Del Vangelo di domenica scorsa mi colpisce il conflitto che Gesù, appena annuncia la Parola, scatena nella Sinagoga e nel cuore di un uomo posseduto da uno spirito impuro. In realtà, nei racconti di Marco, ogni volta che Gesù entra nella Sinagoga succede qualcosa del genere. C’è un apparente e paradossale binomio, che vede fronteggiarsi, da una parte, la tranquilla religiosità degli scribi, che insegnano una dottrina per lo più astratta e non incisiva nella vita, senza scaldare il cuore, senza offrire parole di vita e di verità a chi ascolta; e, dall’altra parte, l’insegnamento nuovo di Gesù, che ha una Parola tagliente, così diretta alla vita e così capace di sfidare gli alibi, le paure, la false certezze, il quieto vivere e le mediocrità, al punto da essere Parola che scomoda, disturba, provoca una reazione come quella dell’uomo posseduto: ma cosa vuoi da noi? Eravamo così tranquilli nel nostro culto e nei nostri riti: sei per caso venuto a rovinarci?
Tra pessimismo e immobilismo
A me pare che qualcosa del genere accada anche a noi oggi. In genere, quando la Parola scomoda non solo la nostra vita personale ma anche quella ecclesiale e ci chiede cambiamenti di rotta, sovvertimenti di schemi, ribaltamenti di prospettive e trasformazione di sogni, alziamo delle barriere per difenderci, per neutralizzarla, per renderla meno innocua. Talvolta, la difesa non ha bisogno di respingimenti espliciti e accaniti: basta tacitare, rimandare, far finta di nulla, aspettare che passi e, intanto, sotto le macerie, continuare a far finta di nulla. O – direbbe Armando Matteo – «aspettare che le cose tornino come prima» (cf. A. Matteo, La Chiesa che manca, 8).
Questo diffuso atteggiamento serpeggia talvolta nelle nostre comunità cristiane a tutti i livelli, interessando vescovi, preti, religiosi, operatori pastorali. Il rischio è quello di galleggiare dentro la bolla di una contraddizione: tutti vedono che le cose non vanno, ma quando si tratta di cambiarle nessuno vuole farlo più. Laddove il «tutti vedono» rischia semplicemente di dar voce a quello che papa Francesco ha chiamato «senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati, dalla faccia scura» (Evangelii gaudium, n. 85), mentre la paura di cambiare genera l’immobilismo spirituale e pastorale.
Un Sinodo per ripartire
I problemi, nella Chiesa italiana, non mancano, certamente oggi accentuati dalle condizioni post-Covid, che stanno rimescolando la vita delle persone e pongono alcuni interrogativi alla nostra azione pastorale. Non mancano neanche le lamentele per le cose che dovrebbero cambiare e, allo stesso tempo, quell’alibi di sottofondo che accompagna questo sentimento di insoddisfazione e che ci fa spostare sempre in avanti il giorno in cui questo cambiamento deve effettivamente iniziare a realizzarsi.
In questo oscuro luogo delle solitudini e delle frustrazioni di una Chiesa che porta sulle spalle e con fatica un compito oggi diventato più complesso, la voce di papa Francesco non smette di inquietare, di provocare, di scuotere le nostre abitudini consolidate, di spezzare il circolo chiuso di certi nostri schemi pastorali ed ecclesiali e, soprattutto, di invitarci a immaginare con creatività strade nuove. E l’invito che rivolse a Firenze, al Convegno della Chiesa Italiana, in questi giorni ha sentito il bisogno di ripeterlo con tono più deciso: questo è il tempo in sui si deve fare un Sinodo della Chiesa italiana, comunità per comunità. Perché questo invito, dopo anni, rimane inascoltato?
Tre questioni intorno al Sinodo
La domanda appare perfino retorica, considerata quell’abitudine al «quieta non movere» di cui parlavamo sopra e che, con tagliente ironia, è stata anche proposta sotto forma di lettera da Gabriele Cossovic. Piuttosto è importante capire come questo invito di Francesco va raccolto e su quali aspetti si potrebbe cominciare ad aprire un cantiere di lavoro.
Anzitutto, è importante chiarirsi subito: il Sinodo implica una vera dimensione interiore e spirituale «sinodale», cioè l’autentica attitudine al dialogo, che sottintende un comune punto di partenza: siamo in cammino alla ricerca della verità e nessuno, neanche da posizioni gerarchiche particolari, ha soluzioni in tasca. Ciò apre a un confronto vero e a scelte significative che si concretizzano nella reale vita ecclesiale, onde evitare di pensare al Sinodo – come troppe volte è già accaduto – come un’assemblea dove per l’ennesima volta si mette in piedi un apparato strutturale – con tanto di temi, slogan, argomenti, relatori, cartelline colorate e badge di ogni tipo – e poi tutto resta come prima.
