Non fare nulla, talvolta anche disattendendo esplicite indicazioni – è stato questo il modo in cui la CEI e i vescovi italiani hanno deciso di accompagnare il papato di Francesco. Fin dai primi giorni, fino a pochi giorni fa. Quasi non rendendosi conto che il pontificato immaginato breve si stava dilatando nel tempo, mostrando sempre di più l’afasia della Chiesa italiana rispetto agli orizzonti di Francesco.
Le linee portanti per una rieducazione della Chiesa cattolica al Vangelo si sono andate accumulando, fino al ministero di intercessione universale nella pandemia e al lascito testamentario di Fratelli tutti, ma la CEI ha assorbito tutto come acqua che scorre sulla pelle. L’enfasi messa sulla ripristinazione del segno di pace nelle celebrazioni domenicali, per cui è stato necessario un Consiglio permanente della CEI, dice tutta la distanza dell’apparato episcopale italiano dal ministero petrino di Francesco.
Se la stasi della Chiesa italiana, imbevuta di retorica bergogliana proprio per non toccare nulla del suo impianto complessivo, ha avuto un che di stonatura fin dal principio, essa è divenuta ecclesialmente e civilmente insopportabile nel corso di quest’ultimo, lungo anno della pandemia.
Una Chiesa locale oggi non può permettersi questo attendismo esasperato – non tanto per un’eventuale mancanza di fedeltà al magistero del papa, quanto piuttosto per ben più radicali ragioni di una sopravvivenza un minimo sensata nella vita del paese e davanti alla fede dei credenti.
Sinodo: cosa non deve essere
Giunti a questo, a Francesco non è rimasto che il ricorso a una garbata obbedienza: la Chiesa italiana deve tornare a quanto da lui indicato a Firenze e amabilmente lasciato essere lettera morta per anni; la Chiesa italiana deve iniziare un processo di Sinodo nazionale.
Francesco richiama la Chiesa italiana a questa obbedienza non per il compiacimento di vedere eseguiti i propri ordini, ma nella sollecitudine di chi ha compreso che, nel rimanere splendidamente identiche a se stesse, qualsiasi cosa accada, la CEI e la Chiesa italiana stanno alacremente lavorando alla propria autodistruzione.
Se questo deperimento dell’apparato ecclesiastico non toglie sicuramente il sonno a Francesco, glielo tolgono invece gli effetti di soffocamento che esso ha verso quelle pratiche evangeliche di cristianesimo comunitario che non mancano certamente nella Chiesa italiana. Esattamente quelle che hanno permesso alle parrocchie e alla loro gente di intercettare i mille volti nascosti della crisi provocata dalla pandemia. Lì la fede e il cattolicesimo sono praticati all’altezza dell’ora presente – che è sempre la misura della qualità evangelica di una Chiesa locale.
A oggi sappiamo cosa non deve essere l’avvio di un processo di Sinodo nazionale in Italia: non i convegni nazionali che hanno caratterizzato tutto il nostro post-concilio; non i sinodi diocesani celebrati in questo medesimo periodo, che sono stati praticamente tutti delle montagne che hanno partorito dei topolini; non l’orchestrazione, per mano della CEI e dei suoi uffici, di un’ulteriore retorica che fa il verso al papa e lascia morire ogni possibilità di aprire una nuova epoca del cattolicesimo italiano.
Più difficile, ma non impossibile, cercare di individuare a cosa questo inizio di processo dovrebbe somigliare. Guardiamo alla Milano di Martini. Ancora oggi, per tutta una generazione di credenti, l’Assemblea di Sichem per i giovani della diocesi del 1989 rimane impressa operosamente nel loro vissuto molto più di quanto non lo sia il Sinodo diocesano celebrato tra il 1993 e il 1995.
Sichem fu sicuramente uno di quei paletti di cui parla il profeta, mentre del Sinodo si è quasi persa la traccia. Da questo possiamo apprendere qualcosa per il compito che sta ora davanti a noi come comunità ecclesiale italiana.
