Nei vangeli dell’infanzia, che accompagnano la liturgia di questi giorni natalizi, la nascita di Gesù convoca sulla scena del racconto una serie di personaggi che transitano solo per un momento in essa: prima i pastori che vengono dalla notte e dal suo riposo; oggi i Magi provenienti da un non meglio specificato Oriente, a cui faranno ritorno senza passare una seconda volta da Gerusalemme.
La prima accoglienza del Dio che si fa storia umana, abitando in essa con tutti i suoi limiti e le sue contingenze, ha come protagonisti quelli di fuori – fuori dalla città sacra di Israele e fuori dal popolo dell’elezione.
Come se fosse necessaria una qualche esteriorità, una mancanza di consuetudine, per poter cogliere i segni iniziali del Dio che viene a piantare la sua tenda in mezzo a noi. L’inaudito del Dio che si fa cucciolo d’uomo chiede gente disposta a lasciarsi sorprendere dalle cose che accadono – per quanto comuni esse possano essere: un bimbo appena nato e una stella nella moltitudine degli astri del cielo.
Appunto, cose assolutamente normali, che capitano continuamente, davanti alle quali rischiamo di non sentire più alcun senso di sorpresa.
Ma il Dio che sorprende la storia umana lo fa assumendo i contorni della più comune quotidianità del vivere – è lì che bisogna cercarlo, perché lì lui desidera essere trovato; ed è lì che, oggi come allora, lo si può incontrare: i pastori e i magi funzionano nel racconto evangelico proprio per farci fare memoria di questo.
L’esteriorità con cui la narrazione evangelica li connota, ci mette in guardia dal non abitare il quotidiano come un’assuefazione a esso, come se in esso non potesse accadere l’inedito di Dio – l’imprevedibile che scompiglia ogni nostra aspettativa e ci sorprende. L’invito, dunque, a coltivare il quotidiano non come la continua ripetizione dell’identico, ma come quel tempo aperto in cui tutto può succedere esattamente perché non era mai successo prima.
E quello che così succede nel quotidiano, ciò che lo sorprende, non è mai qualcosa di eclatante, non è mai un’eccezione la cui evidenza ci costringe a confessare un momento di rottura, ma è fatto esso stesso della pasta e dei giorni della nostra quotidianità: un bimbo che ieri non c’era, una stella fra le molte che vediamo di notte. Nulla di speciale, appunto.
I Magi sono la figura narrativa di questa sensibilità per ciò che sorprende nel suo essere perfettamente comune, nella sua normalità che l’immerge nel quotidiano anziché farlo risaltare come qualcosa di eccezionale. È così e non altrimenti che il Dio di Gesù abita, oramai per sempre, la nostra storia umana – in una radicale comunità di destino con essa. Ecco perché ogni aspetto del vissuto umano, delle relazioni sociali, delle forme culturali, sono parte e momento costitutivo della notizia cristiana di Dio.
Della sensibilità dei Magi ha oggi bisogno la stessa comunità dei discepoli e delle discepole del Signore: per apprendere in ciò che è comune nel nostro tempo le tracce discrete che portano fino alla presenza indefettibile del Dio di Gesù nella nostra condivisa quotidianità – che è ciò che abbiamo davvero in comune tutti quanti, anche se la chiamiamo con molti nomi diversi.
E anche noi, in questo nostro tempo, dovremmo farci carico del lavoro discreto dei Magi: semplicemente trovare ciò che sorprende, l’imprevedibile di Dio, nella normalità dei giorni – e dare forma a gesti semplici di una liturgia che celebra questa scoperta inattesa. Niente di più e niente di meno di questo.
Avremo svolto il nostro compito e potremo tornare ai nostri luoghi di origine per una strada che non è più la nostra, ma quella di Dio – disseminando così sul nostro cammino l’annuncio del suo dimorare tra noi come quotidianità del vivere umano.
Non sappiamo nulla della circolazione della Parola accesa dai Magi nel loro rientro verso Oriente sulla strada indicata da Dio, il Vangelo stesso non se ne preoccupa. Perché la sua urgenza non è quella di dire come si diffonde il “cristianesimo”, ma di indicarci come si trova Dio nella quotidianità umana – e questo è decisivo esattamente perché il suo essere tra noi è proprio un essere con noi come uno di noi.
L’indecifrabile che solo una fede sensibile può cogliere in ciò che è comunemente umano a tutti quanti.