Nel nostro impegno di preparazione alla santa pasqua, ci sentiamo in dovere di accogliere il messaggio veicolato dalle letture bibliche in tutta la sua portata. Ogni sforzo esegetico tende a fare chiarezza non solo sulle singole pagine bibliche, ma anche sul messaggio globale che esse trasmettono.
Il concilio Vaticano II ci ha insegnato che la sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale è stata scritta (cf. Dei Verbum, 12): indicazione ottima e provvidenziale per la quale noi ci sentiamo in dovere di invocare e di rimanere docili all’azione dello Spirito Santo che è il nostro maestro interiore.
1. La prima lettura ci presenta il racconto dell’alleanza che Dio stipula con Abramo, suo servo fedele. Dopo il primo racconto della vocazione di Abramo (cf. Gen 12,1ss), Dio sostiene il suo progetto con una serie di promesse, con le quali intende garantire la fedeltà di Abramo.
«Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza»: ecco la promessa. «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia»: ecco la risposta di Abramo. A partire da questo dialogo, si snoda tutta quella storia della salvezza, che coinvolgerà non solo il popolo eletto, ma l’intera umanità. Ricordiamo che il progetto salvifico di Dio passa attraverso un popolo, Israele, e attraverso una persona, Gesù di Nazaret, ma è rivolto e coinvolge tutti i popoli di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Poi il dialogo si sviluppa ulteriormente. il Signore si presenta: «Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei caldèi per darti in possesso questa terra» e Abramo chiede come potrà avere certezza che questo si realizzerà. Dinanzi a Dio che promette, Abramo si sente in dovere di chiedere come si realizzeranno le promesse: da questo dipende la stessa possibilità di credere.
Il rito che segue, di origine antichissima, non è altro che un modo per dire che Dio stesso, sotto forma di «un braciere fumante e una fiaccola ardente» passa in mezzo agli animali squartati per confermare la sua presenza. Il fuoco è simbolo della teofania: Dio vuole incontrarsi con l’uomo per sancire un patto di alleanza. Dio si mette in relazione con Abramo perché in lui ha trovato una risposta di fede.
2. Il salmo responsoriale ci invita a pregare con sentimenti di assoluta fiducia nel Signore, come risulta già dal ritornello: «Il Signore è mia luce e mia salvezza». Una fiducia nutrita da grandi certezze diventa fede.
Questa fiducia è talmente forte che si manifesta in termini di sfida: «Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò paura?»: chi ripone in Dio la sua fiducia diventa anche coraggioso nell’affrontare le prove della vita.
Questa fiducia poi si manifesta in termini di preghiera: «Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!». La preghiera fiduciosa, come questa, nasce solo dal cuore di chi crede che Dio è suo padre e perciò si rivolge a lui con i sentimenti del figlio.
La preghiera dell’orante, infine, va cercando un “luogo” in cui trovare sicurezza: il volto di Dio. «Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto»: questo anelito verso il volto di Dio, così frequente nei salmi, dovrebbe ispirare anche la nostra preghiera. E qual è quel figlio o figlia che non desidera fissare i suoi occhi sul volto del padre suo?
In questo salmo ci è offerta l’opportunità di vedere come è e come dovrebbe essere la nostra preghiera, soprattutto quella individuale, ricordando soprattutto l’esortazione di Gesù: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6).
3. La lettura apostolica è tratta dalla lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani della città di Filippi. Dalla prigione nella quale si trova, Paolo manifesta tutto il suo disappunto nel dover constatare come alcuni membri di quella comunità, a lui tanto cara (sono commoventi le espressioni che egli usa nell’ultima parte di questa lettera) vanno abbandonando i loro impegni di vita cristiana: un disappunto che gli provoca le lacrime: segno di un affetto speciale verso di loro.
Questo suo disappunto l’apostolo lo giustifica con alcuni passaggi, tra loro collegati. Innanzitutto Paolo si chiede verso che cosa, o meglio verso chi è orientata la vita di quei cristiani. Sono due infatti le possibilità: o uno si orienta verso Cristo, il cui esempio si riflette nella vita dell’apostolo, oppure verso un ideale solo terreno che non permette loro di vivere in pienezza la loro fede in Cristo, morto e risorto.
Questo ideale terreno Paolo lo vede presente nella vita di coloro che «si comportano da nemici della croce di Cristo»: espressione molto forte, che induce a pensare seriamente su come noi stiamo vivendo la nostra fede cristiana, sul valore che diamo alla croce. È solo il caso di ricordare come Paolo abbia vissuto la sua vita di apostolo in piena adesione allo «scandalo della croce» (cf. Gal 5,11; 1Cor 1,17-18).
Parlando di orientamento, con un colpo d’ala veramente eccezionale, Paolo dichiara che «la nostra cittadinanza è nei cieli», e così cerca di strappare i suoi interlocutori da un eccessivo attaccamento alla terra e ai relativi piaceri. La nostra vera patria, infatti, non è su questa terra, ma ne cerchiamo, cioè ne desideriamo, una futura (cf. Eb 13,14), nella quale «il Signore Gesù Cristo… trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso».
4. Il brano evangelico racconta il singolare evento della trasfigurazione di Gesù secondo l’evangelista Luca. Anche a questo proposito cercheremo di mettere in risalto il modo peculiare con il quale Luca descrive questo evento, che è di grande importanza nell’economia di tutto il Vangelo.
Il ministero galilaico di Gesù volge ormai verso il suo termine: davanti a Gesù si prospettano ormai Gerusalemme e la croce. Ai suoi discepoli, che accusano la fatica della sequela e cercano di rallentare il passo, Gesù si sente in dovere di offrire un momento di relax spirituale per mantenerli vicini a sé fino alla fine. Il Maestro vuole offrire ai suoi discepoli un insegnamento non solo a parole ma anche sostenuto da fatti.
Con Mosè e con Elia Gesù parla del suo esodo (èxodos) «che stava per compiersi a Gerusalemme»: l’evento della trasfigurazione, perciò, dice riferimento sostanziale alla passione-morte di Gesù, da considerare come momenti indisgiungibili dalla sua risurrezione.
I discepoli di Gesù, benché «oppressi dal sonno (…), videro la sua gloria (doxa)»: l’evento della trasfigurazione, perciò, dice riferimento anche alla risurrezione di Gesù: per crucem ad lucem! E così si completa il cerchio del mistero pasquale.
A fronte del mistero che sta per realizzarsi, Pietro esce con una richiesta inconsulta e si attira il rimprovero dell’evangelista: «Egli non sapeva quello che diceva». Un episodio simile a questo si ripeterà nel racconto dell’orto del Getsemani (cf. Luca 22,39-46): in ambedue emerge la debolezza dei discepoli che non comprendono, non pregano e non vigilano. Sono questi gli elementi necessari per prendere parte al mistero pasquale di Gesù: accogliere il suo magistero con docilità e intelligenza, pregare con perseveranza e fiducia, e rimanere vigili nell’attesa del suo ritorno.
Carlo Ghidelli