Caro prete, oggi mi hai scocciato.
Non è che oggi sia successo qualcosa di particolare (hai bucato un incontro, perché eri stanco e avevi troppo da fare), è semplicemente tracimata l’onda di una tua pesantezza che faccio sempre più fatica a capire e ad accettare.
Hai assunto il profilo di vittima del mondo. Dici che hai un sacco di cose da fare, che sei stanco, che nessuno si occupa di te veramente, che il vescovo ogni tanto te ne rifila una nuova, magari non te la spiega neanche, dici. Però − dico io – te la affida e si fida di te.
Non lasci passare occasione per dirmi che nessuno vi ascolta veramente, che siete lasciati soli, che ci morite sotto.
Ombelico del mondo
Io ti vengo attorno, non solo perché ti voglio bene e sono disponibile a passare sopra a molte tue stranezze, ma anche perché siamo nella stessa barca ecclesiale, con pari dignità battesimale e responsabilità diverse, e dobbiamo provare a quagliare qualcosa di sensato e di gioioso, che il Signore ci chiede: oltre a sopportare gli effetti di questo tuo ormai abitudinario ripiegamento che ti porta a contemplare l’insostenibilità della tua condizione − e ti ringrazio della confidenza con cui me ne parli − di fatto mi costringi ad essere alla tua mercé.
Nonostante la tua professione di fede sul Vaticano II e la sua bella ecclesiologia, di fatto ti comporti ancora come se fossi l’ombelico del mondo. Tra l’altro nella versione meno nobile, quella di “tappo” della comunità. Tutto passa da te, anche se dici che “magari riuscissi a trovare dei collaboratori”. I tuoi ritmi, i tuoi tempi, le tue priorità segnano il volto della comunità. E ti lamenti.
Sei su tutto, e per questo ti ritieni giustificato a decidere tu cosa mettere davanti o lasciare indietro, pensi di aver qualcosa da dire su tutto, ma non stai al gioco di tutti i comuni mortali. Tu sei di altra. Spesso arrivi impreparato su qualcosa che è di tua competenza, magari anche a causa di imprevisti, pensando che comunque qualcosa riesci a improvvisare, vista la tua scienza “infusa” o anche accumulata (però, sai che ce ne accorgiamo?). E gli incontri rimangono per aria, senza conclusione, o zoppi… Ma che importa? Ne facciamo un altro la settimana prossima…
La vita dei laici
Ti lasci un po’ dire come va la vita dei laici? I laici in genere non possono scegliere niente, quello che capita nella loro vita e nella loro giornata lo devono considerare, prenderlo su e occuparsene.
Cominciamo dal lavoro: anche ai laici capitano, anzi in genere è la norma, gli imprevisti, ma questo non comporta nessuno sconto sugli adempimenti del lavoro… Per i laici funziona che i risultati e gli obiettivi da raggiungere sul lavoro sono obbligatori. Il posto non è assicurato se non succede.
Tu oberato certo da mille cose, che magari ti fanno trascorrere anche notti brevi, non hai mai lavorato e sei nella condizione, chissà chi ve l’ha messa in testa, di non dover rendere conto a nessuno. Non entro, ovviamente, nel tuo rapporto con il Signore, per fortuna giudice unico e ultimo di quello che siamo e facciamo. Ma tu, qui sulla terra, a chi rispondi di quello che fai o non fai? Un prete, da 0 a 10, sempre prete è. E chi lo cucca se lo cucca.
Neanche al vescovo mi pare che si renda conto. Tra l’altro, si ha l’impressione che anche lui non abbia proprio vita facile a farsi dire di sì da un prete rispetto a una nuova proposta che lo coinvolge. E comunque cosa deve fare il vescovo? Vi tiene così come siete. Ma avete sempre qualcosa di cui lamentarvi: in fondo la storia dice che nessun vescovo fa bene e va bene. Eppure nella nostra Chiesa ne sono passati vari di stili episcopali…
Continuo la storia dei laici dopo il lavoro: casa e famiglia da gestire in una esplosione di varietà di situazioni, tutte da tenere sotto controllo, ogni giorno: in genere niente è rimandabile, perché ogni domani ha il suo carico. Quegli stessi laici che poi fanno non poche cose in parrocchia e magari anche nella società civile.
