere gettato nella morte. Sulle rovine dei totalitarismi del novecento, Arendt riconosce questa verità luminosa: «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità. […] È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».[2]
2. Davanti al Mistero dell’Incarnazione, accanto al Bambino adagiato in una mangiatoia (cfr Lc 2,16), come pure davanti al Mistero Pasquale, al cospetto dell’uomo crocifisso, troviamo il posto giusto solo se siamo disarmati, umili, essenziali; solo dopo aver realizzato nell’ambiente in cui viviamo – compresa la Curia Romana – il programma di vita suggerito da San Paolo: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,31-32); solo se “rivestiti di umiltà” (cfr 1 Pt 5,5), imitando Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11, 29); solo dopo essersi messi «all’ultimo posto» (Lc 14,10) ed essere diventati “servi di tutti” (cfr Mc 10,44). E a questo proposito, Sant’Ignazio nei suoi Esercizi arriva fino al punto di chiedere di immaginarci nella scena del presepe, «facendomi io – scrive – poverello e indegno servitorello che li guarda, li contempla e li serve nelle loro necessità» (114, 2).
Ringrazio il Cardinale Decano per le sue parole di accoglienza in questo Natale, che ha espresso il sentire di tutti. Grazie, Cardinale Re, grazie.
3. Questo Natale è il Natale della pandemia, della crisi sanitaria, della crisi economica sociale e persino ecclesiale che ha colpito ciecamente il mondo intero. La crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti.
Questo flagello è stato un banco di prova non indifferente e, nello stesso tempo, una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità.
Quando il 27 marzo scorso, sul sagrato di San Pietro, davanti alla piazza vuota ma piena di un’appartenenza comune che ci unisce in ogni angolo della terra, quando lì ho voluto pregare per tutti e con tutti, ho avuto modo di dire ad alta voce il possibile significato della “tempesta” (cfr Mc 4,35-41) che si era abbattuta sul mondo: «La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità, lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità. Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli».
4. La Provvidenza ha voluto che proprio in questo tempo difficile potessi scrivere Fratelli tutti, l’Enciclica dedicata al tema della fraternità e dell’amicizia sociale. E una lezione che ci viene dai Vangeli dell’infanzia, dove è narrata la nascita di Gesù, è quella di una nuova complicità – una nuova complicità! – e unione che si crea tra coloro che ne sono i protagonisti: Maria, Giuseppe, i pastori, i magi e tutti quelli che, in un modo o nell’altro, hanno offerto la loro fraternità, la loro amicizia affinché potesse essere accolto nel buio della storia il Verbo che si è fatto carne (cfr Gv 1,14).
Così scrivevo all’inizio di questa Enciclica: «Desidero tanto che, in questo tempo che ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti: “Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”.[3] Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (n. 8).
5. La crisi della pandemia è un’occasione propizia per una breve riflessione sul significato della crisi, che può aiutare ciascuno.
La crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione. Si tratta di una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale. Si manifesta come un evento straordinario, che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare. Come ricorda la radice etimologica del verbo krino: la crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura.
Anche la Bibbia è popolata di persone che sono state “passate al vaglio”, di “personaggi in crisi” che però proprio attraverso di essa compiono la storia della salvezza.
La crisi di Abramo, che lascia la sua terra (cfr Gen 12,1-2) e che deve vivere la grande prova di dover sacrificare a Dio il suo unico figlio (cfr Gen 22,1-19), si risolve da un punto di vista teologale con la nascita di un nuovo popolo. Ma questa nascita non risparmia Abramo dal vivere un dramma dove la confusione e lo spaesamento non hanno avuto la meglio solo per la fortezza della sua fede.
La crisi di Mosè si manifesta nella sfiducia in sé stesso: «Chi sono io per andare dal faraone e far uscire gli Israeliti dall’Egitto?» (Es 3,11); «io non sono un buon parlatore, […] ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10); «ho le labbra incirconcise» (Es 6,12.30). Per questo, egli tenta di sottrarsi dalla missione affidatagli da Dio: “Signore, manda altri” (cfr Es 4,13). Ma, attraverso questa crisi, Dio fece di Mosè il suo servo, che guidò il popolo fuori dall’Egitto.
Elia, il profeta tanto forte da essere paragonato al fuoco (cfr Sir 48,1), in un momento di grande crisi desiderò persino la morte, ma poi sperimentò la presenza di Dio non nel vento impetuoso, non nel terremoto, non nel fuoco, ma in un “un filo di silenzio sonoro” (cfr 1 Re 19,11-12). La voce di Dio non è mai quella rumorosa della crisi, ma è la voce silenziosa che ci parla dentro la crisi stessa.