Secondo aspetto: Sinodo significa avviare un cammino di ascolto reciproco e di dialogo tra tutti i battezzati, tra tutti i membri del Popolo di Dio e tra tutti coloro che, a prescindere dalle frettolose categorie con cui li etichettiamo vicini o lontani, desiderano interrogarsi in qualche modo su Dio, sul nostro tempo, sulla vita e sulla morte in tutte le loro rispettive appendici. Il Sinodo non è la convention dei vescovi o dei preti o degli addetti ai lavori, ma l’espressione viva di una Chiesa-comunione in cui si cammina insieme: «Popolo e pastori insieme – disse papa Francesco a Firenze – per interpretare e non subire il cambiamento».
Terza questione: il Sinodo va accolto e vissuto come una possibilità per vivere una sfida culturale, oggi più urgente che mai. Quando fu padre Spadaro a lanciare la pietra nello stagno, parlò della necessita di «leggere la nostra storia d’oggi e fare un discernimento». Dunque, un Sinodo per dialogare non solo ad intra, ma per avanzare insieme nella lettura del nostro tempo e delle sue sfide, cosicché l’annuncio del Vangelo non sia mai separato dalla cultura in cui è chiamato a incarnarsi.
E, qui, occorre evitare il rischio paventato da Giuseppe Lorizio dalle colonne di SettimanaNews: attenzione a non ripetere l’errore di pensare alla «cultura» pensando semplicemente alle élites accademiche e agli specialisti del settore. Esiste una «cultura della strada», una cultura del vissuto quotidiano e reale, che bisogna ascoltare e cui occorre dar voce. Solo così, afferma Lorizio, si può «rivitalizzare la valenza culturale del kerygma, coinvolgendo energie, risorse e persone non solo disponibili, ma soprattutto competenti e appassionate ad un cammino di nuova evangelizzazione».
Un cantiere di lavoro: quali temi per un Sinodo?
Poste le tre questioni, sarebbe importante aprire un cantiere di lavoro. Sarebbe bello se le comunità cristiane iniziassero ad avanzare delle proposte, non elaborando idee astratte per un convegno perfetto, ma semplicemente interrogando le proprie difficoltà e le proprie speranze. Sarebbe bello se i preti e i vescovi, come pastori in mezzo al loro popolo, si facessero compagni attenti di questo sapienziale cammino di discernimento, offrendo il prezioso contributo di uno sguardo «altro» che, nella sua diversità, non si contrappone ma si completa con l’altro.
Da un cantiere simile – lo possiamo immaginare – non potrebbero non emergere alcune questioni urgenti: la grave crisi della catechesi dell’iniziazione cristiana; l’assenza dei giovani e le difficoltà legate alla trasmissione della fede; il rinnovamento dell’eccessiva «stabilità» della parrocchia in un mondo che ha inaugurato stili di vita mobili, fluidi, veloci e plurali; la sfida della centralità della Parola di Dio, spesso marginalizzata da un agire pastorale «sacramentalizzato» e da forme di cristianesimo eccessivamente devozionistico e sentimentalista; una nuova riflessione sul ministero e sulla formazione del presbitero e sui ministeri nella comunità cristiana; una seria riflessione sul ruolo della donna nella Chiesa e sull’accompagnamento di tutte le situazioni esistenziali ferite, oltre il muro di una religiosità legalista che «scaglia pietre» e oscura la fede che si fa compagna solidale con l’umano.
Su questi e altri temi, come sta la Chiesa italiana? Quali cambiamenti attuare, quale strada da percorrere, quali possibilità nuove si aprono in un tempo come questo? Sarebbero solo alcune delle questioni. Il cantiere è aperto e speriamo si aggiungano operai entusiasti di iniziare un cammino di rinnovamento.
Ottime riflessioni riflessioni quelle di Stagliano (mio caro ex Alunno a Milano) e di Lorizio. vanno continuate, ma anche semplificate per non essere troppo complesse. Quanto al cammino sinodale in atto ho l’impressione che si stia tornando solo o soprattutto a una revisione di superficie del già esistente (che pure ci vuole). Qualche mese fa, anche tramite SettimanaNews, invitai a pensare una Chiesa meno sacramentale e più della e dalla Parola; e a reimpostare in modo più teologicamente corretto il problema della donna nella Chiesa (compresa la possibilità del ministero di “pastore”). Ricevetti alcuni applausi e qualche accusa di eretico. Poi più nulla, in particolare da miei superiori.