Tra Milano e Sichem
Sichem riuscì perché l’itinerario proposto da Martini fu percorso nelle parrocchie, nei gruppi giovani, nelle associazioni – ognuno a modo suo, a partire dalla sua storia. Questa dispersione territoriale e di appartenenza ecclesiale, che condivideva un immaginario biblico comune e il desiderio dei giovani di essere protagonisti della propria fede, si rivelò una benedizione.
Solo dopo, tutto il lavoro fatto trovò un momento di sintesi e di celebrazione comune a livello diocesano – a chiusura di un cammino realmente fatto e per affidare ai giovani il mandato che ne scaturiva.
Sichem riuscì perché il percorso assembleare proposto da Martini raccoglieva istanze e prospettive che stavano germinando nella consapevolezza dei giovani di allora della diocesi. Certo, non si limitò semplicemente a constatarle e a confermarle, ma le stimolò anche a tradursi in pratiche ecclesiali e civili che attuavano una fede consapevole dei grandi mutamenti che albeggiavano proprio in quell’anno. Per tutta una generazione l’Assemblea di Sichem rimane la fonte che ha permesso di declinare attivamente la fede cristiana per il lungo trentennio che ha chiuso il dopo-guerra in Europa.
Sichem riuscì perché, pur suggerita da Martini, fu voluta dai giovani e dai preti che li accompagnavano: il suggerimento fu il modo di dare forma condivisa, di popolo, a quella precisa volontà ideale. E anche oggi sarà sul campo delle parrocchie che si deciderà ciò che ne sarà del processo sinodale della Chiesa italiana.
Qui Francesco l’ha voluto radicare, nel mezzo dei vissuti concreti della gente. Qui ci sono le risorse della fede per non farlo fallire in partenza. Qui c’è la possibilità per i preti di lasciarsi portare per davvero dalle loro comunità – che sanno e vogliono lavorare, bisogna solo lasciarglielo fare senza pretendere di dettare loro l’agenda ogni santa mattina.
Qui c’è quello che i vescovi devono imparare a vedere non come un problema (un’altra comunità per cui bisogna trovare un prete…), ma come la feconda resistenza del Vangelo davanti a ogni sclerosi dell’apparato ecclesiastico (la fede che abita per davvero i quartieri e i tempi della città secolare…).
Tracce di sinodalità in atto
In vista di un processo sinodale della Chiesa italiana non bisogna certamente copiare l’esperienza milanese dell’Assemblea di Sichem, ma essa ha sicuramente qualcosa da dire a noi oggi. Innanzitutto, ci dice che un processo sinodale è di fatto già in atto nella nostra Chiesa italiana. Esso va riconosciuto e onorato come tale.
La scelta di celebrare, nel periodo di Avvento e Natale, la terza forma del rito della penitenza, fatta dalle diocesi del Triveneto e da altre (poche) diocesi italiane, ha esattamente questa forma: ossia, quella di una suggestione del ministero ordinato che impatta su una disponibile volontà della comunità credente – perché ne è il frutto che viene da un ascolto sensibile e illuminato dei vissuti.
Un’altra realtà che può essere compresa come traccia di una sinodalità in atto nella nostra Chiesa è quella della celebrazione domestica del giorno del Signore – di cui tutti abbiamo appreso i primi rudimenti insieme, preti e laici, in questo primo anno della pandemia. Ciò che si è realizzato è stato l’allargamento della liturgia comunitaria della fede nei luoghi in cui abita la città secolare del nostro tempo. La celebrazione cristiana, in ragione di questo trasloco forzato, non induce più a pensare la fede come alla creazione in vitro di un altro mondo, parallelo e alternativo a quello degli uomini e delle donne nostri contemporanei, ma come a un modo proprio di abitare e stare nel mondo che è di tutti.
Si potrebbe andare avanti, ma questi piccoli indizi bastano a delineare quei referenti in esercizio che un eventuale Sinodo della Chiesa italiana deve assumere come assi portanti della sua configurazione.
