La pandemia ha colto tutti di sorpresa, anche la fede cristiana. Pur sapendo che qualcosa del genere sarebbe stato possibile, non solo per antiche avvisaglie sepolte nella memoria della storia ma anche perché regioni marginali erano già state colpite da eventi simili in tempi recenti, lo abbiamo rimosso finché non si è trasformato in un dato di fatto della nostra vita quotidiana.
Nell’attraversare questo nostro tempo, la fede cristiana è stata colta di sorpresa e, insieme alla Chiesa, sembra navigare certamente a vista, e ogni tanto al buio, nelle acque che scuotono ovunque l’umanità su questa nostra terra.
Fedeltà alla terra di Dio
Se un primo disorientamento della fede è comprensibile, lo è meno il fatto che essa continui a muoversi ancora come a tentoni in questa lunga notte dell’umanità. Lo è perché la fede cristiana è innervata da due atteggiamenti tanto fondamentali quanto elementari intorno ai quali organizzare un minimo orientamento per attraversare in maniera evangelica lo sconvolgimento dei tempi in cui viviamo. Da un lato, si tratta di lasciarsi interrogare dalla situazione pandemica che ha stravolto le nostre abitudini, chiedendoci di vivere in una maniera sostanzialmente inedita revocando certezze che sembravano essere oramai acquisite per sempre.
Questa aderenza alla storia umana, qualunque forma essa prenda, è un capostipite del credere cristiano, che non può non essere fedele alla terra di Dio a cui destinata la promessa del Regno.
D’altro lato, la fede vive questa sua fedele aderenza alla storia umana quale luogo della prossimità evangelica di Dio sempre nella luce dello scarto critico del Regno: che è il mondo così come lo desidera Dio, quello in cui lui vuole vivere felicemente per sempre con tutti gli uomini e le donne venuti al mondo, e non quello costruito dalle nostre mani e dalle nostre aspirazioni.
In questa luce, proprio nel momento in cui tutto parla di una sola cosa, la fede si ribella alla monopolizzazione del nostro pensiero e del nostro sentire da parte del virus – riscattando linguaggio e affetti da una torsione mortifera sull’invasività pervasiva provocata dalla pandemia.
È così che la fede fa fronte oggi alla condizione comune della pandemia, che ci ha messo tutti di fronte al tema/esperienza del limite che ha invaso le nostre esistenze quotidiane. Viviamo oggi, per molte buone ragioni, come accerchiati dal limite: da quelli imposti dalle autorità civili a quelli scelti dalle comunità religiose, in vista di una doverosa salvaguardia della vita di tutti e in particolare di coloro che sono più fragili o esposti fra noi agli effetti mortiferi del virus, fino a quelli che ci assalgono dall’interno delle nostre paure paralizzando ogni nostra premura capace di gettarci oltre una pura preservazione di sé. Dobbiamo confessarlo, avevamo una scarsa dimestichezza col limite e con le rinunce che esso comporta; da qui quell’atteggiamento aggressivo nei confronti di limitazioni che oramai sopportiamo a stento.
Pervasività dei limiti e insegnamento del limite
Come società, e talvolta anche come Chiesa, stiamo perdendo l’occasione di questa grande sospensione di un regime di vita giunto al suo collasso per interrogarci e lasciarci interrogare proprio dal limite stesso, da quello che si annuncia dietro ogni limitazione e provvedimento che riducono non solo gli spazi del nostro movimento e le opportunità di circolazione nelle nostre città, ma anche libertà acquisite che davamo per scontato.
“È lecito chiedersi se anche per rispettare i limiti non sia necessario allenarsi, ad esempio riflettendo su di essi e più in generale accostandosi al limite non solo come a un semplice meno, a una pura privazione, se non addirittura come a un mero fastidio o a un’insopportabile offesa. Il limite va certamente rispettato, ma il ‘rispettare il limite’ non significa soltanto subirlo e obbedire alla legge che lo impone, ma vuol dire anche non ridurlo a ‘semplice limite’, non concepirlo solo come un muto ostacolo da superare al più presto e a ogni costo, significa non risolverlo unicamente nell’occasionale sfida per procurarsi un surplus di adrenalina. ‘Rispettare il limite’ significa volere e sapere ascoltare la parola e l’insegnamento che da esso puntualmente proviene” (S. Petrosino).
La nostra scomposta sorpresa davanti al limite, davanti alla forza della sua penetrazione anche nei santuari più gelosamente custoditi dall’ordinamento in cui siamo stati immersi per tutta una vita, dice qualcosa di una nostra pericolosa ingenuità: dice, cioè, che stiamo vivendo, forse sopportando e neanche troppo bene, il limite come se esso fosse solo una causa della pandemia. Finita questa, verrà meno anche l’insopportabile necessità dell’accerchiamento del limite.