Cosa vi manca veramente?
Il bello è che in genere ai laici piace. O, perlomeno, il collante della motivazione fa miracoli per andare avanti su tutto. Nessuno li bada, anzi, il profilo dominante del laico è di dover “badare” altri.
Per favore non mettere sulle spalle dei laici di dover badare anche a te e soprattutto di essere rattristati e delusi da te. Qualcuno peraltro ha già cominciato a mandarti a quel paese… Capiamoci: dei preti convintamente siamo figli, fratelli, sorelle, genitori, su nulla ci si tira indietro. Ma non fateci fare anche l’esperienza della scoperta che ci sono anni luce tra la nostra e la vostra vita. Cosa vi manca veramente? Che cosa vi aspettavate dall’essere prete, se non questa comune strada di fedeltà al Signore con i fratelli nella Chiesa e a servizio della umanità dolente e in attesa, costi quello che costi?
Sono veramente in difficoltà a capire la tua reazione nella situazione attuale di grande fatica complessiva. Dici che quello che sta succedendo è kairos… Allora? Voi preti siete all’estinzione ormai, ma non mi ricordo che tu abbia mai tirato un’iniziativa assieme ai laici (se non eventualmente con i fedelissimi che “sentono” con te e come te e magari ti confermano nella tua autocommiserazione), o creato spazi per progettare insieme come potrebbe “essere” diversamente, oggi, nella Chiesa. Magari anche ribaltando tutto, compreso il tuo stile di prete.
Cosa sei veramente disposto a cambiare e a mollare per condividere fino in fondo il cammino con gli altri? E poi, anche per la mia edificazione e consolazione, mi piacerebbe vederti assumere un atteggiamento personale un po’ diverso, un po’ più da cristiano insomma: tutte quelle croci che dici che il Signore e il Vescovo ti buttano addosso, tienitele strette: magari potresti riscoprirle anche come grazie, se non addirittura privilegi. Ma se anche dovessi morirci martire sotto, avresti qualche prospettiva ancora migliore? È da cristiani, no?
Anche io lavoro, ho famiglia, pendolarismo e sono attiva nel laicato; penso che il tempo lo si trova eccome e non ce la prendiamo con i sacerdoti che sono sempre bravi preparati ed efficienti e capaci, mna come direbbe Salvatore Martinez del movimento nazionale RNS alziamoci da quel divano e diamoci da farfe e non troviamo scuse. Ricordiamoci che siamo persone fatte dalle tre dimensioni fisica, psichica e spirituale.
Virna
Oltre che laica sono una carismatica, vi siete mai chiesti cosa sia la vocazione religiosa? Altro punto: cosa significa la nostra vita nell’aldilà, nel regno dei cieli, a me sembra che siamo talmente presi dalla vita terrena che non ci poniamo la nostra vita eterna, ci sono persone che hanno sempre pensato alla loro vita terrena arrivano alla fine della loro vita che chissà se si rendono realmente conto con la loro coscienza come finiranno. Sembra un discorso filosofico ma questa la realtà, riflettete non esisteste solo la vita terrena ma anche la vita eterna… il giudizio finale.
Virna
Devo ammettere che la prima reazione di fronte alla lettura di questa lettera è stata di irrigidimento e ciò significa che ha toccato un nervo scoperto. Allora ho provato a lasciar decantare le emozioni e, senza voler semplicemente rinviare al mittente la critica, proviamo ad assumerla come stimolo per la riflessione comune.
Ovvero secondo me bisogna chiedersi se non sia un male comune di preti e laici lamentarsi per il troppo da fare. Credo di sì, perché siamo tutti figli del nostro tempo e della nostra cultura che ci ha abituato a rivendicare i nostri diritti (veri o presunti, in quanto anche i bisogni oggi sono diventati dei diritti), per cui ognuno rivendica che ad un certo punto ha il diritto di pensare un po’ a se stesso, alla sua famiglia, di prendersi il proprio spazio ecc.
