«Non c’è niente di nuovo sotto il sole!». Persino il motto preferito dal biblico Qohelet, quell’amaro ritornello capace di mettere in crisi ogni coscienza religiosa, nulla può di fronte a quanto accadde ad Assisi il 27 ottobre 1986. Non c’è nulla di retorico in questa affermazione: la Giornata mondiale di preghiera per la pace, infatti, fortissimamente voluta da Giovanni Paolo II e osteggiata da non pochi settori della Curia, rappresentò un novum assoluto nella storia delle relazioni interreligiose: per la prima volta un gran numero di esponenti delle diverse religioni presenti sulla terra si ritrovavano per pregare e testimoniare la natura profonda della pace, la sua qualità trascendente. Fra i commentatori, molti evidenziarono che dietro quanto accadde c’era, nei fatti, un riconoscimento reciproco delle religioni, e in particolare un’ammissione che le religioni e la preghiera – irriducibile a merce, a prodotto di mercato – non svolgono solo una funzione sociale, ma sono efficaci dinanzi a Dio. A dispetto del vento gelido che spirava per l’Umbria quel giorno, i cuori di chi c’era, o di chi partecipò in spirito, erano pieni di calore… «Ciò che è nuovo nel Novecento cattolico romano – si scriverà al riguardo – è che nel livello alto della gerarchia alcuni gesti sono divenuti occasione solenne e irreversibile per affermare de facto una comunione ancora distante in dialogo» (A. Melloni). La Chiesa di Roma rompeva così, mediante un gesto concreto, con gli equivoci di una visione aggressiva dell’evangelizzazione, per cui i credenti delle altre fedi dovevano essere oggetto di proselitismo, figlia del tempo in cui il cristianesimo manteneva naturalmente stretti legami con l’espansione coloniale e l’eurocentrismo. Il pontefice invitava i cristiani a cogliere il kairòs che si stava manifestando, ad abbandonare l’abito mentale di chi si sente superiore e guarda alle altre religioni con una punta di disprezzo, come si scrutano le copie imperfette o i prodotti della preistoria.
Ora, a trent’anni da quella memorabile giornata, il prossimo martedì 20 settembre, papa Francesco si recherà nella città del santo suo omonimo, chiudendo la tradizionale tregiorni di Uomini e Religioni organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio e, ovviamente, celebrando l’anniversario tondo. Il titolo della manifestazione, dal 18 al 20, è Sete di pace. Religioni e culture in dialogo: sarà inaugurata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e vedrà la presenza di leader dei più svariati mondi religiosi, dal patriarca ecumenico Bartholomeos al primate anglicano Justin Welby fino al presidente del Consiglio ecumenico delle chiese Olav Fykse Tveit (ma anche ebrei, musulmani, buddhisti), nonché del patriarca laico del pensiero sociologico contemporaneo, Zygmunt Bauman, e di molti altri, ivi compreso un gruppo di rifugiati da quello che, trent’anni or sono, chiamavamo ancora Terzo Mondo.
Come si può notare facilmente, si tratta di un evento a forte rischio di deriva retorica: quasi sapessimo già, diciamo così, come andrà a finire. Eppure, l’inevitabile happy end che lascia le cose come se non fosse accaduto nulla è chiamato a fare i conti con i profondi cambiamenti di contesto che fanno sì che una Giornata delle religioni per la pace celebrata oggi non possa dare i risultati di quella di trent’anni fa. In primo luogo, sul piano politico: un conto è la Guerra fredda tra due superpotenze in affanno, un altro l’odierna Guerra mondiale a pezzi. Poi, sul versante delle religioni stesse, con il passaggio dai primi segnali della cosiddetta rivincita di Dio di allora all’attuale post-secolarizzazione; ma soprattutto con la coscienza, sempre più avvertita, che le religioni, in un pianeta violento, sono spesso parte del problema e non hanno alcun diritto di chiamarsi fuori, come se chi uccide in nome di Dio fosse semplicemente un deviante o un disagiato. È finita, in altri termini, qualsiasi ipotesi di innocenza: sappiamo che il virus violento sta dentro le religioni e i loro libri sacri, e che per purificarsene esse devono pagare un prezzo alto, altissimo. Infine, sulla funzione del dialogo: sognato e teorizzato nel tempo di papa Wojtyla, poi messo in discussione e segnalato a rischio relativismo nella sua declinazione ratzingeriana del venticinquennale (2011); e infine apertamente rilanciato in chiave di unità nella diversità e di invito a camminare insieme, nonostante tutto, dallo stesso Bergoglio. Che tornerà così per la terza volta ad Assisi nei suoi tre anni di pontificato, quasi a rincorrere non la mitologia di un santo universalmente osannato, bensì un modello di dialogo che condusse il figlio di Pietro Bernardone, per la prima volta nella storia della Chiesa, a proporsi alla Umma islamica non con l’arma potente della spada, ma con quella nuda del vangelo. Mettendo in crisi quanti, dopo di lui, continueranno a confidare nella forza della violenza, così spesso orrendamente declinata nel nome di Dio. Sulla base della capacità di risposta a questo triplice mutamento di scenario si misurerà la dose di retorica e di ritualità, o quella di parresìa e di vangelo, che proverrà da Assisi, trent’anni dopo.
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