I drammatici reportage dei giorni scorsi provenienti dalla zona orientale del Congo, dove sono stati uccisi durante un conflitto a fuoco l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Jacovacci e l’autista Mustapha Milambo, ci hanno presentato un’Africa selvaggia e violenta: una strada polverosa al limitare delle foreste impenetrabili del Virunga, nascondiglio di presenze minacciose, una regione devastata da feroci conflitti tribali e etnici.
Errori che vengono da lontano
La rabbia e il dolore per aver perso persone capaci, buone e meravigliose, tre vite strappate «da artigli di una violenza stupida e feroce», come ha detto il card. Angelo De Donatis, ci opprimono il cuore e il pensiero… Lo strazio ci toglie poi il respiro nel riguardare il video della consegna del Premio Nassirya 2020 per la pace al nostro ambasciatore e nell’ascoltare le sue parole: «Fare l’ambasciatore è un po’ come una missione: quando sei un rappresentante delle istituzioni hai il dovere morale anzitutto di essere d’esempio».
E lui questo esempio lo ha dato con generosità e coraggio, occupandosi di progetti umanitari per lo sviluppo di gente che – ci viene da pensare – non merita alcun aiuto… «Noi li aiutiamo e loro ci ammazzano i nostri uomini migliori» ci viene da dire.
Senza quasi che lo vogliamo, si insinua in noi per l’ennesima volta l’idea che all’interno dell’umanità, esistano razze diverse che si distinguono per caratteristiche fisiche, ma anche intellettuali e morali e che esista in particolare una gerarchia tra le razze in base ai diversi livelli di civiltà conquistata.
Ma sappiamo che gli studi di genetica hanno dimostrato che il concetto stesso di razza è completamente infondato. Ancora una volta è lo studio della storia che ci porta a scoprire che questo stato di guerra e di violenza di tanti paesi africani ha le sue lontane origini nei secoli della tratta, quando i sovrani africani accumularono ingenti ricchezze grazie ai profitti della tratta degli schiavi: infatti, molti gruppi dirigenti africani vendevano come schiavi ai mercanti europei i prigionieri catturati nelle guerre locali oppure gli abitanti delle zone interne che venivano brutalmente rapiti e strappati alle loro famiglie.
Nel tardo Ottocento le potenze europee, che legittimarono la dipendenza politica ed economica dei paesi africani con la teoria della tabula rasa per cui gli africani non avevano, secondo loro, «inventato niente, creato niente, né scolpito né cantato» (secondo l’amara reazione di Leopoldo Senghor), crearono degli stati a tavolino, senza riguardo per preesistenti radicamenti politici, culturali, religiosi o etnici.
La nascita degli stati decolonizzati
In particolare, a partire dal 1885, anno della Conferenza di Berlino, il Congo, in competizione con i francesi, diventò proprietà personale del re del Belgio Leopoldo II che attuò un governo coloniale tra i più brutali della storia moderna: la popolazione locale fu sfruttata in maniera inumana e, al prezzo di milioni di vite di congolesi, il Congo divenne una grande e fruttuosa impresa commerciale per le popolazioni europee.
Questi stati artificiali, dai confini geometrici, quasi tracciati con il righello sulla mappa geografica, erano privi di strutture amministrative, burocrazie esperte e tradizioni politiche. La colonizzazione da parte delle potenze europee ha precluso loro la possibilità di evolversi e di creare una struttura politica adeguata ad istanze sociali, culturali e religiose del tutto differenti da quelle degli stati moderni dell’Europa. È questa una delle principali cause della loro debolezza e perdurante instabilità, travagliata da continui colpi di stato, guerre civili e dittature.
La maggior parte degli stati africani non è quindi il risultato di una evoluzione storica, come gli stati moderni europei, ma di una rapida conquista e di un’altrettanto rapida liberazione: la decolonizzazione degli anni Sessanta-Settanta del Novecento.
A causa dell’altissima eterogeneità etnica, per timore di non riuscire a controllare le popolazioni, i governi degli stati africani diventati indipendenti sottoscrissero nel 1964 la Risoluzione del Cairo che li impegnava a rispettare le frontiere esistenti al conseguimento della loro indipendenza nazionale.
Patrice Lumumba, leader dell’indipendenza nazionale e primo ministro della Repubblica Democratica del Congo indipendente, primo – e per quarant’anni unico – dirigente politico congolese eletto democraticamente, svolse un’intensa attività interna e internazionale diretta a garantire l’unità e l’indipendenza del paese contro la forza disgregatrice delle tradizioni tribali e degli interessi economici belgi. Il Belgio infatti, proprio per mantenere questi suoi interessi sulla regione, sostenne le forze opposte a Lumumba, favorendo l’ascesa al potere di Mobutu, uno dei cleptocrati più crudeli e rapaci del Novecento.
Che la rivolta separatista del Katanga, la quale ha portato, con il sostegno dell’esercito, alla uccisione di Lumumba, sia stata fomentata dalle compagnie minerarie occidentali che fino ad allora avevano sfruttato i ricchi giacimenti congolesi e volevano mantenerne il controllo, è scritto in tutti i testi scolastici di storia contemporanea.
Come per il Congo, anche in molti altri paesi dell’Africa si realizzarono governi dittatoriali in cui il dittatore e lo stato si identificavano perché non vi era distinzione tra gli organi e le proprietà dello stato e quelli personali del dittatore. Di fatto, si verificò la fusione tra la politica e gli affari privati.
In Congo oggi si intrecciano diversi conflitti. Il Ruanda è fortemente coinvolto sia nelle faccende militari a seguito del cruento strascico del massacro del 1994 sia nelle reti minerarie del Congo orientale in quanto offre sostegno ai ribelli.