Una dozzina d’anni fa, in una riunione del consiglio pastorale, non ero parroco allora, nasce la discussione su quali iniziative formative proporre in parrocchia, ma anche della scarsità di affluenza alle stesse. Un mio confratello, santo prete, prende la parola ed elenca i motivi per cui più di tanto non si può chiedere alle famiglie: i padri e le madri hanno i loro impegni lavorativi; sono pendolari verso la città; quando arrivano a casa devono occuparsi dei figli che non sempre sono fonte continua di gioie, ma anche di preoccupazioni, per cui alla fine della giornata ritrovarsi a dover uscire anche nel dopo cena non sempre se ne ha la voglia, ed in questo vanno non solo compresi, ma anche sostenuti. Però mentre parlava seduti di fronte a me ci sono due nonni ed uno si rivolge all’altro e colgo che gli dice: «allora gli stupidi siamo stati noi!». Ovvero loro da giovani padri con il lavoro in città ed impegnati anche nell’amministrazione comunale trovavano anche il tempo per partecipare alle iniziative parrocchiali senza dimenticarsi della famiglia. Che stupidi!
Io credo che il problema risieda nel fatto che per molto, troppo, tempo abbiamo puntato al minimo dimenticandoci dell’essenziale. Abbiamo assunto il minimo come criterio per cui ci siamo accontentati di fare/dare il minimo, ma il minimo tende al ribasso, perché ti accorgi che si può dare/fare ancora un po’ meno di così. Al contrario l’essenziale riconosce ciò che veramente non può mancare, ma non come criterio minimale, ma come criterio di crescita, perché ciò che essenziale chiede di camminare verso una pienezza maggiore: non ti manca nulla di ciò che è essenziale, ma desideri qualcosa in più.
Tornare all’essenziale allora rilancerebbe, spero, l’impegno di tutti togliendoci dal ripiegamento più o meno egoistico che dà voce alla reciproca lamentela.
Condivido l’articolo di Sara perché anch’io sono stanca di sentir dire da certi preti: “non ho tempo, sono oberato di lavoro…”. Allora cosa dovrebbe dire un laico che ha famiglia, un lavoro, genitori anziani o ammalati da accudire? Eppure è un dato di fatto che in molte parrocchie, ancora prima di questa pandemia, non si fanno più le benedizioni pasquali, non più incontri di catechesi per adulti, non si vanno a trovare anziani soli o ammalati. Senza poi considerare la difficile e gravosa situazione economica in cui versano tante famiglie. Ricordo ai nostri sacerdoti (ringraziando Dio alcuni sono bravissimi) che essi sono chiamati, per vocazione, a servire con tenerezza e con gioia tutto il popolo di Dio. E quando si sentono soli e angosciati, vadano a trovare chi sta veramente male così , non si lamenteranno più. Rosy.
Grazie, Sara, per quest’analisi che mi trova in gran parte d’accordo. Basta sterili piagnistei! Forse alcuni non hanno capito bene la vita che li aspettava fin dagli anni di Seminario.
Ma credono che sia più facile la vita di un padre di famiglia? Che torna a casa dopo 8-10h di lavoro e magari, se la moglie lavora, gli tocca preparare la cena non solo per lui, ma per tutti quanti? Come spesso accade, se uno davvero condivide la vita delle famiglie – le loro corse, le difficoltà – difficilmente avrà il coraggio di lamentarsi. In questi mesi ho condiviso il lavoro di mio marito, da casa: ma un prete che si lamenta se, una volta tanto, c’è un consiglio presbiterale o se il vescovo chiama, sa cosa significa una riunione continua, un dover essere sempre disponibile per il capo di turno?
Forse la colpa di tanta ignoranza – in senso letterale di non conoscenza dei termini della questione – sta soprattutto nell’atteggiamento di noi laici: vediamo allora di di spiegare bene come stanno le cosa, senza inutili clericalismi che … non fanno altro che accentuare certi comportamenti tanto vittimistici quanto sterili.