E questo dice qualcosa del modo in cui abbiamo vissuto, come civiltà occidentale, fino a due giorni prima dell’esplosione della pandemia: appunto, come se prima ci fossimo sentiti illimitati, onnipotenti, vivendo il delirio di poter disporre di tutto a nostro gradimento, di non dover rinunciare a nulla – perché il limite era semplicemente qualcosa di tremendamente provvisorio, fatuo, oramai destinato a venire meno con il prossimo aggiornamento o con la successiva implementazione dell’umano.
Vivevamo come senza tempo, perché ogni aspettativa non solo era sulle soglie della sua realizzazione, ma le realizzazioni della tecnica precedevano oramai ogni nostra aspettativa: vivevamo senza attendere più nulla, perché tutto era già qui ben prima che noi fossimo e potessimo accedervi. Nonostante lo scompiglio in cui ci ha gettati la pandemia, corriamo ancora questo rischio – quello di considerarla come una sfortunata parentesi da chiudere, magari grazie al potere salvifico dei vaccini, che sono una benedizione se gli facciamo fare il loro mestiere, ma diventano mostri se pensiamo di ottenere attraverso di loro un’immunità garantita rispetto al limite (di nuovo, come prima).
La culla di un’illusione
La pandemia ha smascherato l’illusione in cui ci eravamo cullati e ci sta chiedendo di fare i conti col limite non come un incidente di percorso, che lo ha rallentato un po’ magari, ma come un tratto essenziale di un’esistenza propriamente umana.
Nonostante si continui segretamente a coltivare questa illusione, una cosa va detta: non torneremo più quelli di prima, perché l’immersione prolungata nell’esperienza del limite lascerà segni indelebili in ciascuno di noi – e non dovremmo affrettarci a cancellarli come se non fossero oramai più parte di quello che siamo. Si tratta certo di un passaggio doloroso per le nostre esistenze, ma non necessariamente negativo. Molto dipenderà da noi, da quanto saremo disponibili a custodire l’esperienza del limite, a interrogarla e a lasciarci istruire da essa.
Nella misura in cui saremo capaci di fare questo, ci renderemo conto che stiamo attraversando uno di quei tornanti drammatici della storia umana nei quali si profila il compito, e la possibilità, di costruire una nuova architettura del mondo e delle relazioni umane. Il modo di vivere a cui ci siamo abituati, fino a chiamarlo normalità, insieme ai suoi molti gioghi, non sarà più possibile: sta a noi scegliere se azzardare l’avventura di essere tra gli scrittori di una nuova costituzione della storia umana a livello personale e sociale.
Certo l’impresa non è facile, ma la vita nel suo complesso non lo è; anche perché la tentazione nostalgica di adattamento del vecchio ordinamento alle eventuali condizioni di un mondo post-virus è potente. Davanti a questo compito, che sembra eccedere la singolarità delle nostre storie personali e comunitarie, la fede può attingere alla sapienza biblica per avviare un processo di discernimento sulla vita che desideriamo – per tutti e non solo per noi –, come investimento nel futuro del quale non possiamo disporre, ma che non prenderà forma senza l’esercizio appassionato dei nostri affetti e delle nostre competenze.
Tra deserto ed esilio
Tra le molte, due immagini bibliche mi sono venute immediatamente in mente: la prima dal Libro dell’Esodo, la seconda da quello del profeta Geremia. Iniziamo con Esodo, con la mormorazione di Israele che per la prima volta fa una dura esperienza del limite in regime di libertà (Es 15-17). Il testo sottolinea il fatto che Israele si trova solo a tre giorni dall’evento in cui si radica la sua origine come popolo, quella del passaggio del Mar Rosso e della liberazione dall’Egitto.
Quando ci si trova fuori dal consueto, il pungiglione del limite non tarda ad annunciarsi gettando in uno sconforto che genera nostalgia per una condizione di insopportabile soggiogamento. “Fossimo morti per mano del Signore – mormora in maniera accusatoria Israele – nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16,3).
In questo rammarico di Israele fa capolino la pacata e paradossale bellezza di una condizione di vita servile in cui, però, ci si può riempire di cose senza correre il rischio di vivere. Essere pieni, senza apparenti mancanze, poter avere tutto a portata di mano, comodamente e senza sforzi, così Israele ricorda la durezza insopportabile del tempo in Egitto non appena confrontato con la prova del limite. Improvvisamente il regime di schiavitù appare non solo preferibile, ma addirittura desiderabile davanti al limite che si prova nel cammino di liberazione.
