I membri di una comunità cristiana hanno il diritto e il dovere di esprimere le loro opinioni sull’operato dei loro pastori e di coloro che svolgono un qualsiasi servizio di leadership a loro vantaggio.
Queste opinioni, infatti, sono parte integrante del discernimento ecclesiale a cui ogni cristiano è chiamato e abilitato per il dono dello Spirito che ha ricevuto nel battesimo.
Ovviamente questo stesso Spirito guida i credenti a comunicare il loro punto di vista con uno stile umile e dialogico, senza alcuna certezza di aver ragione. Soprattutto, le loro valutazioni potranno riguardare solamente lo stile evangelico e relazionale dei leader, le loro convinzioni teologiche e pastorali e in particolare le loro decisioni che hanno avuto una qualche incidenza sulla vita della comunità.
Non sarà possibile andare oltre questi aspetti pubblici, pretendendo di conoscere i loro pensieri o addirittura in che misura si lascino guidare dalla grazia di Dio. Questo sarebbe un giudizio delle intenzioni, che è peccaminoso.
Orgoglio e ricerca del potere
Questo limite non vale per la verifica che ogni leader deve fare su di sé. A questo livello non è sufficiente un’analisi del comportamento esterno, ma occorre andare molto più in profondità, risalendo alle motivazioni più o meno consapevoli che hanno determinato quel comportamento. Infatti, è possibile agire correttamente, ma essere mossi da motivazioni immature o peccaminose.
Dunque, un buon leader ecclesiale si preoccupa continuamente di verificare che non solo il proprio agire pubblico, ma anche il proprio mondo interiore, sia guidato dallo Spirito. I moti dell’animo, soprattutto i pensieri che si sceglie di ospitare nella propria mente, devono rientrare nell’oggetto di questa verifica.
Su questo punto Gregorio Magno ha indicazioni molto importanti da offrirci. Nella Regola pastorale scrive: «Accade spesso che molte azioni per sé lecite e tali che, quando sono compiute, riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino però un’esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa, quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira su di sé l’ira senza riserve del Giudice. […] Così, proponendo questi esempi, non intendiamo disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore dalla brama di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino impadronirsi della massima dignità del governo delle anime, né coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a porre il piede sul precipizio» (n. 4).
Per Gregorio il veleno che uccide una buona leadership ecclesiale è dato dall’orgoglio e dalla ricerca del potere, ma questo veleno non si nasconde semplicemente nei comportamenti altezzosi o superbi, ma anche in quell’autoesaltazione e brama di dominio che resta relegata nei pensieri, ovviamente volontari. Si potrebbe obiettare che, dal momento che questi pensieri non si vedono, non possono scandalizzare nessuno. In realtà, la leadership ecclesiale basa la sua efficacia sull’essere strumento dell’azione dello Spirito, e questo esige un’effettiva maturità spirituale.
Coltivare pensieri umili
Se un ministro ordinato o un cristiano che ha responsabilità direttive coltivasse pensieri di grandiosità e di brama del potere, anche se sul fronte pratico risultasse essere molto efficace – se cioè fosse un ottimo organizzatore, sapesse coinvolgere facilmente le persone, e così via –, non sarebbe realmente in grado di edificare la sua comunità. Presto o tardi quei pensieri si esprimerebbero in comportamenti molto dannosi per tutti.
Il rischio di non liberare il proprio mondo interiore da questi due pensieri peccaminosi è particolarmente pericoloso per quei presbiteri che sono cresciuti nelle comunità cristiane di qualche decennio fa. In quel periodo le parrocchie erano luoghi ampiamente frequentati da giovani e da adulti, e chi svolgeva il ministero pastorale al loro interno poteva contare sull’ammirazione e sull’affetto incondizionato di tantissime persone, nonché sulla possibilità di esercitare un certo potere sulle loro vite.
Oggi il quadro è molto diverso, dal momento che i numeri dei partecipanti alle attività ecclesiali e la qualità della loro dedizione sono di tutt’altro genere. Può succedere quindi che un pastore viva questo scarto tra il passato e il presente come una sorta di inganno, come se nella sua giovinezza avesse scelto di vivere un tipo di ministero che oggi non esiste più, o che quanto meno non è più praticabile.
Ora, in questo quadro, coltivare i pensieri di orgoglio e di potere identificati da Gregorio risulterebbe particolarmente dannoso, perché potrebbe spingere a non accettare che il mondo ecclesiale dei decenni passati e il ruolo di prestigio e di potere che questo riconosceva al presbitero non esistano più, per cercare invece di farli rivivere nella propria fantasia. A quel punto il contrasto tra le proprie aspettative nei confronti della propria comunità e la sua realtà effettiva sarebbe insanabile, e condurrebbe ad una crescente e devastante frustrazione.
Ad esempio, certa veemenza nella predicazione volta a rimproverare i presenti del fatto che molti altri sono assenti – perché si sono defilati – potrebbe esprimere questo senso di disillusione e di rabbia per il fatto che il ruolo ecclesiale che si era scelto non è più praticabile.
In effetti, oggi la leadership ecclesiale deve essere orientata non tanto alla custodia dei pochi individui che “non possono che dirsi cristiani”, ma primariamente all’evangelizzazione delle molte persone che stanno faticosamente scegliendo se avere fede in Gesù o se orientare diversamente la loro vita, opzione che oggi è del tutto normale e legittima. Questo richiede da parte di un leader uno stile umile e dialogico, capace di servire la crescita di ciascuno senza però privarlo della sua libertà.
Solo purificando i propri pensieri dal bisogno dell’autoesaltazione e del potere ci si potrà riconciliare con l’odierno contesto ecclesiale, che in fondo sa apprezzare dei cristiani che hanno trovato in Gesù il senso della loro vita e lo testimoniano con umiltà e rispetto.
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