Giovanni Battista è attanagliato dal dubbio sull’identità messianica di Gesù (cfr Mt 11,2-6), perché non si presenta come il giustiziere che egli forse attendeva (cfr Mt 3,11-12); ma proprio l’incarcerazione di Giovanni è l’avvenimento in seguito al quale Gesù inizia a predicare il Vangelo di Dio (cfr Mc 1,14).
E infine la crisi teologica di Paolo di Tarso: scosso dal folgorante incontro con Cristo sulla via di Damasco (cfr At 9,1-19; Gal 1,15-16), viene spinto a lasciare le sue sicurezze per seguire Gesù (cfr Fil 3,4-10). San Paolo è stato davvero un uomo che si è lasciato trasformare dalla crisi, e per questo è stato artefice di quella crisi che ha spinto la Chiesa a uscire fuori dal recinto d’Israele per arrivare fino agli estremi confini della terra.
Potremmo prolungare l’elenco di personaggi biblici, e in esso ognuno di noi potrebbe trovare il proprio posto. Sono tanti.
Ma la crisi più eloquente è quella di Gesù. I Vangeli sinottici sottolineano che Egli inaugura la sua vita pubblica attraverso l’esperienza della crisi vissuta nelle tentazioni. Per quanto possa sembrare che il protagonista di questa situazione sia il diavolo con le sue false proposte, in realtà il vero protagonista è lo Spirito Santo; è Lui, infatti, che conduce Gesù in questo tempo decisivo per la sua vita: «Fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo» (Mt 4,1).
Gli Evangelisti sottolineano che i quaranta giorni vissuti da Gesù nel deserto sono segnati dall’esperienza della fame e della debolezza (cfr Mt 4,2; Lc 4,2). Ed è proprio al fondo di questa fame e di questa debolezza che il Maligno cerca di giocare la sua carta vincente, facendo leva sull’umanità stanca di Gesù. Ma in quell’uomo provato dal digiuno il Tentatore sperimenta la presenza del Figlio di Dio che sa vincere la tentazione mediante la Parola di Dio, non mediante la propria. Gesù mai dialoga con il diavolo, mai, e noi dobbiamo imparare da questo. Con il diavolo mai si dialoga: Gesù o lo caccia via, o lo obbliga a manifestare il suo nome; ma con il diavolo, mai si dialoga.
Successivamente Gesù affrontò una indescrivibile crisi nel Getsemani: solitudine, paura, angoscia, il tradimento di Giuda e l’abbandono degli Apostoli (cfr Mt 26,36-50). Infine, venne la crisi estrema sulla croce: la solidarietà con i peccatori fino a sentirsi abbandonato dal Padre (cfr Mt 27,46). Nonostante ciò, Egli con piena fiducia “consegnò il suo spirito nelle mani del Padre” (cfr Lc 23,46). E questo suo pieno e fiducioso abbandono aprì la via della Risurrezione (cfr Eb 5,7).
6. Fratelli e sorelle, questa riflessione sulla crisi ci mette in guardia dal giudicare frettolosamente la Chiesa in base alle crisi causate dagli scandali di ieri e di oggi, come fece il profeta Elia che, sfogandosi con il Signore, gli presentò una narrazione della realtà priva di speranza: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita» (1 Re 19,14). E quante volte anche le nostre analisi ecclesiali sembrano racconti senza speranza. Una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire. Dio risponde ad Elia che la realtà non è così come l’ha percepita lui: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; […] Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l’hanno baciato» (1 Re 19,15.18). Non è vero che lui sia solo: è in crisi.
Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi. Qui nella Curia sono molti coloro che danno testimonianza con il lavoro umile, discreto, senza pettegolezzi, silenzioso, leale, professionale, onesto. Sono tanti tra voi, grazie. Anche il nostro tempo ha i suoi problemi, ma ha anche la testimonianza viva del fatto che il Signore non ha abbandonato il suo popolo, con l’unica differenza che i problemi vanno a finire subito sui giornali – questo è di tutti i giorni – invece i segni di speranza fanno notizia solo dopo molto tempo, e non sempre.
Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi.[4] E’ il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio. «Perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,5).
7. Infine, io vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti.
La logica del conflitto cerca sempre i “colpevoli” da stigmatizzare e disprezzare e i “giusti” da giustificare per introdurre la consapevolezza – molte volte magica – che questa o quella situazione non ci appartiene. Questa perdita del senso di una comune appartenenza favorisce la crescita o l’affermarsi di certi atteggiamenti di carattere elitario e di “gruppi chiusi” che promuovono logiche limitative e parziali, che impoveriscono l’universalità della nostra missione. «Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo il senso dell’unità profonda della realtà» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 226).