Oddio… adesso pubblicate anche le lagne di laici “scocciati” dai preti… Qualche problema psicologico di frustrazione?
Penso alle parole profetiche di padre Giulio Bevilacqua, poi cardinale, che nel lontano 1964, nell’omelia per la prima messa di un suo confratello diceva:
“Ama questa generazione che ti domanda molto.
Le generazioni che non domandano niente al sacerdote hanno fabbricato quell’obbrobrio che si chiama clericalismo che è tutto fuorché qualche cosa di religioso, perché è il ricatto, è il profitto sulla religione. Benedici questa generazione e spera che diventi sempre più anticlericale.
E voglio dire con questa parola, che veda in noi non dei dominatori della vita, ma i servitori della vita. Che veda le nostre mani vuote e pure dal più grande obbrobrio della vita che è il denaro. Questo domandano soprattutto a noi il concilio e questa generazione. Per cui benedici anche la severità che ha verso di noi questa generazione, perché ci permette di restare sacerdoti, cioè ministri della Parola e ministri del sangue.” Grazie Sara. DMarcello
Vedo che la situazione non è cambiata rispetto a quasi trent’anni fa quando ero immerso, anche come lavoro, nella vita di tanti preti. Cosa sia la laicità è il suo valore per la Chiesa l’hanno interiorizzato in pochi (anche perché la formazione in seminario e anche dopo, andava antistoricamente in altre direzioni). Mi stupisce semmai il cazziatone, per quanto “sacrosanto”. Davvero non avete ancora capito come sono fatti i vostri preti (non tutti, ovviamente ma davvero molti)? E se li conoscete così bene (come pare sul serio) non avete ancora capito che forse ci sono altri modi per aiutarli ad uscire dalla situazione che l’articolista giustamente critica? Dai, un po’ di fantasia laicale, di quella che i casini della vita quotidiana ci obbligano ad avere per sopravvivere e cercare di trovare segni di Gesù anche oggi. Con amicizia
Sento questo articolo molto familiare, buona parte di esso potrebbe riprodurre vissuti da me condivisi in passato. In particolare mi riferisco alla rabbia sperimentata dall’autrice, nei confronti del prete che “pensa di avere qualcosa da dire su tutto” e che con “i propri ritmi, tempi, priorità segna il volto della comunità”. Noi laici d’altra parte, siamo abituati a chiedere consigli ai preti e ad aspettarci che siano pronti per darceli, abbiano le risposte giuste e che si limitino a rispondere a quanto chiediamo loro, senza aggiungere altro. Anche questo suona pretenzioso e irrealistico. Credo che il ruolo ricoperto dal prete si porti dietro molti significati e molte aspettative, che stimolano e pesano il singolo interessato e chi entra in relazione con lui. Questo investimento può valerne la sfida, quando si vive un rapporto sano e di crescita vicendevole, ma può anche comportare ferite e delusioni. Condivido l’impressione che la frequente lamentazione del prete (e non) possa sottendere un disagio significativo, che, a parer mio, andrebbe attenzionato dalla società e dalla Chiesa con maggiore impegno. Intendo dire che, ad esempio, come sottolinea don Erminio, nei seminari sia ancora insufficiente la stima dell’aspetto psicologico nella formazione della persona. La scelta del prete di dedicarsi alla comunità, forte della fiducia nel Padre, non significa che lui debba contare “solo” su di Lui per questa chiamata. Ritengo che andrebbe indagata approfonditamente la modalità di sostegno che il prete si auspica per potere vivere questo impegno in maniera sufficientemente sostenibile, accompagnato da altre forze umane e concrete. Mi piacerebbe vedere laici e preti impegnarsi maggiormente per collaborare e sviluppare insieme idee e progetti e contribuire insieme alla crescita della società. A mio parere sarebbe auspicabile un cambiamento strutturale, che faciliti questo contatto e pensiero comune, soprattutto da parte delle istituzioni coinvolte su vari livelli.