È vero che la lingua è la “fonte dell’incomprensione” e tuttavia il dialogo (che si fa doverosamente attraverso parole) aiuta a comprendersi, chiarendo meglio i termini diventati equivoci. Lorizio sa bene quanto ci tiene Staglianò alla riflessione teologica, perché di recente su Settimananews ha condiviso la preoccupazione del Teologo Lateranense sull’afasia dei teologi sui grandi temi del dibattito pubblico, non ultimo la questione della crisi di governo e del nuovo incarico dato dal Presidente della Repubblica a Draghi (Lorizio è intervenuto su Famiglia cristiana proprio oggi egregiamente a ben sottolineare il date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, come anche la libera Chiesa in libero Stato, per una azione profetica della Chiesa verso ogni configurazione politica e forma governativa, per riferimento al Regno di Dio, sempre a venire è mai adeguabile). Il progetto di una PopTheology che si sta istruendo e sviluppando esige, infatti, più intervento pubblico della teologia è una sua maggiore diffusione tra la gente comune. La teologia deve poter essere divulgata nel popolo, sia sul versante delle sue acquisizioni critiche, sia anche per quell’educazione alla “critica e all’autocritica” di cui oggi soprattutto c’è bisogno per credere in modo adulto. Un Sinodo in Italia dovrebbe potersi avvantaggiare necessariamente della teologia, nella consapevolezza però- mi perdoni Lorizio- che la teologia non venga circoscritta nelle istituzioni teologiche e non venga identificata con la “teologia dei teologi o dei professori di teologia” esclusivamente. La Denzinger theologie è (anche) esattamente la teologia dei teologi costruita sui testi dei dogmi del Magistero. Il riferimento alle Encicliche del Magistero di Papa Francesco come “contenuto da masticare e realizzare nella possibile riforma della Chiesa in un Sinodo”, non riproporrebbe nemmeno il metodo di quel modo di fare teologia.
Il mio post era scritto a caldo, ma nonostante la stanchezza di una giornata intensa di lavoro, con lucidità ho scritto quello che ho scritto sul non-bisogno di “relazioni teologiche” (alla vecchia maniera) che magari ci istruiscono su cosa sia “sinodalità etc etc, mettendo invece a tema “la riforma della Chiesa in Sinodo” con il riflettere criticamente (cioè dunque facendo teologia) su come tradurre in “prassi pastorale riformata” il Concilio Vaticano II (che vediamo per l’oggi interpretato dal Magistero di Francesco, come prima di Lui era interpretato dal luminoso Magistero dei Papi che lo hanno preceduto: ho insistito infatti sulla sinodalità diacronica).
L’interpretazione del Concilio nella sua globalità va da sè, ma si tratta oggi di superare quello schema oppositivo che è sopravvissuto nei tempi tra le “due ermeneutiche”, per mettersi insieme convergendo sullo stesso punto: la riforma delle modalità di trasmissione della fede affinché il volto Santo di Dio di Gesù Cristo venga conosciuto da tutti (anche dagli stessi cattolici cristiani) e diventi “motore di rinnovamento permanente non solo della Chiesa, ma anche di ogni cultura, contribuendo così ai processi di umanizzazione della storia che avanza, sperabilmente verso una convivenza civile pacificata, verso l’amicizia sociale della fratellanza universale di Fratelli tutti.
Se Lorizio cerca giustamente l’architetto, dovrà ammettere (Denzinger theologie impossibile a parte) che l’architetto c’è: è il primate della Chiesa italiana e con Lui -uniti a Lui- il corpo della Chiesa italiana, espressione in Italia dell’unico collegio apostolico. L’appello del Papa per il Sinodo, dunque, non potrà non essere accolto e vissuto, mettendo in campo e al lavoro le risorse interiori al corpo ecclesiale (primi tra tutti i teologi, specialmente quelli più giovani, perché più audaci e profetici -più incendiari e meno pompieri, per intenderci).