La Chiesa, letta con le categorie di conflitto – destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti – frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un Corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo, ma non deve mai diventare un corpo in conflitto, con vincitori e vinti. Infatti, in questo modo diffonderà timore, diventerà più rigida, meno sinodale, e imporrà una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa.
La novità introdotta dalla crisi voluta dallo Spirito non è mai una novità in contrapposizione al vecchio, bensì una novità che germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo. Gesù usa un’espressione che esprime in maniera semplice e chiara questo passaggio: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). L’atto di morire del seme è un atto ambivalente, perché nello stesso tempo segna la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Chiamiamo lo stesso momento morte-marcire e nascita-germogliare perché sono la medesima cosa: davanti ai nostri occhi vediamo una fine e allo stesso tempo in quella fine si manifesta un nuovo inizio.
In questo senso, tutte le resistenze che facciamo all’entrare in crisi lasciandoci condurre dallo Spirito nel tempo della prova ci condannano a rimanere soli e sterili, al massimo in conflitto. Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa. I Padri della Chiesa erano consapevoli di questo, che chiamavano “la metanoia”.
8. Sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento: è un passo avanti. Ma se vogliamo davvero un aggiornamento, dobbiamo avere il coraggio di una disponibilità a tutto tondo; si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova Costituzione Apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa.
Non si tratta di “rattoppare un abito”, perché la Chiesa non è un semplice “vestito” di Cristo, bensì è il suo corpo che abbraccia tutta la storia (cfr 1 Cor 12,27). Noi non siamo chiamati a cambiare o riformare il Corpo di Cristo – «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e per sempre!» (Eb 13,8) – ma siamo chiamati a rivestire con un vestito nuovo quel medesimo Corpo, affinché appaia chiaramente che la Grazia posseduta non viene da noi ma da Dio: infatti, «noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi» (2 Cor 4,7). La Chiesa è sempre un vaso di creta, prezioso per ciò che contiene e non per ciò che a volte mostra di sé. Alla fine, avrò il piacere di donarvi un libro, dono di Padre Ardura, dove si mostra la vita di un vaso di creta, che ha fatto risplendere la grandezza di Dio e le riforme della Chiesa. Questo è un tempo in cui sembra evidente che la creta di cui siamo impastati è scheggiata, incrinata, spaccata. Dobbiamo sforzarci affinché la nostra fragilità non diventi ostacolo all’annuncio del Vangelo, ma luogo in cui si manifesta il grande amore con il quale Dio, ricco di misericordia, ci ha amati e ci ama (cfr Ef 2,4). Se noi tagliassimo Dio, ricco di misericordia, dalla nostra vita, la nostra vita sarebbe una bugia, una menzogna.
Durante il periodo della crisi, Gesù ci mette in guardia da alcuni tentativi per uscirne fuori che sono destinati fin dall’inizio ad essere fallimentari, come colui che «strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio»; il risultato è prevedibile: si strapperà il nuovo, perché «al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo». Analogamente «nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi» (Lc 5,36-38).
Il comportamento giusto invece è quello dello «scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli», il quale «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Il tesoro è la Tradizione che, come ricordava Benedetto XVI, «è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti. Il grande fiume che ci conduce al porto dell’eternità» (Catechesi, 26 aprile 2006). Mi viene in mente la frase di quel grande musicista tedesco: “La tradizione è la salvaguardia del futuro e non un museo, custode delle ceneri”. Le “cose antiche” sono costituite dalla verità e dalla grazia che già possediamo. Le cose nuove sono i vari aspetti della verità che via via comprendiamo. Quella frase del secolo V: “Ut annis scilicet consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”: questa è la tradizione, così cresce. Nessuna modalità storica di vivere il Vangelo esaurisce la sua comprensione. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito Santo, ogni giorno ci avvicineremo sempre di più a «tutta la verità» (Gv 16,13). Al contrario, senza la grazia dello Spirito Santo, si può persino cominciare a pensare la Chiesa in una forma sinodale che però, invece di rifarsi alla comunione con la presenza dello Spirito, arriva a concepirsi come una qualunque assemblea democratica fatta di maggioranze e minoranze. Come un parlamento, per esempio: e questa non è la sinodalità. Solo la presenza dello Spirito Santo fa la differenza.
9. Che cosa fare durante la crisi? Innanzitutto, accettarla come un tempo di grazia donatoci per capire la volontà di Dio su ciascuno di noi e per la Chiesa tutta. Occorre entrare nella logica apparentemente contraddittoria che «quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor 12,10). Si deve ricordare l’assicurazione data da San Paolo ai Corinzi: «Dio è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13).
