Il casuale ritrovamento di alcune piastrine di militari italiani, morti nella ritirata dalla Russia alla fine del 1942, avvenuto a Kirov (800 km a Nord di Mosca), con resti umani e brandelli di divise militari di varie appartenenze nazionali in fosse comuni, ha riacceso l’attenzione sulla seconda guerra mondiale e in particolare sull’esito disastroso della campagna di Russia. Su 230.000 soldati italiani rimasero uccisi 88.548, di cui oltre 56.000 furono dichiarati dispersi. Le ultime ricerca negli archivi dell’ex-Unione Sovietica parlano di 64.500 prigionieri. Di quella tragedia vi sono molte testimonianze dirette come alcune pagine del romanzo di Eugenio Corti, Il cavallo rosso, o il racconto di Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio. Secondo l’Unirr (Unione nazionale italiana reduci di Russia), oltre al sito segnalato dai recenti scavi, ve ne sono altri che raccolgono centinaia e centinaia di morti in fosse comuni, come nel campo di Tambov. Oltre le migliaia di caduti nel viaggio a piedi di alcune settimane compiuto in condizioni impossibili (senza cibo, senza soste, senza cure, in un inverno a meno venti gradi, con il grido dei sorveglianti Davài talianskky, “Avanti italiani”).
Su quelle vicende vi è un racconto meno noto, scritto da un cappellano militare, liberato dai campi sovietici solo nel 1954, p. Giovanni Brevi (1908-1998), Ricordi di prigionia. Russia 1942-1954 (riedito dalle EDB nel 2013). Il comportamento dell’esercito russo nelle grandi sacche territoriali in cui venivano circondati le armate nemiche, fra cui l’Amir (Armata italiana in Russia), prevedeva l’eliminazione diretta per i piccoli gruppi e l’avvio ai campi di concentramento per i reparti più consistenti. «Fino a tutto il gennaio 1943 i prigionieri isolati furono la minoranza, gli eliminati i più. Salvo che si trattasse di intere divisioni o di reparti di notevole consistenza, le truppe russe regolari o le bande partigiane non facevano prigionieri ma passavano tutti per le armi. Quanto a rapidità di esecuzione venivano prima i tedeschi, seguivano i cappellani, le camice nere e infine i feriti». «Quanto di più orribile, di più atroce, di più inumano si possa immaginare ci sarebbe toccato nel trasferimento da Lalasch e Tambov, e nella stessa Tambov fino a tutto il mese di marzo del 1943». «Il periodo più funesto coincise col quadrimestre gennaio-aprile 1943 e specialmente in marzo-aprile quando nei vagoni chiusi la sete faceva impazzire: allora si beveva orina, si leccavano i bulloni gelati e la morte era considerata una dolce liberazione». «Un alpino della Morbegno racconta che erano in duemila al momento della cattura e, dopo 35 giorni di viaggio nei carri bestiame, erano giunti a Tambov in circa cinquecento», decimati da tifo esantematico e dissenteria.
Nel campo di Tambov, «se il termometro era sui trenta gradi sotto zero, ne morivano circa cento al giorno; se faceva meno freddo, i morti erano in media sessanta. Da notare che qualora non fossero quotidianamente arrivati dal fronte centinaia di altri prigionieri a prendere il posto dei defunti, il campo si sarebbe estinto in un mese. Due volte al giorno, mattino e sera, si sgomberavano i morti. Con una cintura stretta alla caviglia, venivano trascinati verso grandi fosse comuni, appositamente scavate per cinquecento persone». A queste fosse comuni hanno richiamato l’attenzione i gruppi di speleologi specializzati e le associazioni dei reduci e scomparsi.
Al ritorno, nel 1954, p. Brevi trovò lungo tutto il tratto ferroviario dal Tarvisio a Bologna, folle di madri, spose, sorelle che chiedevano di loro cari scomparsi. A distanza di quasi dieci anni dalla fine della guerra la voce di sopravvissuti era stata alimentata dalla disparità degli elenchi forniti alla Croce rossa dal potere sovietico (64.000), prontamente fatti circolare in Occidente, rispetto ai rientri effettivi. Quegli elenchi servivano ad alimentare gli aiuti all’esercito sovietico e più alti erano i numeri, più consistenti gli aiuti.
«“Perché? Perché? Perché?” ripeterà l’angoscia delle madri, delle spose, dei figli. La realtà è spietata, ma sarebbe disonesto continuare a ignorarla … Dei più di settantamila italiani inghiottiti nelle “sacche” nelle quali si erano trovati serrati dall’avanzata delle armate sovietiche, la maggior parte morì fra il gennaio e l’aprile del 1943». Dei prigionieri sono tornati 600 ufficiali e circa undicimila soldati.
L’attuale interesse per il luogo e un segno certo di morte da parte di parenti anche di terza generazione mostra la complessa e profonda gestione del ricordo dei propri morti. Molto più vero delle forme ideologiche che spingono a giustificare oggi la “morte anonima”, scambiando per asetticità e autonomia il grido trattenuto per relazioni vere e memorie lunghe.