Insisto sul riferimento alle Encicliche papali, perché-diversamente dal vecchio passato per conciliare- sono pregne della buona teologia del post-concilio, esprimendone in sintesi i grandiosi guadagni del sapere teologico e applicandoli ai vari temi. Concordo con Lorizio che del Convegno di Firenze non è “giusto” citare solo l’intervento del Papa, ma quell’intervento è come un “paradigma” di tutto il Convegno che non fu solo quell’intervento. Assolutamente si. E tuttavia proprio quell’iter enti di Francesco a Firenze chiedeva una teologia più diffusa, impegnata magari non sulle elucubrazioni astratte, ma sulla vita della gente e della gente che soffre in particolare, perché l’umanità o sia davvero cristiano, cioè porti a vivere nella carne addolorata degli umani la bellezza speranzosa dell’umanità di Gesù. Allora è tempo per mettersi all’opera, cominciando a indicati possibili aspetti da cantierizzare. La questione della fede (fides qua) è a mio avviso prioritaria, soprattutto perché porta inesorabilmente sul nervo scoperto della questione di Dio. Ed ecco una domanda: i teologi della teologia ecclesiale di cui abbiamo bisogno, si stanno accorgendo che questo Papa sta a poco a poco mettendo a fondamento della riforma della Chiesa proprio la “riforma dell’immagine di Dio”?
Quando afferma -quasi tra i corridoi o anche a mo’ di battuta- che “agire con violenza in nome di Dio è satanico” non chiede ai teologi di verificare con le loro teologie che “non esiste un Dio violento”? E poiché è un papa cattolico, cioè riferito al messaggio di Gesù su Dio e dunque cristiano (crede che Gesù è il Figlio di Dio dall’eterno), allora non chiede ai teologi di far capire al popolo che non solo non esiste oggi un Dio violento, ma non è mai esistito?
E da qui in avanti, altri interrogativi interessanti che interpellano il lavoro dei teologi della teologia come servizio ecclesiale, tra i quali: come far leggere e pregare il popolo con Salmi che invece inneggiano a un Dio violento che annienta interi popoli ed esige dal suo popolo l’annientamento dei nemici?
Se Lex orandi è Lex credendi e viceversa, che ne è di quanto ha firmato Papa Francesco con l’Iman di Al Azar sul fatto che “Dio non vuole violenza”?
Mi pare che in altri tempi si gridava (anche da parte dei Papi) “Dio lo vuole” e si mandavano eserciti a morire per la fede. Altri tempi, altre Chiese, appunto altri “dei”.
Carissimo Francesco, grazie per la tua riflessione ispirata alla metafora del “cantiere”. Ma, come ben sanno tutti, un cantiere ha bisogno di un architetto, di qualche ingegnere e di maestranze istruite e capaci. All’orizzonte della chiesa italiana non vedo alcun architetto, forse qualche ingegnere da condominio, ma risorse, non sempre istruite, nelle maestranze. Quindi da dove si comincia? Dal basso certamente con la formazione, ma anche dall’alto, perché senza una leadership credibile non si va da nessuna parte. Leggo il commento del vescovo Staglianò. Mi sembra triste dover apprendere che “per il Sinodo non dovremmo aver bisogno di “relazioni teologiche” aggiuntive sul tema del cristianesimo (sempre a venire, perché è un avanzare infinito verso Cristo omega)…”. E ciò perché abbiamo il magistero di Francesco (e giù la lista dei pronunciamenti). Siamo alla tanto deprecata, ma sempre in agguato, Denzigertheologie! Proprio perché abbiamo un vescovo di Roma che esprime al meglio il modello kerygmatico-kairologico, abbiamo bisogno di teologia. L’appello di Staglianò mi sembrava un pò più articolato, ma lo sviluppo del discorso non è condivisibile. E poi, è possibile che di tutto il lavoro del convegno di Firenze si debba citare solo l’intervento del papa? Tutti i tavoli per non dire delle relazioni e delle conclusioni sono stati inutili? Altro che sinodalità!
Caro don Pino, grazie per le tue mai scontate puntualizzazioni teologiche. Rilancerei, se possibile, con un dialogo sul tema tra te e il vescovo Staglianò, certo che il vostro rispettivo e decennale impegno teologico è già un ottimo contributo di “architettura” del cantiere. Nella speranza che tanti altri partecipino attivamente al dibattito.