Fondamentale è non interrompere il dialogo con Dio, anche se è faticoso. Pregare non è facile. Non dobbiamo stancarci di pregare sempre (cfr Lc 21,36; 1 Ts 5,17). Non conosciamo alcun’altra soluzione ai problemi che stiamo vivendo, se non quella di pregare di più e, nello stesso tempo, fare tutto quanto ci è possibile con più fiducia. La preghiera ci permetterà di “sperare contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18).
10. Cari fratelli e sorelle, conserviamo una grande pace e serenità, nella piena consapevolezza che tutti noi, io per primo, siamo solo «servi inutili» (Lc 17,10), ai quali il Signore ha usato misericordia. Per questo, sarebbe bello se smettessimo di vivere in conflitto e tornassimo invece a sentirci in cammino, aperti alla crisi. Il cammino ha sempre a che fare con i verbi di movimento. La crisi è movimento, fa parte del cammino. Il conflitto, invece, è un finto cammino, è un girovagare senza scopo e finalità, è rimanere nel labirinto, è solo spreco di energie e occasione di male. E il primo male a cui ci porta il conflitto, e da cui dobbiamo cercare di stare lontani, è proprio il chiacchiericcio: stiamo attenti a questo! Non è una mania che io ho, parlare contro il chiacchiericcio; è la denuncia di un male che entra nella Curia; qui a Palazzo ci sono tante porte e finestre ed entra, e noi ci abituiamo a questo; il pettegolezzo, che ci chiude nella più triste, sgradevole e asfissiante autoreferenzialità, e trasforma ogni crisi in conflitto. Il Vangelo racconta che i pastori credettero all’annuncio dell’Angelo e si misero in cammino verso Gesù (cfr Lc 2,15-16). Erode invece si chiuse davanti al racconto dei Magi e trasformò questa sua chiusura in menzogna e violenza (cfr Mt 2,1-16).
Ognuno di noi, qualunque posto occupi nella Chiesa, si domandi se vuole seguire Gesù con la docilità dei pastori o con l’auto-protezione di Erode, seguirlo nella crisi o difendersi da Lui nel conflitto.
Permettetemi di chiedere espressamente a tutti voi che siete insieme con me a servizio del Vangelo il regalo di Natale: la vostra collaborazione generosa e appassionata nell’annuncio della Buona Novella soprattutto ai poveri (cfr Mt 11,5). Ricordiamo che conosce veramente Dio solo chi accoglie il povero che viene dal basso con la sua miseria, e che proprio in questa veste viene inviato dall’alto; non possiamo vedere il volto di Dio, possiamo però sperimentarlo nel suo volgersi verso di noi quando onoriamo il volto del prossimo, dell’altro che ci impegna con i suoi bisogni.[5] Il volto dei poveri. I poveri sono il centro del Vangelo. E mi viene in mente quello che diceva quel santo vescovo brasiliano: “Quando io mi occupo dei poveri, dicono di me che sono un santo; ma quando mi domando e domando: ‘Perché tanta povertà?’, mi dicono ‘comunista’”.
Non vi sia nessuno che ostacoli volontariamente l’opera che il Signore sta compiendo in questo momento, e chiediamo il dono dell’umiltà del servizio affinché Lui cresca e noi diminuiamo (cfr Gv 3,30).
Auguri a tutti, a ciascuno di voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici. E grazie, grazie per il vostro lavoro, grazie tante; e per favore, pregate sempre per me perché io abbia il coraggio di rimanere in crisi. Buon Natale! Grazie.
Mi sono dimenticato di dirvi che vi darò in dono due libri. Uno, la vita di Charles de Foucauld, un Maestro della crisi, che ci ha lasciato un dono, un’eredità bellissima. Questo è un dono fatto a me da padre Ardura: grazie. L’altro si chiama “Olotropia: i verbi della familiarità cristiana”. Sono per aiutare a vivere la nostra vita. È un libro che è uscito in questi giorni, fatto da un biblista, discepolo del Cardinale Martini; ha lavorato a Milano ma è della diocesi di Albenga – Imperia.
[1] Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 1994, 182.
[2] Ibid..
[3] Discorso nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani, Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano, 9 maggio 2019, p. 9.
[4] «Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?”. Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: “Questo vi scandalizza?”» (Gv 6,60-61). Ma è solo a partire da questa crisi che può nascere una professione di fede: «“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”» (Gv 6,68).
[5] Cfr E. Lévinas, Totalité et infini, Paris 2000, 76; ed. it. Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano 1977, 76.