L’esercito congolese è, in teoria, l’istituzione che avrebbe dovuto salvaguardare il monopolio di stato sull’uso della forza, ma all’atto pratico è solo l’ennesimo predatore a danno dei civili.
Con l’avvento della globalizzazione, i protagonisti stranieri non sono più re o imperi, ma magnati dell’industria e multinazionali a cui il Congo vende i suoi minerali a prezzi di gran lunga inferiori al loro reale valore.
Durante le due guerre del Congo gli investigatori dell’ONU definirono le aziende che commerciavano minerali «i motori del conflitto».
Una ricchezza rubata
Il Congo è uno dei primi produttori al mondo di due minerali, columbite e tantalite, la cui combinazione si chiama coltan, essenziale per il funzionamento dei microchip che sono alla base della rivoluzione informatica. Infatti, questo minerale contiene un metallo, il tantalio, il cui punto di fusione e la conduttività elevatissimi fanno sì che i componenti elettronici che se ne ricavano possano essere molto più piccoli di quelli fabbricati con altri metalli. Proprio grazie alle dimensioni ridottissime dei condensatori di tantalio, i nostri dispositivi elettronici sono sempre più compatti e onnipresenti.
Il 60 % del coltan utilizzato a livello mondiale proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, più precisamente dal Kivu, una regione a ridosso del Ruanda e del Burundi, zona di una bellezza naturale mozzafiato, ma lacerata dai conflitti. Goma, che ne è il capoluogo, e Rutshuru, diventate per noi oggi tristemente famose, si trovano in questo territorio. Decine di gruppi armati se ne contendono il controllo: alcuni sono al servizio di capi locali, altri al servizio di potenze straniere, ma tutti con lo stesso obiettivo: controllare le immense ricchezze minerarie che la regione contiene, oro, stagno, tungsteno, ma soprattutto il coltan.
«Se abbiamo un pc portatile, oppure un telefonino, un iPod, un pacemaker o una playStation, c’è più o meno una possibilità su cinque che dentro questi dispositivi pulsi un minuscolo pezzettino di Congo orientale» (T. Burgis).
Un groviglio di interessi
La ricchezza mineraria è una maledizione per una popolazione che vive nella povertà e nel terrore, costretta a lavorare nelle miniere per estrarre i minerali che la banda militare occupante venderà ai trafficanti specializzati nell’esportazione di contrabbando.
Abitare un paese ricchissimo di risorse e sperimentare ogni giorno l’impossibilità di soddisfare i bisogni primari ricorda, con amara ironia, il supplizio di Tantalo il cui nome ritorna nella denominazione del minerale tanto ambito e così abbondante in Congo.
Non c’è nemmeno campo per il cellulare (cosa paradossale in una zona in cui abbonda il tantalio…), i due terzi della popolazione non hanno cibo a sufficienza, i bambini sono denutriti. Molti di loro lavorano nelle miniere perché i loro corpi sottili riescono ad entrare nelle strette buche da cui si estraggono le pietre che contengono il coltan. Il loro salario non arriva a un dollaro al giorno e forse molti di loro potrebbero anche essere piccoli schiavi rapiti o comprati dalle famiglie.
Dalla regione esce coltan ed entrano armi. Perché i proventi della vendita del minerale non si trasformano in cibo, case e medicine per la popolazione, ma servono a pagare soldati e armi che tengono in piedi i gruppi armati. Intanto lo stato ombra continua a prosperare.
Il commercio di minerali del Congo orientale tocca ogni angolo del globo: la macchina del saccheggio continua tra abitanti del posto che controllano le miniere, intermediari, gruppi paramilitari, trafficanti locali, commercianti, racket del contrabbando che fanno uscire il coltan dall’est, mercati globali, compagnie minerarie e multinazionali della metallurgia e dell’elettronica, organizzazioni criminali internazionali, da ultimo anche milizie jihadiste.
Alla fine della filiera, ci sono consumatori che non si pongono domande sulla storia di ciò che comprano… Proprio La macchina del saccheggio è il titolo che Tom Burgis, giornalista investigativo del Financial Times, dà alla sua inchiesta su “Signori della guerra, magnati, trafficanti e il furto sistematico delle ricchezze africane”, come recita il sottotitolo (Francesco Brioschi Editore, 2016).
È questo binomio inscindibile tra le guerre africane e gli interessi economici mondiali, i collegamenti documentati tra l’attuale corruzione e violenza del paese e i profitti delle grandi multinazionali che creano quella lunga striscia di sangue che arriva fino a noi oggi con l’infinito e indicibile dolore della uccisione di Luca Attanasio, una persona che si è impegnata in prima persona per la giustizia e per la pace.
«È alla portata di tutti conoscere le condizioni di violenza e illegalità in cui si estrae e si commercializza il coltan, ma non se ne parla volentieri per non compromettere gli enormi interessi degli affaristi e delle multinazionali. Così come è alla portata di tutti consumare in maniera critica, informarsi su queste storie e sui retroscena sociali e ambientali di questo o di quel prodotto, fondare associazioni di consumatori responsabili, organizzare il servizio, già attivo in altri paesi, di fare ricerche sulle imprese, analizzando tutta la filiera fino ai fornitori di materia prima, esigendo dalle imprese di rendicontare il rispetto dei diritti umani lungo tutta la catena del valore.
Così facendo non mettiamo solo a posto la nostra coscienza, ma anche noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di dare una mano a far cambiare le cose» (libero adattamento da F. Gesualdi, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Risorsa Umana, L’economia della pietra scartata, San Paolo, 2015).