Le indicazioni date da Francesco sono chiare e nette: interruzione e revoca di ciò che si è sempre fatto come unica possibilità di essere comunità credente nella vita del paese; attivazione della Scrittura come bacino grammaticale per apprendere che il Vangelo parla già la lingua del mondo secolare – e che siamo noi, Chiesa italiana, a ignorare questo idioma che pur dovrebbe essere quello più familiare e materno; primato autorevole della comunità che crede sulle logiche preservative di chi è chiamato a guidarla (parrocchia e diocesi) – perché nelle pratiche della fede condivisa si custodisce la verità più trasparente del Vangelo cristiano di Dio e le abilità per riconoscerlo all’opera nella città degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Un dovere impellente
La Chiesa italiana non può continuare a cincischiare attendendo congiunture più favorevoli, e la CEI non può più rappresentare il freno a mano tirato su quel che resta di forza del cattolicesimo nostrano. Pensare che i “temi” del Sinodo saranno ciò che ne deciderà l’esito, vuol dire continuare a rimanere invischiati in questo attendismo che nulla vuole cambiare. Come Chiesa, ci è stato chiesto di avviare un processo – ossia di iniziare a essere Chiesa e comunità cristiana in modo altro da quello praticato fino a oggi dopo il Vaticano II. Entrati in questa logica, il “cosa” del Sinodo sarà, da un lato, relativizzato e, dall’altro, suggerito da prassi già in atto nelle comunità cristiane.
La Chiesa italiana è stata posta da Francesco davanti a un dovere impellente, a cui non può non corrispondere debitamente e all’altezza drammatica dell’ora che viviamo. Per due ragioni cristalline.
La prima è il baratro della crisi che esploderà a primavera (quella del disfacimento della politica italiana è già in atto da alcuni giorni), quando verrà meno l’argine degli ammortizzatori sociali e la vita di centinaia di migliaia di italiani sarà ulteriormente stravolta dalla pervasività totale del virus.
La seconda è la bellezza senza precedenti di questa stagione pastorale, propiziata dal pontificato di Francesco: quella di poter dire di aver partecipato alla nascita germinale di un cattolicesimo italiano davvero altro, frutto dei vissuti di fede e non delle alchimie dell’apparato ecclesiastico.
Un cattolicesimo di cui noi non vedremo la forma, come Mosè non entrò nella terra promessa, ma che non sarà senza le competenze della fede che possiamo mettere in gioco proprio ora.
Potremo essere una generazione credente che si congederà dalla vita con la consapevolezza di aver avviato, niente di più niente di meno, una nuova epoca della fede in Italia. Non è roba da poco.
Qualche riflessione “a caldo” per dialogare con quanto proposto qui da p. Marcello e il giorno prima da don Francesco:
– “Sarebbe bello se…”: alcune realtà diocesane e parrocchiali (o di unità pastorale), in effetti, sembrano aver avviato un “interrogarsi sulle proprie difficoltà e speranze”… perché non iniziare il Sinodo raccogliendo quanto si è mosso in questo senso…? Credo che si ritroverebbero molti dei temi suggeriti…
– “Entrati in questa logica, il ‘cosa’ del Sinodo sarà da un lato relativizzato e, dall’altro, suggerito da prassi già in atto nelle comunità cristiane…” Certo non sarebbe facile articolare e collegare un cammino del genere, ma almeno assumerebbe da subito, anche nella forma, il significato del camminare insieme e insieme riflettere, interrogarsi e pregare sui cammini avviati. E forse eviterebbe la tentazione del far “cominciare da zero” un percorso che probabilmente qua e là è già stato avviato, magari “a macchia di leopardo”… ma non sarebbe la prima volta che un processo di cambiamento, anche profondo e concreto, prende vita così, piuttosto che da programmazioni a livello centrale…
– Ho avuto ed ho esperienza diretta di congregazioni e istituti religiosi (anche femminili) che hanno avuto il coraggio di avviare processi sinodali al proprio interno, mettendosi su una strada per niente facile perché aperta a risultati inaspettati, proprio in quanto realmente processuale… Perché non ascoltare anche loro? Potrebbe essere un’occasione per dare voce a tante donne che servono la Chiesa italiana senza fare troppo rumore…
E chissà che dal dibattito avviato su queste pagine non possa nascere una proposta un po’ articolata e concreta da offrire alla CEI…?
Grazie, c’è molta sintonia con l’articolo che ho pubblicato ieri qui su Settimananews…Occorre aprire un canitere sul sinodo…