Purtroppo è la condizione per la quale …..le chiese si stanno vuotando, aggiungo che si creano anche gli orticelli…… ermetici
Grazie per gli stimoli e le riflessioni. Da prete “oberato” non mi lamento ma certamente condivido la fatica quotidiana della “gente normale”. La lamentela sembra essere una patologia comune a preti e laici e purtroppo sembra difficile sconfiggerla. Pur avendo appeso all’ingresso della stanza vietato lamentarsi…è tutta una lamentela a volte una lamentazione …e su questo però bisogna essere attenti perchè potrebbe esprimere se pur in forma di lamentazione un disagio. Sui preti si scrive e dice tanto ma forse oggi c’è bisogno di qualche carezza in più per stimolarli e farli sentire amati. Gli ex preti (i vescovi) dovrebbero anche rendersi conto che c’è sicuramente tanta fragilità anche tra i preti che più di accusarli vanno sostenuti. Preti sono uomini fragili e deboli come tutti. Grazie d Nunzio
Gentilissima Sara (mi lasci usare questa espressione antica: sono un vecchio prete non più parroco per limiti di età e sto collaborando con un altro parroco, in questo momento ammalato), anch’io apprezzo il suo intervento, e, se lei è Sara Armanni tecnico della riabilitazione psichiatrica, ne comprendo meglio il taglio. Intanto condivido con don Marco – nel commento precedente il mio – che la formazione sacerdotale era, ed è, forse un po’ troppo ancora, “blindata da secoli di linea teologica” che per “legare il prete più autenticamente a Dio” ha motivato l’atteggiamento ‘clericale’ più volte denunciato anche da papa Francesco. Ho l’impressione che anche oggi nei seminari sia ancora insufficiente la stima dell’aspetto psicologico nella formazione della persona. E anche di una dimensione ‘pastorale/spirituale’ adeguata alla prassi ‘sinodale’ (preti-laici) necessaria per realizzare il Vaticano II. Se ne parla, ultimamente, ma va fatta maturare nel concreto delle parrocchie e delle diocesi, con il supporto di una buona riflessione teologica. Ma, oltre al Concilio ancora osteggiato da alcuni (troppi) e poco amato da tanti, papa Francesco ci ha anche chiamati a collocarci nella realtà di una Chiesa “ospedale di campo”, nella quale prenderci cura delle sofferenze urgenti senza pretendere di toglierne subito tutte le cause – e senza badare troppo alle proprie, come ci insegna oggi tanto personale sanitario impegnato con le vittime della pandemia. Per non essere angustiati dalle proprie fatiche e sofferenze mi sembra necessario convertirsi allo spirito che padre Angelo Cupini predicava e viveva a Lecco nella Comunità della Casa del Pozzo già più di quarant’anni fa e che io comincio a capire solo ora: dobbiamo accettare in partenza la sconfitta che ha piegato il ‘cristianesimo della efficienza’ e dedicare le nostre risorse a tutti – parrocchiani e non – nell’orizzonte dell’Amore Misericordioso del Padre.
Da prete, ringrazio moltissimo per questo pezzo. Vero, profondo, diretto: la questione delle aspettative e delle delusioni fa parte della vita di tutti, preti, laici, battezzati e non. Pensare di essere gli unici a sopportare le normali fatiche della vita porta a un fastidioso isolamento vittimista e a un’incomprensione crescente con gli altri. Da qui la giusta insofferenza che emerge da questo articolo. Penso che la categoria dell'”isolamento del prete”, blindata a volte da secoli di linea teologica che, in questo modo, lo vorrebbe più autenticamente legato a Dio, sia totalmente esaurita. Portarla avanti è segno di paura e non fa altro che creare una crescente esasperazione nei laici, nei preti e nei vescovi. Servono davvero strade nuove, costruite insieme. Ma serve, prima di tutto, disinnescare la dimensione gerarchica che istintivamente accompagna questa parola: “insieme”. Dai preti, infatti, viene troppo spesso edulcorata, compresa istantaneamente (e spesso senza colpa), come “sentendo il parere dei laici”. Non basta più.