Non ci nutriamo anche noi di questa ingannevole nostalgia ogni volta che agogniamo a un ritorno alla normalità, alla subdola durezza di un asservimento che ci riempie di cose pur di ottundere in noi ogni desiderio di libertà, di vita altra da quella imposta da un ordinamento impietoso e ingiusto?
La spasmodica attesa di poter riprendere il corso normale delle cose, che sembra essere l’imperativo che circola nelle nostre società occidentali contemporanee in questi tempi di pandemia, assomiglia molto a questa nostalgia di Israele – un modo per cercare di neutralizzare l’esodo e la sua promessa, che chiede l’attraversamento del deserto del limite e l’esercizio di un’inedita responsabilità che si chiama libertà.
Infatti, nell’esperienza del limite si annuncia una libertà da conquistare, e non offerta sul mercato già bella preconfezionata, che appare essere immediatamente (dopo solo tre giorni) troppo costosa per essere veramente voluta. Nel disagio che Israele sente davanti alle prime esperienze del limite si annida la verità scomoda della libertà, troppo esigente per essere fatta propria e così la si preferisce ribaltare nell’essere un giogo imposto da un paio di leader idealisti e da un Dio sognatore – senza essere veramente voluta dal popolo stesso.
A dire il vero, Dio non si scompone poi troppo davanti a questa ottusità di Israele che non riesce a comprendere cosa circola nel limite che appare essere ora del tutto insopportabile. Certo Dio provvede affinché Israele non soccomba alla sua riluttanza di farsi carico del limite, ma lascia Israele esattamente nel deserto del limite stesso – attrezzandolo perché esso possa essere attraversato. A Israele non si concede nessun comodo ritorno nella terra d’Egitto, improvvisamente agognata come la patria più propria del popolo; ma nemmeno esso viene magicamente condotto in un battito di ciglia nella terra promessa. Piuttosto, Israele viene lasciato a lungo nel crogiuolo del limite, errando nel suo deserto, perché è così che si forgia uno spirito di popolo capace del rischio della libertà e della promessa.
La seconda immagine biblica la attingerei, come dicevo, dal Libro del profeta Geremia (Ger 29-32). Sono capitoli contrassegnati da un sequenza illogica nella loro redazione finale, in un pendolo tra condizione di esilio e immediata imminenza della caduta di Gerusalemme che fa da preludio a essa. L’esilio significa l’aver perso la terra come dimora familiare, come luogo delle consuetudini che agevolano la vita legandola alle generazioni che ci hanno preceduto: significa sentirsi estraneo, straniero, fuori luogo (prima ancora che senza luogo proprio).
Bene, Geremia scrive a coloro che così vivono e patiscono che questa condizione di estraniamento, di perdita del familiare, va abitata e vissuta esattamente come vita e non come una sospensione che la renderebbe impossibile (cf. Ger 29, 1-7).
Essere fuori luogo, aver perso i riferimenti abituali, è una condizione da abitare con pienezza perché è l’unico tempo che ci è dato. Poco più avanti, in una sorta di flashback narrativo, ritroviamo il profeta incarcerato, chiuso nel lato più oscuro del limite, mentre Gerusalemme sta capitolando davanti alle potenze del mondo. Ed è in questa condizione che il profeta azzarda l’affermazione folgorante “ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese” (Ger 32, 15). Uno spropositato investimento in qualcosa che non ha più alcun valore. Un’affermazione di futuro nello sconquasso del presente, che afferma il suo permanente significato come senso in cui investire il desiderio della libertà.
Ancora si compreranno case…
C’è una pagina di Resistenza e resa in cui Bonhoeffer legge la devastante esperienza del limite del suo tempo nell’orizzonte di quella di Geremia: “Per molta gente l’impossibilità di pianificare il futuro a cui siamo costretti li obbliga a vivere solo nell’attimo presente, in maniera rassegnata o irresponsabile. Altri, pochi a dire il vero, sognano il futuro di tempi migliori che verranno tentando di dimenticare il momento presente.
Troviamo entrambi gli atteggiamenti impossibili per noi, per il cristiano rimane così solo la via stretta, così difficile da trovare, di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo vivendo però nella fede e nella responsabilità – come se ci fosse dato un futuro radioso. Ancora si compreranno case, campi e vigne – dice Geremia giusto poco prima della distruzione della città santa.
Si tratta di un segno che viene da Dio e della promessa di un nuovo inizio e di un futuro radioso, proprio quando tutto sembra buio e oscuro. Pensare e agire a favore delle generazioni che verranno essendo però pronti ad andarcene ogni giorno senza paura o ansietà”.