Sinodo/sinodalità come linguaggio popolare, come forma del vivere comunitariamente, come modalità cristiana di abitare il mondo, come fede trasmessa camminando sulla Via. Per istintiva associazione mentale, ricordo che prima di essere chiamati cristiani, i cristiani erano quelli che “stavano in via”. Fu una via nuova, quella aperta dal comandamento dell’amore di Gesù (amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi); su questa via accadevamo i miracoli più grandi: uomini e donne si convertivamo a “questo amore” e cambiavano esistenza, modi di parlare con gli altri, di relazionarsi con gli altri, modo di sperare, di far festa, di aiutarsi reciprocamente, di soccorrersi nelle necessità (persino “mettevano in comune i loro beni… un po’ troppo ingenuamente tant’è che poi non avevano più niente per sostentarsi …almeno alcuni). La colletta famosa di Paolo non è un’operazione tattica di raccolta del denaro, ma è “cosa della fede”, è la fede stessa all’opera, è fede viva (poiché una fede che non opera attraverso la carità non è fede, essendo fede morta, mortificata, annichilita).
Nel cantiere di lavoro sul futuro Sinodo della Chiesa italiana metterei a fuoco un tema (che non è un tema tra gli altri, perché attraversa tutti i temi possibili, quelli elencati in questo significativo intervento di don Francesco Cosentino e altri ancora immaginabili): quello della fede cattolica come fede sinodale. In quanto “fede sinodale” si tratterebbe di mettere al centro più la “fides qua” (firma e atteggiamento del credere) che non la fides quae (contenuto e dottrina del credere). Se il problema è-per esempio- la trasmissione della fede ai giovani, la questione non sarebbe quella di interrogarsi sulle verità dottrinali da comunicare e nemmeno su come linguisticamente farlo (cosa comunque importante) ma sul far diventare la fede vissuta (fede testimoniale) il tempo e il luogo e la lingua della trasmissione. Vedi come vivi, come percepisci e abiti i drammi del mondo e acquisisco “cosa devo credere”. Fede sinodale dice per esempio che non si crede come “individui” , ma come comunità in comunione… solo l’amore è credibile… solo l’amore tra noi, che spesso esige il superamento sacrificato delle mie stesse idee, nel pazientare perché l’altro cammini insieme a me, comunica davvero “il contenuto della fede”, cioè Dio è amore.
La fede sinodale permetterebbe di smascherare le tante “eresie pratiche di un cattolicesimo convenzionale” che porta ancora tanta gente a cibarsi dell’Eucarestia e a invocare il respingimento dei migranti: si può dire che questa condizione religiosa è eretica, snatura del tutto la verità cristiana che essendo la persona stessa del Cristo, è verità nella carne umana e, dunque, verità appresa e apprendibile, trasmessa e trasmissibile, solo nella carne sofferente dell’uomo dei dolori e, comunque, nei corpi di uomini e donne spesso martoriati, scartati, tenuti “nel rovescio della storia”?
Mi fermo qui, sto scrivendo di getto, dopo aver letto questo articolo. Vorrei però aggiungere che per il Sinodo non dovremmo aver bisogno di “relazioni teologiche” aggiuntive sul tema del cristianesimo (sempre a venire, perché è un avanzare infinito verso Cristo omega)… poiché viviamo in questo tempo guidati da Papa Francesco che chiede sinodalità nelle chiese locali e magari un Sinodo per la Chiesa italiana, sarà l’abbondante magistero di Francesco che dovremmo coniugare – dalla Lumen fidei , attraverso Evangelii Gaudium e Laudato si, alla Fratelli tutti, mettendo in evidenza la “sinodalità diacronica” che caratterizza questo Magistero, soprattutto per riferimento alla Lumeno fidei che ha chiuso l’Anno della fede voluto da Benedetto XVI. Il fatto che Francesco abbia iniziato il suo ministero apostolico, proprio in quell’anno, come anche il fatto che questo è accaduto per la “singolare” dimissione libera di Benedetti XVI- non è cosa da prendere alla leggera, quasi fosse un accadimento storico come tanti altri. La teologia della storia – richiesta dalla fede sinodale- esige di valorizzare il carattere provvidenziale (e direi anche sacramentale) di questo evento. La sinodalità diacronica dovrebbe iimpedire di pensare alla “riforma” della Chiesa come “rottura radicale con il passato” e invece esigere un rinnovamento creativo (indispensabile) nella continuità della Traditio… il fissismo della Tradizione è opera diabolica (cioè divisoria, non sinodale), ma anche la rottura con la Tradizione (in nome di un preteso ritorno al “puro Vangelo” sarebbe opera non sinodale: la sinodalità sincronica che potremo vivere è quella che non disdegna la sinodalità diacronica, anzi la benedice. Spero di ritornare ancora su questi temi.