Nel corso del webinar organizzato da Caritas Italiana il 29 gennaio scorso in occasione della presentazione del dossier Sahel terra senza pace, mons. Laurent Dabiré, vescovo di Dorí e presidente della Conferenza episcopale del Burkina Faso, ha rilasciato la seguente dichiarazione sullo stato del terrorismo e la condizione del Paese.
Dal 2015 in Burkina Faso imperversa il terrorismo, con attacchi, rapimenti di persone, distruzioni. Il Paese si è trovato, come d’improvviso, coinvolto nel tormento. Si può parlare di aggressione terroristica ovvero di insurrezione terroristica.
La causa principale del movimento terroristico è l’interesse personale di alcuni e di alcuni gruppi che vogliono fare della guerra un affare. Il terrorismo è collegato alla cronicizzazione dei conflitti, finalizzata a una sorta di mercantilizzazione: la guerra è divenuta ormai un mezzo per guadagnare.
Burkina Faso: terrorismo
Quelli che mettono in campo il terrorismo vogliono controllare traffici di diversa natura: droga, sigarette, oro e anche traffici di persone umane.
La guerra e le armi sono al servizio degli affari. Ciò porta al coinvolgimento di una moltitudine di persone, ciascuna col proprio interesse, anche di ordine – diciamo – religioso-culturale. In questo modo si manifesta, infatti, la contestazione violenta dell’ordine politico e sociale, in Burkina Faso così come in altri paesi africani.
Ci sono terroristi che sono chiaramente interessati a sovvertire e a creare un altro ordine, del tutto favorevole ai loro affari. I metodi terroristici vengono usati, quindi, per dominare, controllare, costringere le popolazioni a chiedere pietà per la loro vita, ad obbedire e ad accettare il nuovo “ordine” che si vuole instaurare.
Il Sahel si è ritrovato quale porta d’accesso del terrorismo in Burkina Faso. Dopo i primi episodi verificatisi nel 2015, nel gennaio 2016 c’è stato un attentato nella capitale. In quel momento abbiamo chiaramente capito di essere entrati nel mirino dei “signori della guerra”.
Come ho detto, gli attori protagonisti di questo terrorismo sono venuti dal di fuori del paese, ma, gradualmente, sono giunti a coinvolgere gruppi già radicalizzati che hanno appoggiato e rinforzato il movimento. Assistiamo perciò a una sorta di complicità delle popolazioni locali, cosa che rende assai difficile risolvere il problema, perché ormai è ben addentro. Il governo dello stato, con i mezzi che ha a disposizione, fa qualcosa, ma non riesce affatto a contenere la violenza e a far tornare la situazione in equilibrio, in pace e sicurezza.
Nel Sahel questa situazione ha prodotto tante morti violente, distruzione di beni e tantissimi sfollati interni. Sono oltre 1.600.000 le persone che, ad oggi, si sono spostate, che hanno perduto i mezzi di sostentamento e il cui futuro è gravemente compromesso: soprattutto giovani non possono più andare a scuola e non possono aspirare ad un lavoro, per mandare avanti la famiglia.
A livello della nostra Chiesa, il terrorismo ha ridotto l’azione pastorale dei preti e delle suore che non possono più uscire dalle città. Da ben prima dell’avvento del virus, siamo confinati dal terrorismo nei centri urbani. Siamo stati persino costretti a chiudere – per quanto riguarda la mia diocesi di Dorí- tre parrocchie su sei. Ma la Chiesa è diventata comunque il segno di una presenza cristiana che resiste, a tutti i costi, nel Sahel.
Non so se posso paragonare la nostra Chiesa alla Chiesa delle catacombe, ma io sento un po’ così. Stiamo resistendo nelle chiese, nelle città.
Eppure, il rapporto della nostra Chiesa con le altre religioni, soprattutto con l’Islam, nel Sahel e a Dorí, è sempre stato e resta un buon rapporto. Nella diocesi c’è una organizzazione interreligiosa che opera in tutto il Sahel, che è denominata Unione della Terra dei Credenti: vi lavorano insieme, per statuto, cristiani cattolici e musulmani, mentre i protestanti vi sono invitati. Con questa organizzazione abbiamo fatto molto lavoro di sensibilizzazione e di formazione alla pace, alla convivenza, alla solidarietà, per affrontare le sfide comuni dello sviluppo.
La Chiesa nel Sahel
Questo lavoro va avanti da oltre cinquant’anni. Credo che questa esperienza sia servita da scudo di protezione alla città di Dorí e alle sue periferie. Penso che abbia posto la chiesa cattolica in Burkina Faso quale soggetto credibile del dialogo, della pacificazione, della raccolta delle speranze della gente. Faccio soltanto un esempio: nella città di Djibo, quando l’insicurezza è giunta al punto massimo, la gente non se ne è andata, è rimasta.
Io stavo per disporre la chiusura della parrocchia di Djibo, ma poi i fedeli mi hanno riferito che i musulmani volevano rimanere con loro sul posto, perché – dicevano – la chiesa era lì e, dove c’è la chiesa, c’è ancora speranza di vita. Ho dunque chiesto ai sacerdoti di farsi coraggio e di cercare di accompagnare la popolazione – sia cristiani che musulmani – sinché sarebbe durata la prova. Ho dovuto comunque chiudere quella parrocchia, perché gli attacchi si sono fatti ancora più numerosi e feroci.
Il ruolo che la Chiesa assume nel Sahel è un ruolo di speranza, di solidarietà, di appello a tutti a lasciarsi coinvolgere in un’azione di pacificazione e di comprensione reciproca. I terroristi che aggrediscono il Burkina Faso non sono i musulmani con cui noi viviamo da sempre: questi non hanno problemi con i cristiani. Il problema è costituito da coloro che sono arrivati da lontano e da quelli che sono stati radicalizzati a contatto coi primi.
La prova di quel che scrivo sta nel fatto che, quando i terroristi approdano in un posto, riservano lo stesso trattamento, tranne in qualche caso, sia ai musulmani che ai cristiani.
Continuiamo a sperare che la convivenza pacifica tra musulmani e cristiani nel Sahel – a partire da questa nostra esperienza – sia la base da cui potremo ripartire. Ecco la nostra sola speranza.