Ogni volta che decidiamo di partecipare alla messa domenicale, noi non ci accontentiamo di osservare uno dei precetti della Chiesa, ma veniamo per partecipare al sacrificio di Cristo Signore: quello nel quale egli ha offerto se stesso al Padre per la salvezza di tutta l’umanità.
Riascoltiamo questa esortazione dell’autore della lettera agli Ebrei, che parla di Gesù sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek: «Nei nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime». È da Gesù, dunque, che dobbiamo imparare a pregare. La domenica è per tutti l’occasione propizia per pregare come Dio comanda.
1. La prima lettura ci viene offerta dal profeta Amos. Anche in questa pagina delle sue profezie il profeta manifesta la sua grande sensibilità verso i fenomeni sociali. Egli si preoccupa soprattutto della sperequazione sociale che vige indisturbata nel regno d’Israele.
Da un lato, dunque, il comportamento spensierato e inconsulto dei ricchi, cioè di quanti sono preoccupati solo di vivere la dolce vita. Costoro si vantano di essere sicuri, al riparo da ogni sventura; pensano solo a mangiare e a bere; si concedono tutte le delizie di questo mondo; si concedono tutti i piaceri che vengono dalla musica e dagli unguenti. Si comportano come ciechi; le ricchezze li hanno accecati e non si rendono conto della rovina verso la quale si stanno incamminando. E così il loro comportamento sfacciato e provocatorio suscita scandalo nei poveri, come del resto leggiamo in alcuni salmi che trattano proprio di questo tema (cf. Salmi 37, 73 e 49). Il contrasto/confronto non avviene solo sotto il profilo economico, ma coinvolge ogni altra espressione o manifestazione della vita.
Dall’altro lato, il profeta ha davanti ai suoi occhi la miseria nella quale si trovano i poveri. Quando egli parla della «rovina di Giuseppe» preannuncia un evento storico che si realizzerà nel 721 a.C, ma allude anche alla miseria che travolgerà tutti. Per questo il profeta può affermare: «Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti».
2. Il salmo responsoriale ci presenta il vero volto del Dio d’Israele. In forte contrasto con i ricchi/potenti della profezia di Amos, Dio è giusto e rende giustizia agli oppressi; egli è buono e dà il pane agli affamati.
Questo salmo potremmo considerarlo come un anticipo e una profezia delle beatitudini evangeliche. Anche il Primo Testamento ci offre non poche pagine improntate al tema delle beatitudini.
«Il Signore libera i prigionieri»: alla stregua di ciò che accadde ai tempi del grande Esodo, Dio si mette dalla parte degli oppressi: non solo contro i popoli stranieri che opprimono Israele, ma anche contro i ricchi/potenti che, in seno al popolo eletto, opprimono i poveri.
«Il Signore protegge i forestieri. Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi»: sono qui elencate tutte le categorie di persone che possono essere considerate “povere”, per farci comprendere quanto vaste sono le dimensioni del campo della carità.
«Il Signore ama i giusti»: è come la sintesi di tutto il salmo. Per farci comprendere che, anche per noi, come per Dio, ogni gesto di carità verso il prossimo dev’essere ispirato dalla carità. Allora ogni gesto caritatevole, per quanto semplice, diventa una piccola ma autentica epifania di Dio, che è Amore.
3. La seconda lettura si rifà ancora alla prima lettera che l’apostolo Paolo indirizza al suo discepolo Timoteo. Paolo gli pone dinanzi una serie di virtù nelle quali dovrà essere modello a tutti: «Tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza». Un ideale certamente alto, ma che può essere realizzato da un ministro di Dio, al quale sta a cuore sia la gloria del suo Dio sia il bene del popolo affidato alle sue cure pastorali.
Possiamo annotare che ogni virtù qui elencata da Paolo ha due risvolti: da un lato, dice riferimento a Dio, mentre, dall’altro, dice riferimento al prossimo. Questo vale per la giustizia, che consiste nel situarsi correttamente di fronte a Dio; ma implica anche attenzione al prossimo, soprattutto ai poveri. L’esortazione dell’apostolo non suona come qualcosa di astratto o di esclusivamente religioso, ma mette in evidenza la radice di ogni comportamento umano.
Segue l’invito al combattimento: è chiaro che si tratta di un combattimento spirituale perché il fedele ministro di Dio deve mostrare coi fatti di essere sollecito nel difendere i sommi diritti di Dio e, nello stesso tempo, i diritti del prossimo.
Quindi l’apostolo formula un comando preciso: «Davanti a Dio… e a Gesù Cristo… ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo». Qui per “comandamento” dobbiamo intendere quello nel quale Gesù stesso ha compendiato tutto il suo insegnamento: il comandamento della carità.
4. La pagina evangelica ci rimanda alla parabola del ricco epulone che fa da pendant con la parabola dell’amministratore scaltro. Gesù, presentando il contrasto tra un ricco sfrontato e un povero in canna, si pone sulla stessa linea del profeta Amos. Ma questo è vero solo in parte, perché la punta della parabola non va in questa direzione.
Simile ad un racconto egiziano, la parabola illustra il rovesciamento dei valori nell’ora della morte e mette in guardia contro il cattivo uso delle ricchezze. Questa è solo la prima parte del racconto. Alcuni esegeti fanno notare che Luca, «utilizzando alcune immagini del suo tempo, non intende certo istruire i suoi lettori sull’altro mondo: il suo unico scopo è indicare loro la via della salvezza» (TOB). Dobbiamo perciò stare attenti a non materializzare o a cosificare ciò che il brano del Vangelo dice sull’aldilà. Scopo di questa prima parte della parabola è quello di «mettere in opposizione questo mondo al mondo/avvenire, la terra al cielo, il tempo del servizio al ritorno del Signore» (B. Rigaux).
La seconda parte della parabola ci offre un altro insegnamento. Essa mostra che, per credere, non è necessario un miracolo: basta prestare ascolto alle Scritture: Paolo direbbe che «la fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). In questa pagina lo afferma con estrema chiarezza il padre Abramo: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risuscitasse dai morti». Vedere e quasi pretendere un miracolo vale molto meno che prestare ascolto a Dio che parla. Ma noi abbiamo proprio imparato ad ascoltare la parola di Dio ogni volta che la Chiesa ce la propone?