Al termine della festa per don Albino, mi trovo a scrivere alcune note che non riguardano anzitutto lui. Abbiamo festeggiato il suo 50° di ordinazione. I più vecchi se lo ricordano ancora da bambino con le braghette corte a giocare nel cortile dell’oratorio. In realtà, don Albino, anche senza saperlo, ci ha fatto un grande regalo. Per la prima volta, dopo anni, i due cori della parrocchia sono riusciti a cantare insieme. È stato un vero e proprio miracolo.
Forse sono solo io che la vedo così, ma non penso di essere l’unico che patisce una serie di fastidi riguardo alle corali parrocchiali e al canto liturgico in genere. Inevitabile e complicato: non si può non cantare del tutto, ma, appena apri bocca, quelle che escono sono spesso note stonate. In molti sensi.
La prima stonatura è quando riusciamo a trasformare il canto in una competizione. Il coro degli adulti che segue un repertorio classico contro quello dei giovani che, armato di chitarre e percussioni, insegue vie di rinnovamento fin troppo ardite. La solista che studiacchia canto che si atteggia da soprano e copre le voci di tutti gli altri. Le liti per chi deve cantare in determinate occasioni: alle prime comunioni, alla festa patronale, o al matrimonio di turno. Una rivalità serpeggiante che incrocia anche conflitti personali.
Ci sono sicuramente differenze di stili, repertori inconciliabili: ma ancor più risultano spesso incompatibili le persone, in disaccordo i caratteri. Non è tutta colpa loro. Semplicemente si assommano le fragilità relazionali di tutti, i deficit di preparazione, la mancanza di un repertorio comune condiviso, la fatica a entrare nella ricchezza e nella finezza del linguaggio liturgico.
E le stonature le riconosce subito l’ascoltatore. Di fatto, più di una volta, mi hanno fermato al termine di un’eucaristia per segnalarmele. Quali le più frequenti? Qualche volta si canta proprio male, al di là di ogni ragionevole interpretazione. Qualcuno ha un vero e proprio talento nello stonare, riesce a sbagliare le note e il testo, il tempo e il ritmo. Altre volte la stonatura consiste in un eccesso di protagonismo. Il coro o la solista di turno, si ergono a protagonisti assoluti della celebrazione con una presenza che, anziché aiutare la preghiera, risulta invasiva e fastidiosa.
Ultimamente debbo dire che il peggio lo si vede nei matrimoni: dal falso soprano che gorgheggia a casaccio, al panciuto tenore che pensa di essere Pavarotti, dal signore imbrillantinato che si porta la pianola da casa e suona come in balera, al quartetto d’archi che confonde l’altare con un palco.
Più in generale, è difficile nel canto rendere un servizio equilibrato che non sconfini nel protagonismo. Le persone che si dedicano a questo ministero sono molto generose, ma spesso chiediamo loro qualcosa che non possono darci.
Proprio per questo mi piace mettere su questo diario alcune note sul miracolo della celebrazione di domenica. A qualcuno sembrerà cosa da poco, ma chi conosce i retroscena sa bene che non è così.
All’inizio dei preparativi per la messa di don Albino, ho avvertito forte la tentazione di starmene fuori e di dire ai direttori delle corali «arrangiatevi voi, di beghe ne ho già abbastanza». Poi ho capito che ci dovevo mettere la faccia, era compito mio iniziare a radunare le persone coinvolte, a scegliere con loro il repertorio e a distribuire i compiti (chi dirige, chi suona ecc.).
Per trovare la giusta alchimia ho dovuto spendere del tempo, presenziare alle prove dei cori, ascoltare, incoraggiare, gettare un po’ di acqua su qualche principio di incendio. Io non ho grandi competenze musicali, viaggio molto “a orecchio”, però percepisco le stonature e apprezzo una musica bene eseguita. Il mio compito non era quello di cantare o di dirigere, ma di accompagnare e sostenere, di facilitare e creare le armonie necessarie.
Ma il buon esito finale non è dipeso da me, non è stato merito mio. A forza di cantare insieme, le persone piano piano hanno preso la “nota” giusta. Merito della dedizione di chi si è messo d’impegno, e ancor più merito della musica stessa. Perché, se spesso il canto e la musica risultano un terreno di disaccordi, in realtà la pratica del canto è anche la terapia. Per cantare insieme infatti occorre semplicemente questo: fondere le voci e accordare gli strumenti. Per fondere le voci occorre imparare a cantare insieme e una delle prime norme è quella di imparare ad ascoltarsi. Per accordare gli strumenti serve la pazienza di un lavoro di precisione, e la costanza di ripeterlo continuamente: uno strumento è cosa delicata, e si scorda facilmente.
C’è di più. La musica domanda un clima. E anche il miracolo di questa messa cantata insieme è il frutto di condizioni spirituali ben curate. Per iniziare, serve silenzio e raccoglimento: le corali sono state brave a non disperdersi, a non sovrapporsi, a creare anche durante le prove un clima non distratto e di attenzione. La musica poi ha fatto il miracolo. Perché è proprio così che accade: tu puoi soltanto predisporre la voce e gli strumenti, curare la preparazione e la disposizione d’animo. Poi la musica vive di forza propria, ha una capacità di superare gli ostacoli della comunicazione, sa creare una fusione di stati d’animo, è in grado di esprimere una forza di comunione intensa e percepita da tutti.
Così è stato. L’assemblea lo ha compreso e lo ha espresso soprattutto nel canto finale. Come se, dopo la gioia e la sorpresa di una celebrazione piena di gratitudine, ciascuno si fosse sentito trasportato nel canto e tutti volessero parteciparvi insieme.
Me la sono proprio goduta. Quel canto finale io l’ho solo ascoltato perché sentivo che era un regalo che il Signore ci stava facendo. Era anche una bella immagine del cammino di Chiesa: fondere le voci e accordare gli strumenti, creare un clima di comunione che tutti possono godere, imparare la gioia del canto comune, camminare e cantare insieme.
Per carità, non eravamo il coro della Scala, e qualche stecca ci sarà pure stata, ma la gioia era autentica, e una gioia vera non è mai senza qualche stonatura. Lo dice anche il poeta: «Cantore di letizia che sgrana stecche». Non vogliamo essere nulla di più.
don Giuseppe